Carcere & Giustizia

Cospito rischia seriamente di morire, il tempo sta per scadere: è necessario revocare il regime del 41 bis, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria

Alfredo Cospito è a un passo dalla morte nel carcere di Bancali a Sassari all’esito di uno sciopero della fame che dura, ormai, da 80 giorni. Detenuto in forza di una condanna a 20 anni di reclusione per avere promosso e diretto la FAI-Federazione Anarchica Informale (considerata associazione con finalità di terrorismo) e per alcuni attentati uno dei quali qualificato come strage pur in assenza di morti o feriti, Cospito è in carcere da oltre 10 anni, avendo in precedenza scontato, senza soluzione di continuità, una condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi.

Dal 2016 è stato inserito nel circuito penitenziario di Alta Sicurezza 2, mantenendo, peraltro, condizioni di socialità all’interno dell’istituto e rapporti con l’esterno. Ciò sino al 4 maggio 2022, quando è stato sottoposto al regime previsto dall’art. 41 bis ordinamento penitenziario, con esclusione di ogni possibilità di corrispondenza, diminuzione dell’aria a due ore trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri e riduzione della socialità a una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti. Per protestare contro l’applicazione di tale regime e contro l’ergastolo ostativo, il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame che si protrae tuttora con perdita di 35 chilogrammi di peso e preoccupante calo di potassio, necessario per il corretto funzionamento dei muscoli involontari tra cui il cuore. La situazione si fa ogni giorno più grave, e Cospito non intende sospendere lo sciopero, come ha dichiarato nell’ultima udienza davanti al Tribunale di sorveglianza di Roma: «Sono condannato in un limbo senza fine, in attesa della fine dei miei giorni. Non ci sto e non mi arrendo. Continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro».

Lo sciopero della fame di detenuti potenzialmente fino alla morte è una scelta esistenziale drammatica che interpella le coscienze e le intelligenze di tutti. È un lento suicidio (che si aggiunge, nel caso di Cospito, agli 83 suicidi “istantanei” intervenuti nelle nostre prigioni nel 2022), un’agonia che si sviluppa giorno dopo giorno sotto i nostri occhi, un’autodistruzione consapevole e meditata, una pietra tombale sulla speranza. A fronte di ciò, la gravità dei fatti commessi non scompare né si attenua ma deve passare in secondo piano. Né vale sottolineare che tutto avviene per “scelta” del detenuto. Configurare come sfida o ricatto l’atteggiamento di chi fa del corpo l’estremo strumento di protesta e di affermazione della propria identità significa tradire la nostra Costituzione che pone in cima ai valori, alla cui tutela è preposto lo Stato, la vita umana e la dignità della persona: Per la sua stessa legittimazione e credibilità, non per concessione a chi lo avversa. Sta qui – come i fatti di questi giorni mostrano nel mondo – la differenza tra gli Stati democratici e i regimi autoritari.

La protesta estrema di Cospito segnala molte anomalie, specifiche e generali: la frequente sproporzione tra i fatti commessi e le pene inflitte (sottolineata, nel caso, dalla stessa Corte di assise d’appello di Torino che ha, per questo, rimesso gli atti alla Corte costituzionale); il senso del regime del 41 bis, trasformatosi nei fatti da strumento limitato ed eccezionale per impedire i contatti di detenuti di particolare pericolosità con l’organizzazione mafiosa di appartenenza in aggravamento generalizzato delle condizioni di detenzione; la legittimità dell’ergastolo ostativo, su cui il dibattito resta aperto anche dopo l’intervento legislativo dei giorni scorsi e molto altro ancora. Non solo: la stessa vicenda di Cospito è ancora per alcuni aspetti sub iudice ché la Corte costituzionale deve pronunciarsi sulla possibilità che, nella determinazione della pena, gli effetti della recidiva siano elisi dalla concessione dell’attenuante della lievità del fatto e la Cassazione deve decidere sul ricorso contro il decreto applicativo del 41 bis. Su tutto questo ci si dovrà confrontare, anche con posizioni diverse tra di noi. Ma oggi l’urgenza è altra. Cospito rischia seriamente di morire:può essere questione di settimane o, addirittura, di giorni. E l’urgenza è quella di salvare una vita e di non rendersi corresponsabili, anche con il silenzio, di una morte evitabile. Il tempo sta per scadere.

Per questo facciamo appello all’Amministrazione penitenziaria, al Ministro della Giustizia e al Governo perché escano dall’indifferenza in cui si sono attestati in questi mesi nei confronti della protesta di Cospito e facciano un gesto di umanità e di coraggio. Le possibilità di soluzione non mancano, a cominciare dalla revoca nei suoi confronti, per fatti sopravvenuti e in via interlocutoria, del regime del 41 bis,applicando ogni altra necessaria cautela. È un passo necessario per salvare una vita e per avviare un cambiamento della drammatica situazione che attraversano il carcere e chi è in esso rinchiuso.

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7 GENNAIO 2023
ALESSANDRA ALGOSTINO, DOCENTE DI DIRITTO COSTITUZIONALE, UNIVERSITÀ DI TORINO
SILVIA BELFORTE, GIÀ DOCENTE DI ARCHITETTURA, POLITECNICO DI TORINO
EZIO BERTOK, PRESIDENTE CONTROSSERVATORIO VALSUSA
DON ANDREA BIGALLI, PARROCO IN FIRENZE, REFERENTE DI LIBERA PER LA TOSCANA
MARIA LUISA BOCCIA, PRESIDENTE DEL CRS (CENTRO PER LA RIFORMA DELLO STATO)
MASSIMO CACCIARI, FILOSOFO
GIAN DOMENICO CAIAZZA, AVVOCATO, PRESIDENTE UNIONE CAMERE PENALI ITALIANE
DON LUIGI CIOTTI, PRESIDENTE DEL GRUPPO ABELE E DI LIBERA
GHERARDO COLOMBO, GIÀ MAGISTRATO, PRESIDENTE DELLA GARZANTI LIBRI
AMEDEO COTTINO, PROFESSORE DI SOCIOLOGIA DEL DIRITTO NELLE UNIVERSITÀ DI TORINO E UMEÅ (SVEZIA)
GASTONE COTTINO, ACCADEMICO ED EX PARTIGIANO, GIÀ PRESIDE FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA, UNIVERSITÀ DI TORINO
BENIAMINO DEIDDA, MAGISTRATO, GIÀ PROCURATORE GENERALE DI FIRENZE
DONATELLA DI CESARE, DOCENTE DI FILOSOFIA TEORETICA, UNIVERSITÀ DI ROMA LA SAPIENZA
DANIELA DIOGUARDI, UDI (UNIONE DONNE ITALIANE), PALERMO
ANGELA DOGLIOTTI, VICE PRESIDENTE CENTRO STUDI SERENO REGIS
ELVIO FASSONE, GIÀ MAGISTRATO E PARLAMENTARE
LUIGI FERRAJOLI, FILOSOFO DEL DIRITTO
GIOVANNI MARIA FLICK, GIÀ PRESIDENTE DELLA CORTE COSTITUZIONALE E MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
CHIARA GABRIELLI, DOCENTE DI PROCEDURA PENALE, UNIVERSITÀ DI URBINO
DOMENICO GALLO, MAGISTRATO, GIÀ PRESIDENTE DI SEZIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
ELISABETTA GRANDE, DOCENTE DI SISTEMI GIURIDICI COMPARATI NELL’UNIVERSITÀ DEL PIEMONTE ORIENTALE
LEOPOLDO GROSSO, PRESIDENTE ONORARIO DEL GRUPPO ABELE
FRANCO IPPOLITO, PRESIDENTE FONDAZIONE BASSO
ROBERTO LAMACCHIA, AVVOCATO, PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA GIURISTI DEMOCRATICI
GIAN GIACOMO MIGONE, DOCENTE DI STORIA DELL’AMERICA DEL NORD NELL’UNIVERSITÀ DI TORINO, GIÀ SENATORE
TOMASO MONTANARI, DOCENTE DI STORIA DELL’ARTE, RETTORE DELL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI SIENA
ANDREA MORNIROLI, COOPERATORE SOCIALE, NAPOLI
MONI OVADIA, ATTORE, MUSICISTA E SCRITTORE
GIOVANNI PALOMBARINI, MAGISTRATO, GIÀ PROCURATORE GENERALE AGGIUNTO PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE
MICHELE PASSIONE, AVVOCATO IN FIRENZE
VALENTINA PAZÉ, DOCENTE DI FILOSOFIA POLITICA, UNIVERSITÀ DI TORINO
LIVIO PEPINO, PRESIDENTE DI VOLERE LA LUNA E DIRETTORE EDITORIALE DELLE EDIZIONI GRUPPO ABELE
ALESSANDRO PORTELLI, STORICO E DOCENTE DI LETTERATURA ANGLOAMERICANA ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA LA SAPIENZA
NELLO ROSSI, MAGISTRATO, GIÀ AVVOCATO GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE
ARMANDO SORRENTINO, AVVOCATO, ASSOCIAZIONE ITALIANA GIURISTI DEMOCRATICI, PALERMO
GIANNI TOGNONI, SEGRETARIO GENERALE DEL TRIBUNALE PERMANENTE DEI POPOLI
UGO ZAMBURRU, PSICHIATRA, FONDATORE DEL CAFFÈ BASAGLIA DI TORINO
PADRE ALEX ZANOTELLI, MISSIONARIO COMBONIANO

Per aderire all’appellohttps://forms.gle/jtekmZS4zsdLPUht6

* Fonte/autore: il manifesto

13 persone morte in stato di detenzione nell’arco di poche ore, un evento senza precedenti nella storia delle carceri italiane. Dopo quasi cinque mesi poco o nulla si conosce pubblicamente sulle cause e circostanze di quella vera e propria strage. Fors’anche perché a essa ha fatto immediatamente seguito una campagna, a reti unificate, di certa antimafia che indicava una regia nelle proteste in quel momento in corso nelle carceri, dove crescevano, sino ad esplodere, i timori per la pandemia allora nel momento più espansivo. Complici la scarsa informazione, il blocco dei colloqui e di ogni attività, il sovraffollamento che rende vana qualsiasi prevenzione dal contagio, un’assistenza sanitaria a dir poco tradizionalmente carente.

I media hanno prontamente raccolto e rilanciato quell’allarme, al solito senza verifiche e senza contradditorio; certa politica, altrettanto per solito, ha cavalcato e strumentalizzato, al fine di scongiurare scarcerazioni (e limitazione di nuovi ingressi) che in quel momento avvenivano in tutto il mondo, sollecitate dagli organismi sanitari e da quelli sovranazionali.

Negli Stati Uniti, per dire, tra marzo e giugno 2020, è stato rilasciato circa l’8% – oltre 100.000 persone – della popolazione detenuta nelle carceri statali e federali statunitensi. Eppure, come noto, si tratta del Paese che ha “inventato” il populismo penale e la “tolleranza zero”, tanto da aver raggiunto il tasso di detenzione più elevato a livello mondiale. Ma i prigionieri sono stati rilasciati a decine di migliaia persino in nazioni prive di condizioni e tradizioni democratiche, come la Turchia o l’Iran. Nei Paesi membri del Consiglio d’Europa, già a metà dello scorso aprile, 128.000 detenuti erano stati rilasciati come misura per prevenire la pandemia. In nessuno l’argomento è però diventato materia di speculazioni politiche come da noi. Forse grazie anche al fatto che il ministro e il capo delle carceri competenti ben poco hanno fatto per evitare le strumentalizzazioni.

Offensiva mediatica e politica che ha altresì posto sulla difensiva e spesso costretto al silenzio molte delle associazioni, dei Garanti, del volontariato che in carcere sono impegnati o che comunque i veri problemi del carcere conoscono.

Per chiedere verità e giustizia su quelle morti si è comunque subito costituito dal basso un comitato, che, pur negli ostracismi e nel totale silenzio stampa, ha presto raccolto centinaia di adesioni e che da allora cerca di non fare scendere del tutto il silenzio sulla tragica e inedita vicenda, diffondendo informazioni, denunce, sollecitazioni.

 

I fatti, messi in fila

Riassumiamo i fatti, per i distratti.

Tra l’8 e il 9 marzo, in contemporanea con l’annuncio del lockdown da parte del governo, si innescano proteste in diverse carceri, in alcune delle quali assumono caratteristiche violente, con danneggiamenti delle strutture. Il bilancio vede 13 detenuti morti, quattro addirittura deceduti il giorno seguente dopo essere stati sfollati o durante il trasferimento ad altro istituto. Da subito, viene diffusa dalle autorità, e ripresa senza controllo dai media, la notizia che la causa di morte è da attribuirsi all’abuso di medicinali sottratti durante la sommossa.

La versione assume ufficialità poco dopo con l’intervento del ministro della Giustizia, chiamato a riferire alle Camere l’11 marzo; nelle pochissime parole dedicate alla strage, il Guardasigilli afferma che le morti tra i detenuti sono dipese da «cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini». Nessun’altra informazione o dettaglio, neppure i nomi dei defunti, che saranno resi noti da un giornalista soltanto parecchi giorni dopo.

Dopo di che è calato un integrale silenzio da parte delle istituzioni, a parte qualche indiscrezione fatta trapelare dai magistrati, interrotto solo il 9 aprile, allorché un sottosegretario – neppure alla Giustizia bensì all’Istruzione – viene delegato a rispondere all’interpellanza che un unico deputato, sollecitato dal Comitato per la verità e la giustizia sulle morti in carcere, aveva depositato.

Questa volta, alla genericità e omissività precedente, subentra il tradizionale e comodo rifugio del segreto: «Tutti i dettagli e le informazioni contenute negli atti trasmessi alle procure della Repubblica costituiscono fatti coperti dal segreto investigativo e ovviamente non possono essere disvelati. Allo stesso modo, non sono disponibili gli esiti delle autopsie, effettuate su disposizione dell’autorità giudiziaria, che, all’esito dei percorsi di indagine, potrà valutare la desecretazione degli atti che sono stati compiuti».

Nessuno eccepisce. Né in Parlamento né nella libera informazione che, peraltro, neppure pare accorgersi del discutibile pronunciamento. Essendo ormai troppo abituati i media a dare notizie del carcere, e di ciò che vi avviene, solo a seguito e sulla scorta di comunicati e delle dichiarazioni di uno o l’altro dei sindacati della polizia penitenziaria. Di modo che anche quando si tratti di suicidi di detenuti, come da ultimo nel carcere di Como, dove sabato 25 luglio si è ucciso in recluso, la notizia diventa quella della carenza e dell’abnegazione del personale, mentre al tragico evento vengono dedicate quattro righe quattro a fronte delle 40 e più invece riservate alle dichiarazioni dei segretari dello stesso sindacato e ai loro attacchi nei confronti dei Garanti dei detenuti e delle associazioni.

Non può dunque stupire che, a quasi 150 giorni di distanza dai fatti, le spiegazioni di fronte a una strage di detenuti senza precedenti che il governo e l’istituzione penitenziaria ritengono di dover fornire ai cittadini, oltre che ai famigliari delle vittime, siano l’appello al segreto.

In fondo c’è una pandemia in corso, e qui si tratta nient’altro che di vite di scarto. Valgono ancor meno di quelle altre che, nel tempo del Covid, si sono lasciate spegnere a migliaia in solitudine in qualche ospizio per vecchi, ormai improduttivi e dunque ritenuti inutili, privi di valore ancorché innocenti. A differenza di quelli che sono morti nelle celle. Uccisi perlopiù dal virus del pregiudizio, dell’odio e del rancore sociale lasciati distrattamente crescere – quando non artatamente fomentati – contro i “delinquenti”.

Le carceri, ripetono da anni i cinici inventori e utilizzatori di questo rodato e antico meccanismo di distrazione di massa, sono alberghi (a cinque stelle aggiungono i più temerari), da cui è più facile uscire che entrare.

Peccato che siano diventati alberghi della paura e della disperazione e che spesso se ne esca con i piedi in avanti.

* pubblicato su Vita.it

«Celle dedicate alla punizione dei detenuti con scompensi psichici. Venivano obbligati a spogliarsi e a gridare frasi come “Sono un pezzo di m…” mentre gli agenti li malmenavano con schiaffi e pugni, attrezzati di guanti per non lasciare i segni. “Figlio di p…, ti devi impiccare” urlava la guardia carceraria Antonio Ventroni al detenuto Daniele Caruso dopo averlo portato in infermeria.

In due gli sputavano addosso e lo colpivano con violenti pugni al volto, provocandogli un ematoma a un occhio, emorragia dal naso e una lesione a un dente incisivo superiore che, dopo qualche tempo, a causa di quel colpo cadeva”. Decine di episodi a partire dalla primavera del 2017, denunciati prima dai detenuti e poi dalla garante di Torino, Monica Gallo, ma sempre ignorati a tutti i livelli.

È l’intero “sistema carcere” a essere finito sotto inchiesta da parte del pubblico ministero di Torino Francesco Pelosi: inchiesta che si è chiusa con 25 indagati che vanno dal direttore della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Domenico Minervini, al capo delle guardie carcerarie, Giovanni Battista Alberotanza, ai rappresentanti del sindacato più attivo della polizia penitenziaria, l’Osapp.

Violenze fisiche e vessazioni ai detenuti, denunciate in più occasioni, costano ai principali indagati l’accusa di tortura, per “condotte che comportavano un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona detenuta”, reato mai contestato prima per le violenze all’interno del carcere. Favoreggiamento e omissione di denunce di reati sono invece le accuse per il direttore Domenico Minervini, il quale avrebbe sempre ignorato le lamentele e le segnalazioni della garante, lasciando che gli agenti agissero indisturbati.

Erano le celle numero 209, 210, 229, 230 della X Sezione quelle prescelte per isolare i detenuti che davano segno di scompenso psichico, nonostante nel carcere di Torino esista una sezione apposita per quel tipo di problematiche. L’ispettore Maurizio Gebbia e altri agenti penitenziari portavano lì i reclusi per “punirli” nel silenzio generale che consentiva loro di eludere le indagini.

E quando i detenuti erano troppo malconci e dovevano farsi visitare li minacciavano dicendo loro che “dovevano dichiarare che era stato un altro detenuto a picchiarlo, altrimenti avrebbero usato nuovamente violenza su di lui, così costringendolo il giorno successivo alle violenze a rendere in infermeria questa falsa versione dei fatti”, come è riepilogato nel documento di chiusura delle indagini».

Così le cronache dei giornali riferiscono della chiusura dell’inchiesta sulle violenze contro reclusi nel carcere di Torino (Ottavia Giustetti, “la Repubblica”, 21 luglio 2020).

Ora i giudici dovranno pronunciarsi ed eventualmente confermare le accuse emerse dalle indagini che ieri si sono chiuse e che meritoriamente si erano aperte grazie alle denunce degli stessi detenuti e alla Garante di Torino.

Quello che, intanto, si sa per certo è che detenuti e Garante hanno portato sul tavolo dei magistrati materiale sufficiente a non far archiviare il caso e un velo è stato squarciato. Quel velo che da molto tempo, ma negli anni più recenti con più aggressività, è stato tessuto anche mediaticamente a copertura di una realtà profonda del carcere, quella della sua perdurante natura violenta di istituzione totale e dell’impunità di chi quella violenza esercita, che nel buio delle notti delle tante “X sezioni” non ha mai smesso di produrre arbitrio, botte, umiliazioni. Torture.

Chi scrive sa – per personale esperienza, avendo vissuto a lungo nelle celle anche del carcere torinese, e per conoscenza, dai tanti anni di impegno, lavoro e attività sul carcere – che per una volta che si fa giustizia per altre cento, o mille, volte cala il silenzio. Il silenzio della paura, della debolezza, della mancata tutela di chi subisce; il silenzio dell’opacità dell’istituzione, del mancato o omesso controllo di chi agisce, della sottovalutazione o, peggio, della copertura. La cultura dell’omertà, in questi casi, non solo lascia condotte gravissime impunite e esseri umani indifesi, picchiati e nudi, in balìa della violenza, ma concorre a legittimare, in silenzio ma nei fatti, una violenza che diventa istituzionale, tollerata, ammessa, anche quando la maggioranza degli agenti non la condivida e non la pratichi, o magari pensi che un carcere “costituzionale” sia più gestibile, anche per loro, di un carcere violento.

Il silenzio la permette, la reitera, la consacra, questa violenza. Anche per questo, onore ai detenuti che hanno denunciato, rischiando come solo in carcere si rischia, e alla Garante che ha svolto il suo compito, rispettandone il mandato profondo.

Da anni, e nei tempi più recenti soprattutto, i media rilanciano, spesso senza approfondimenti e tanto meno contraddittorio, comunicati stampa e prese di posizione di alcuni tra i sindacati di polizia penitenziaria – incluso quello citato nell’articolo – la cui cifra è quella di rimandare alla pubblica opinione un’idea di carcere in mano ai detenuti, gestito in maniera lassista; i reiterati attacchi portati a chiunque voglia introdurre elementi di riforma e maggior rispetto della norma costituzionale, si ripetono, fino al più recente attacco frontale contro la figura e i compiti del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Figura di cui, ancora ieri, uno di quei sindacati ha chiesto l’abolizione.

Così, anche le lotte contro la disperazione indotta da una sciagurata gestione dei provvedimenti anti Covid-19, diventa l’immagine di un carcere dominato da pochi caporioni, immagine ridicola per chi di carcere ne sa, ma seducenti per chi non ne sa (e preferisce non sapere). Una comunicazione che ha presa su una società che del carcere tutto ignora, e che al contempo nutre una – ed è nutrita da una – crescente voglia di forca.

Una comunicazione mediatica schizofrenica, che a volte concede qualche piccolo spazio alle “belle cose” che si fanno in carcere, quando il mondo esterno, le associazioni, il volontariato, gli enti locali si danno da fare per costruire ponti tra dentro e fuori, per sostenere percorsi di ritorno alla libertà, per smussare l’isolamento e l’opacità della detenzione. “Belle cose”, progetti culturali e sociali, che anche noi, negli anni, anche a Torino, abbiamo fatto, promosso, sostenuto, nella convinzione che “liberarsi della necessità del carcere” sia un percorso, non possa essere uno slogan. Ma se le “belle cose” non sono – sempre, con forza, con consapevolezza – incardinate in una decisa azione di conoscenza, controllo, presidio dei diritti fondamentali di chi è rinchiuso, rischiano di tradire i loro stessi fini.

Lo sa bene chi interviene in carcere, chi ne ha esperienza: il rischio del doppio binario, in superficie le “belle cose”, sottotraccia la violenza taciuta delle “X sezioni” è un rischio che va sciolto, affrontato. E uscire dal silenzio è la sola scelta possibile.

Forse è anche per questo che il carcere di Torino ha deciso, proprio nel 2017, che a due persone come noi, nonostante la volontà di dialogo, la propositività, le pregresse esperienze e quelle in corso in altri carceri, fosse vietato di entrare e lavorare con i detenuti e le detenute. Dopo una martellante campagna mediatica, condotta soprattutto dal citato sindacato, accolta e rilanciata dai media locali senza chiedersi se ci fossero altri punti di vista, e persino dall’allora procuratore capo, dopo il veto della polizia penitenziaria dell’istituto, che evidentemente conta più di ogni altro potere, siamo stati espulsi. Non un gesto, non una scorrettezza che ci potesse essere imputata, solo il dato biografico di essere stati a lungo detenuti in quelle celle, di portarne una diretta conoscenza, e di pensare, con molti e molte altri, che i diritti di chi è recluso siano una frontiera che nessuno può oltrepassare.

Ciò che oggi ci colpisce, ricordando quei giorni e quei fatti, è che era lo stesso anno, erano gli stessi mesi in cui cominciavano ad accadere le violenze e le torture oggi sul tavolo della magistratura. Gli ultimi nostri ingressi, lo spettacolo teatrale con le donne detenute e un incontro con i detenuti nel teatro del carcere, dedicato al tema dell’ergastolo ostativo, con la proiezione del docufilm “Spes contra Spem”, di Nessuno Tocchi Caino, anch’esso spesso, e di nuovo ieri, attaccato da quei sindacati.

In questa registrazione dell’evento di Radio Radicale c’è qualcosa che va riascoltato: le prime parole sul quel maledetto 2017, allora trascurate e silenziate ma oggi illuminanti. Ascoltatele con attenzione, dal 45,47° minuto e poi dal 54° del file 2/2 di quel video

 

In carcere si muore: constatazione di per sé ovvia, che diventa però inquietante se si comparano percentuali e frequenze rispetto alla popolazione generale e laddove si riscontrino casi di morti evitabili che non lo sono state a causa della struttura penitenziaria o di sue specifiche carenze e disfunzioni.

In base al meritevole e storico lavoro di raccolta dei dati svolto da “Ristretti orizzonti” nell’ultimo ventennio, dal 2000 a oggi (al 14 maggio 2020), i decessi in prigione risultano 3087, di cui 1125 per suicidio. Quest’ultimo, in Italia, è la prima causa di morte nelle celle, con un caso ogni 924 detenuti (che sale addirittura a uno su 283 tra i reclusi in 41bis) , a fronte di uno ogni 20.000 nella popolazione generale.

Cifre che ci introducono a una considerazione forse meno scontata: ovvero, che di carcere si può morire ed effettivamente si muore. Una verità sottaciuta, ma da sempre nota a chi conosce davvero le patrie galere. Neppure questi, però, avrebbero potuto immaginare che l’anno in corso avrebbe portato – oltre a rivedere dopo quasi mezzo secolo i detenuti salire sui tetti per protesta – un tragico record, con 13 reclusi morti nel giro di poche ore.

Non si era mai visto, neppure nella storica Pasqua Rossa del 21 aprile 1946 raccontata dallo scrittore Alberto Bevilacqua, allorché, in «una delle rivolte più imponenti del sistema carcerario mondiale» guidata da Ezio Barbieri, un rapinatore milanese capo della “banda della Aprilia nera”, «un eroe maledetto capace di amicizie e di amori intensi», nella Milano dell’immediato dopoguerra migliaia di reclusi in armi insorsero in quel di San Vittore. Furono costretti ad arrendersi, solo dopo quattro giorni, a colpi di mitragliatrice e addirittura di cannone, come mostrano le impressionanti immagini dell’epoca. Eppure, il bilancio fu di tre detenuti e un agente morti, oltre a numerosi feriti. Del solo poliziotto, a differenza dei reclusi, non da oggi considerati anonime e irrilevanti scorie sociali, è rimasto tramandato il nome: Salvatore Rap.

Quello odierno è un drammatico primato, insuperato neppure dalla famosa rivolta nel carcere di Alessandria del 10 maggio 1974, repressa sanguinosamente dai carabinieri; vi morirono due detenuti, due agenti di custodia, il medico del carcere, un’assistente sociale e un insegnante.

L’unico precedente che si avvicini in termini di numeri e di gravità è l’incendio accidentale della sezione femminile del torinese carcere delle Vallette, che il 3 giugno 1989 portò alla morte di nove recluse e di due vigilatrici. Episodio presto dimenticato, nonostante la sua tragicità e malgrado l’attivismo di alcune ex detenute politiche che si erano salvate dal rogo e dell’Associazione 3 giugno, allora costituita, che realizzò un dossier per ricordare le morti e per denunciare le disfunzioni e negligenze alla base della strage. Ancora nel 2019, con l’Associazione Sapere Plurale, hanno promosso e realizzato a Torino lo spettacolo Lascia la porta aperta per conservarne la memoria; invece già dolosamente inficiata, laddove nel Museo del carcere de Le Nuove di Torino si ricordano come vittime solo le vigilatrici. Le detenute, semplicemente, sono state espunte dalla narrazione della vicenda.

Non a caso, dunque, la vicenda torinese è richiamata dai promotori di un appello a costituire un Comitato per la verità e la giustizia sui 13 detenuti deceduti l’8 e 9 marzo 2020. Una nuova e ancor più ampia strage, sulla quale immediatamente si è cercato di fare calare una pesante cappa di silenzio, complice l’emergenza da coronavirus. Le misure disposte dalle autorità penitenziarie per contrastare il contagio attraverso la sospensione dei colloqui, unite alla paura generalizzata e ai timori dovuti alla scarsa informazione fornita ai reclusi, avevano determinato le proteste in decine di istituti, in alcuni casi degenerate in vere e proprie rivolte e in un caso, a Foggia, in una fuga di massa. Quella stessa emergenza ha più facilmente consentito a media e autorità una subitanea rimozione dell’accaduto e al ministro competente un’imbarazzante reticenza.

La discarica sociale

Come abbiamo già visto, del resto, nelle carceri da tempo divenute discarica sociale, deposito di vite a perdere, la morte non fa notizia e non lascia eco, come non l’aveva lasciata la loro vita. Scorre subito via, come schiuma nella risacca. Altro che carceri popolate da boss, come vorrebbe la cronaca bugiarda o approssimata dei media e l’indecente incitazione dei maggiori commentatori a rimettere prontamente in galera chi fosse stato scarcerato nei giorni della pandemia, anche se anziano, malato e a rischio, revocando le decisioni dei giudici, la cui autonomia e le cui prerogative, in questo caso, sono state stracciate senza remora e contra legem.

Su “Giustizia News on line”, il quotidiano del Ministero della Giustizia, al tragico evento dei 13 morti, nonostante sia di inedita gravità nella storia dei penitenziari italiani, vengono dedicate poche righe in due articoletti.

Nel primo, dal titolo Carceri: rientrate quasi tutte le proteste. Nono morto a Modena, datato 10 marzo, si dà atto, con una manifesta contraddizione, che «si sono conclusi quasi ovunque» i disordini «iniziati o ancora in atto» e che vi è stato un «Nono decesso a Modena: si tratta di un detenuto tunisino di 41 anni; anche nel suo caso si sospetta che la morte possa essere stata provocata dall’assunzione sconsiderata di farmaci presi durante il saccheggio dell’infermeria» (le sottolineature sono nostre). A poche ore dai tragici avvenimenti e in assenza di esami autoptici, dunque, sulle cause di morte vi sono “sospetti” che vengono subito diffusi alla stampa.

Sull’argomento, nella stessa data, vi è un’altra news: Carceri: detenuti ancora in protesta. Presi 50 degli evasi da Foggia. Vi si afferma che «a Modena è deceduto un altro detenuto, presumibilmente – come gli altri tre – a seguito di overdose da farmaci: ricoverato in gravi condizioni, è l’ottavo decesso dalla rivolta di domenica scorsa. Nell’istituto i disordini si sono conclusi e si stanno trasferendo gli ultimi detenuti».

Dalla comunicazione istituzionale, insomma, non è dato di capire se i disordini siano o no conclusi e neppure ancora quante siano le vittime. Quel che è certo, si fa per dire, è che presumibilmente siano rimaste uccise da overdose di farmaci. Il cronista del ministero, sia pure a livello di ipotesi, anticipa così quanto affermerà in una nota il procuratore aggiunto Giuseppe Di Giorgio solo quattro giorni dopo. La dichiarazione diffusa sollecitamente dalla procura, tuttavia, deve precisare che «l’esito definitivo degli accertamenti sarà disponibile nelle prossime settimane». Cautela non rilevata dai media, che titolano sul fatto che sarebbe stata confermata come causa di morte l’overdose di farmaci. I giornalisti più prudenti, di nuovo con qualche incoerenza espositiva, informano che «si sono concluse le autopsie sui detenuti deceduti durante i disordini: i primi esiti escludono una morte violenta e sembrano confermare l’ipotesi di overdose di farmaci» (di nuovo le sottolineature sono nostre).

In sostanza, dopo alcuni giorni e nonostante i primi esami, siamo ancora al livello delle presunzioni, pur se ora dotate di ufficialità. Inutile – o forse no – rilevare che nelle successive settimane dell’esito definitivo degli accertamenti autoptici sulla stampa non si troverà più traccia.

Dare un nome alle vittime

Del resto, il riserbo o l’indifferenza delle autorità è tale che a lungo non saranno neppure resi pubblici i nomi dei deceduti. E forse sarebbero rimasti anonimi a tutt’oggi, senza il decisivo intervento della stampa locale e di quella nazionale. Laddove singoli giornalisti hanno meritoriamente supplito ai silenzi e inadempienze delle autorità politiche e penitenziarie, così come alla distrazione e reticenza di gran parte dei loro colleghi.

I detenuti di Modena deceduti sono stati nove: cinque la domenica 8 marzo, altri quattro il giorno successivo, dopo o durante il trasferimento in nuovi penitenziari. Ulteriori tre sono morti a Rieti e uno a Bologna (pur se, inizialmente, qualcuno erroneamente ne conterà due).

Tre nomi erano stati ricostruiti nell’immediatezza dalla stampa locale, ma l’elenco completo arriverà solo grazie a Luigi Ferrarella, cronista di giudiziaria del “Corriere della Sera”, che riuscirà finalmente a pubblicarlo il 18 marzo: «Un nome, ce l’avevano pure loro. E anche una storia». Due soli gli italiani, il 35enne Marco Boattini, morto a Rieti e il 40enne Salvatore Cuono Piscitelli, deceduto ad Ascoli dopo il trasferimento da Modena. Gli altri erano stranieri, alcuni in attesa di giudizio, spesso per piccoli reati, talvolta connessi alle droghe. Diversi tunisini: Slim Agrebi, 40 anni; Lofti Ben Masmia anche lui quarantenne; Hafedh Chouchane, 36 anni; Ali Bakili, 52 anni; Haitem Kedri, 29 anni, Ghazi Hadidi, 36 anni. Dal Marocco venivano Erial Ahmadi, 37 anni, e Abdellah Rouan di 34. Infine, Ante Culic, 41 anni, croato, Carlo Samir Perez Alvarez dell’Ecuador e Artur Iuzu, 31 anni, moldavo; avrebbe avuto il processo il giorno successivo la morte.

Altri dettagli sulle 13 vittime arriveranno dalla giornalista Lorenza Pleuteri, con un articolo pubblicato il 2 aprile, che si è presa la briga di cercare e sentire volontari, operatori, magistrati, avvocati e di rintracciare famigliari. Di fare, insomma, il suo mestiere, a differenza di tanti altri colleghi.

Tutto ciò «nel totale silenzio del Ministero di Grazia e Giustizia e delle autorità», come scriverà a fine marzo la testata locale, “La Gazzetta di Modena”, che ricorderà come dei 13 morti non sia mai stata data la lista e neppure una spiegazione né dal ministro Alfonso Bonafede né dal Dipartimento dell’Autorità Penitenziaria.

Il ministro, in verità, aveva preso parola tempestivamente, con una informativa al Parlamento datata 11 marzo. Peccato che, con la stessa, non avesse chiarito alcunché. Né, appunto, fornendo i nomi e la posizione delle vittime; né, ancor meno, particolari sulla vicenda e sulle cause della strage. Vittime cui, in tutta la lunga relazione, il Guardasigilli dedica un unico passaggio. Dopo aver ricostruito nel dettaglio e stigmatizzato i disordini, «fuori dalla legalità e addirittura nella violenza non si può parlare di protesta; si deve parlare semplicemente di atti criminali», espresso la propria solidarietà agli «oltre 40 feriti della polizia penitenziaria, a cui va tutta la mia vicinanza e l’augurio di pronta guarigione», vi è un solo, lapidario, inciso al bilancio «purtroppo di 12 morti tra i detenuti, per cause che, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini».

Nessun particolare, nessuna specificazione, nessun chiarimento su chi e quanti siano gli abusatori di farmaci e quanti e quali gli altri, sui primi riscontri, sugli accertamenti in corso e quelli da fare. Nessuna informazione, in quella sede o altrove, neppure successivamente, è stata data sulle visite mediche che obbligatoriamente dovrebbero essere effettuate sui detenuti tradotti, tanto più che si sarebbe potuto – e dovuto – facilmente riscontrare anche da parte loro un abuso di farmaci che li portavano a rischio di decesso, come in effetti per alcuni avvenuto. Nessuno, in ogni caso, ha contestato al ministro, sui media o in parlamento, quel che ha giustamente rimarcato in un comunicato la Camera Penale di Modena: «risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione».

Vi sono dunque chiarimenti che doverosamente il ministro avrebbe dovuto dare – e che altrettanto doverosamente chi ne ha titolo avrebbe dovuto richiedere – anche riguardo le morti che effettivamente rientrino in quella sfuggente e ambigua definizione: “per lo più”.

Degli altri, dei “per lo meno”, a tutt’oggi, non si hanno notizie.

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* Questo scritto di Sergio Segio è pubblicato nel XI Libro Bianco sulle droghe 2020, dal titolo  “Droghe e Carcere al tempo del Coronavirus”. Sommario e materiali dal Rapporto e dalla sua presentazione, in occasione della Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droga, sono disponibili qui.

Il Libro Bianco, disponibile in versione cartacea in tutte le librerie e i rivenditori on line, sarà consultabile sul sito di Fuoriluogo.

 

Un dato di fatto: da quando è cominciata la cosiddetta emergenza Covid-19 e ancor di più da quando s’è avuta la famosa rivolta in diverse carceri il silenzio sulla realtà carceraria sembra diventato legge che nessun media infrange, tranne brevi notizie che trapelano quasi per caso e senza rilanci né conferme e malgrado la tenacia dei militanti più resistenti della causa dei detenuti.

Certo sarebbe più che mai prezioso che i Garanti regionali e quello nazionale garantissero almeno ogni due tre giorni l’informazione sulla situazione della diffusione del virus nelle carceri, i tamponi fatti e i risultati, le misure di prevenzione effettivamente adottate, ecc. E sarebbe anche prezioso che avvocati e volontari e democratici fra il personale del DAP riuscissero a comunicare regolarmente cosa succede. Siamo costretti a basarci sulle scarne e mozzate notizie trapelate…

Ed ecco che ci troviamo davanti situazioni che suscitano tanta inquietudine: come prevedibile nelle carceri il virus circola eccome ma da quanto si capisce si fa ben poco per contrastarne la diffusione. Basti pensare che era stato promesso una sorta di screening a tappeto, cioè tamponi a guardie e detenuti ma pare che il tampone si faccia solo su base volontaria! A rigor di logica visto che l’amministrazione ha ritenuto che la minaccia di contagio potesse arrivare dai famigliari e s’è quindi decretato il blackout dei colloqui e persino dello scambio biancheria e altro, è evidente il principale veicolo di contagio rimasto sono le guardie visto anche che s’è bloccato l’ingresso in carcere di avvocati, volontari ecc. E allora cosa s’è fatto per testare tutto il personale del DAP? Domanda retorica visto che lo stesso vale per l’assenza di tale prevenzione a tappeto fra le forze di polizia e in certi casi persino fra gli operatori sanitari. Esempi: il 20 aprile si scopre che il rischio di contagio all’interno del carcere di Verona è ormai ingestibile, ma dopo non si sa più nulla; a inizio maggio si scopre che nel carcere di Marassi sono stati accertati 17 detenuti e 13 guardie positivi ma poi non s’è saputo più nulla!

È stato scritto che il carcere è il luogo in cui il distanziamento fisico è di fatto impossibile e che immancabilmente comunica con l’esterno – innanzitutto attraverso i corpi delle guardie. Ma anziché trarre le ovvie conseguenze di questa banale constatazione cosa s’è scelto? La misura di ennesima punizione/afflizione dei detenuti, ossia la sospensione dei colloqui con i famigliari e persino dello scambio – controllato – di cose fra essi e i detenuti. E poi la gran polemica a proposito della misura sulla parzialissima scarcerazione di un’irrisoria percentuale di detenuti che peraltro non avrebbero più dovuto stare in prigione. Ma ecco che i signori giustizialisti si sono scatenati nel dire che si stavano scarcerando i boss mafiosi. A parte il fatto che in uno stato di diritto democratico anche i boss mafiosi e i terroristi hanno diritti e non sono condannati a morte senza alcun appello. Come ha mostrato Livio Pepino gli scarcerati sono stati tre e non centinaia. E comunque la gara a chi si accanisce di più con una penalità estrema ricorda solo il regime fascista. Ma questo sembra non vada a genio anche a tanti che si dicono democratici. Cosa resta allora da pretendere dai detenuti? Come auspicano alcuni che siano loro stessi a sanificarsi le celle! Che siano loro a cucirsi le mascherine e magari che siano loro a pagarsi il tampone? È questo che si vuole. Oppure che lo si dica esplicitamente che si vorrebbe una bella ecatombe nelle carceri così infine si smaltisce questa umanità a perdere! Non è forse questa la logica che c’è in fondo dietro alla gestione dei morti del Dozza? È la stessa logica della tanatopolitica che oggi spinge i dominanti a lasciar morire anziché lasciar vivere (la biopolitica) i migranti come buona parte dei popoli dei cosiddetti paesi terzi. Salvo a lasciar vivere ma solo per un po’ chi serve nella raccolta dei prodotti ortofrutticoli ma ripetiamolo solo come “usa-e-getta”. E chissà che a qualcuno non venga l’idea di usare i detenuti “bravi”, i “buon selvaggi” per squadre di lavoro coatto, ma anche loro come “usa-e-getta”. Stiamo esagerando? No, se non ci credete provate per un momento a immedesimarvi nel corpo di un detenuto, provate a scambiare lettere e comunicazioni con un detenuto. Pensate: perché non si dà ai detenuti la possibilità di disporre di un cellulare per ogni cella? Che cosa crediate che ne facciano se ne dispongono? Se le polizie vogliono saperlo hanno abbastanza mezzi per monitorarne le comunicazioni cosa che fanno regolarmente come ben sappiamo con le cosiddette intercettazioni che talvolta gli inquirenti trovano preziose. Allora che segreto di pulcinella stiamo coltivando? Spiace ma in Italia i democratici si stanno rivelando alquanto codardi. Avrebbero dovuto gridare e protestare con gran forza per difendere i diritti fondamentali dei detenuti, come degli immigrati, come dei “dannati della terra”. Invece si assiste a un silenzio che di fatto diventa complice e la complicità davanti a una deriva che va verso la tanatopolitica ricorda i momenti più bui della storia. Per fortuna anche fra i detenuti sopravvive la resistenza così come l’istinto anche inconsapevole di voler sopravvivere.

* Professore di sociologia in pensione

 

Photo by Damir Spanic on Unsplash

Il rifiuto da parte delle autorità di Francia e Spagna di includere i prigionieri politici baschi nelle misure destinate ad alleggerire la popolazione carceraria di fronte alla grave pandemia di coronavirus, è, finora, la risposta alla richiesta avanzata da Etxerat (che riunisce i familiari dei detenuti politici) e appoggiata da numerose organizzazioni basche, sia sociali che di diritti umani e politici.

Secondo gli ultimi dati di Etxerat attualmente ci sono 236 prigioniere e prigionieri politici baschi, raggruppati nel collettivo del PPEK: 119 si trovano in carceri dello stato spagnolo e 37 in carceri dello stato francese.

Il rifiuto di includerli nelle scarcerazioni che Spagna e Francia stanno effettuando è l’ultima prova di una discriminazione aperta e mancanza di volontà politica proprie di una visione carceraria intransigente e vendicativa. I dati confermano questa politica di vendetta, poiché, secondo i criteri con cui viene applicata la liberazione anticipata dei prigionieri, una parte significativa dei detenuti baschi avrebbe più che soddisfatto i requisiti: l’86% ha infatti già scontato oltre tre quarti della pena. Inoltre, tre prigionieri hanno più di 70 anni, 36 ne hanno più di 60, 13 soffrono di malattie gravi, difficili da curare a causa delle terribili condizioni di assistenza sanitaria nelle carceri di entrambi i paesi.

I prigionieri politici baschi e le loro famiglie devono inoltre subire l’ulteriore punizione imposta dalla dispersione: sono infatti detenuti in carceri lontane dai Paesi Baschi, fino a 1.200 km di distanza. La dispersione è un’altra politica punitiva che cerca spezzare la volontà dei detenuti tenendoli lontani dalle loro famiglie e dai loro ambiente sociale.

Nel caso francese c’è da sottolineare che negli ultimi due anni, il governo ha messo in moto un processo graduale per avvicinare i prigionieri baschi alle prigioni di Mont de Marsan e Mannemezan, situate a circa 250 km dal Paese Basco. Qui si trovano attualmente la maggior parte dei prigionieri di sesso maschile. Le prigioniere, invece, continuano a essere soggette a un regime di dispersione, con la scusa che non esiste una prigione femminile nelle vicinanze del Paese Basco.

L’argomentazione ufficiale per la non scarcerazione, ripetuta sia dalle autorità spagnole che da quelle francesi, è che questa produrrebbe “allarme sociale”. Un’argomentazione a dir poco confutabile, visto che la stragrande maggioranza dei detenuti baschi sta scontando condanne per appartenenza all’organizzazione indipendentista ETA, che 8 anni fa ha pubblicamente e unilateralmente rinunciato alla lotta armata e l’8 aprile 2017 ha altrettanto pubblicamente proceduto alla dismissione delle armi, consegnandole alla società civile basca. ETA ha poi proceduto alla sua dissoluzione come organizzazione armata, sostenendo esclusivamente mezzi politici per il raggiungimento dei suoi obiettivi, l’indipendenza dei Paesi Baschi e il socialismo, attraverso l’esercizio dell’autodeterminazione e della sovranità.

In recenti dichiarazioni a Mediabask, Jean René Etchegaray, presidente della Mancomunidad basca (che riunisce i comuni del Paese basco francese) e uno degli architetti della decomissione degli arsenali di ETA, ha dichiarato: «Qualcuno dovrebbe spiegare perché queste misure [di scarcerazione] non possono essere applicate ai prigionieri politici». Una petizione che sia da parte spagnola che da parte francese continua a non avere risposta. In questi tempi di confinamento la rivendicazione per i prigionieri politici baschi continua a essere portata avanti attraverso le reti sociali.

Global Rights Magazine ha parlato con una portavoce di Etxerat.

Qual è la situazione attuale delle detenute e dei detenuti?

L’unica misura che le istituzioni penitenziarie hanno applicato con severità per prevenire la diffusione della pandemia nelle carceri dello stato spagnolo è stata la completa interruzione di tutte le comunicazioni, ordinarie e straordinarie. Etxerat mette in discussione la mancanza di alternative a questa misura. Le misure adottate per mantenere i contatti con le famiglie sono del tutto insufficienti. Finora, i prigionieri baschi sono stati in grado di effettuare videochiamate di durata compresa tra 10 e 15 minuti, attraverso il servizio WhatsApp, dalle carceri di Almeria, Cáceres (una a settimana), Castelló Mujeres, Granada (per situazioni eccezionali come la morte di familiari), Herrera, Jaén, Logroño Mujeres, Ocaña I, Puerto III, Teruel, Villabona (situazioni eccezionali), Villena e Zaballa. I prigionieri non hanno ricevuto nessuna comunicazione, a eccezione di due detenuti, che verrà loro applicata una riduzione di tariffa, come ha proposto Etxerat, visto l’aumento delle telefonate. Per quanto riguarda la corrispondenza, pur tenendo in conto i ritardi nella consegna da parte delle stesse poste durante l’emergenza coronavirus, sappiamo di almeno 20 carceri in cui non viene consegnata.

Siete stati in grado di verificare se e quali misure sono state prese nelle carceri per prevenire il contagio da Coronavirus?

La scarsa assistenza sanitaria pre-pandemia che caratterizzava alcune carceri non è stata affrontata, purtroppo. Nel resto delle carceri non si è provveduto ad adattare l’infermeria e le misure preventive alle circostanze attuali. Ci sono diverse carceri senza medico, in cui le richieste di visita non vengono accolte o vengono soddisfatte anche con otto giorni di ritardo. L’esposizione al contagio è molto alta. Le linee guida di base dell’OMS non vengono seguite. Chiediamo un rafforzamento delle squadre mediche 24 ore al giorno, oltre a fornire ai detenuti prodotti e misure di prevenzione e protezione.

Quali sono le principali preoccupazioni dei famigliari?

Prima di tutto c’è stato il profondo rammarico per essere pienamente consapevoli che sarebbero state sospese per un periodo non definito le comunicazioni ordinarie e straordinarie. Ora sappiamo che questo periodo di non contatto sarà più lungo del previsto, quindi la preoccupazione quotidiana delle famiglie per sapere se chi sta in carcere sta bene aumenta, anche perché sappiamo che il diritto alla salute non è rispettato in carcere. In questo momento ci stiamo battendo per ottenere il diritto in tutte le carceri di effettuare videochiamate.

Come valutate il rifiuto delle autorità spagnole e francesi a rilasciare i prigionieri politici baschi vista l’emergenza sanitaria?

Devono essere applicate le indicazioni di organizzazioni come l’OMS, le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa. Etxerat chiede con urgenza il rilascio immediato dei prigionieri gravemente malati, di quelli di età superiore ai 70 anni e di quelli che avrebbero già diritto a uscire in libertà condizionale e che sono già stati rilasciati con permessi di applicazione del terzo grado.

C’è qualche caso specifico che ritieni importante sottolineare per la sua gravità?

Siamo indignati per la decisione della Corte d’appello di Parigi di respingere la richiesta di rilascio provvisorio per il prigioniero politico basco Josu Urrutikoetxea, dato il suo delicato stato di salute. Urrutikoetxea si trova a La Santé, una prigione dove sono stati rilevati almeno 19 casi positivi di coronavirus. La nostra richiesta di scarcerazione aveva anche l’approvazione del direttore medico del centro. C’è stata una denuncia pubblica fatta sia dalla famiglia di Josu Urrutikoetxea, sia da BakeBidea e Artesanos por la Paz, che hanno definito la decisione come incomprensibile e un vero scandalo. A questa richiesta aggiungiamo quella per il rilascio di Jakes Esnal, Gurutz Maiza Artola, Jon Parot e Xistor Haramboure, tutti prigionieri in Francia e che hanno più di 65 anni.

Come valutate il sostegno sociale in queste circostanze speciali e pericolose per la salute e l’integrità dei detenuti?

A marzo c’è stato un programma online speciale, insieme alla piattaforma Sare, che ha sostituito le consuete mobilitazioni (ogni ultimo venerdì del mese) a favore della fine della dispersione e della risoluzione definitiva del conflitto. Sono iniziative che valutiamo molto positivamente, sia per l’ampia partecipazione che per la solidarietà mostrata. Non vi è dubbio che durante questo confinamento è il contatto permanente con i parenti e la comunicazione online che sostanzialmente ci consente di continuare a sviluppare il lavoro a favore dei prigionieri, logicamente, con i limiti che questi mezzi hanno.

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 * Questa intervista è pubblicato sull’ultimo numero del magazine internazionale Global Rights, interamente dedicato al carcere nel tempo della pandemia. Il magazine è liberamente scaricabile qui.

Lo scorso 21 marzo, una delle pagine più sanguinose della storia carceraria del paese: la rivolta dei carcerati colombiani, che chiedono più sicurezza contro il virus pandemico e il ripristino delle visite dei parenti, viene sedata con inaudita violenza. Ventitré i detenuti uccisi, 80 i feriti e la prigione La Modelo di Bogotà diventata teatro di guerriglia e morte.

Mercoledì scorso, con una giornata di protesta pacifica organizzata via Whatsapp, i detenuti di tutti gli istituti penitenziari colombiani hanno provato a far arrivare al governo richieste precise, denunciando la situazione di forte precarietà: «Abbiamo diritto alla vita, alla salute, alla dignità – hanno detto attraverso un video – e lo Stato ne è responsabile. Abbiamo bisogno di acqua potabile, cibo sano, disinfettanti, sapone, mascherine. Parenti e avvocati non possono più venire a trovarci, mentre le guardie entrano ed escono senza alcun controllo sanitario. No alle pallottole, no alla pandemia».

Il detenuto legge il documento davanti a una platea di un centinaio di prigionieri seduti per terra in uno dei cortili interni del carcere bogotano. Alle loro spalle si intravvedono lenzuola colorate e indumenti stesi dalle finestre, pezzi di vita quotidiana di una delle prigioni più violente del paese, afflitta da un endemico problema di sovraffollamento che stringe oltre 5mila carcerati negli spazi pensati per 2.600.

La rivolta nelle carceri colombiane non è legata solo alla pandemia in corso – che in Colombia ha fatto registrare fino a oggi circa 2.200 contagiati, di cui un migliaio solo a Bogotà, e 79 decessi – ma si intreccia con problematiche pregresse. In una nota dell’Alta Commissaria per i diritti umani Onu, Michelle Bachelet, emessa dopo quella che viene definita «la strage del 21 marzo», si denuncia come nelle 132 carceri in Colombia il sovraffollamento sia quantificato oltre il 50%: «Sono 120mila persone costrette in carceri pensate per 80mila e che necessitano misure di sicurezza contro la diffusione del Covid-19».

Il governo di Ivan Duque – criticato duramente sia da parte di organismi per i diritti umani, che da deputati dell’opposizione – ha annunciato un decreto che preveda a breve la liberazione di 10mila carcerate e carcerati tra anziani, malati o che abbiano già scontato i due terzi della pena.

E mentre il Movimento carcerario denuncia le ripercussioni da parte delle guardie verso i detenuti – «Ci privano dell’acqua e della libertà», dicono – a preoccupare è la serie di trasferimenti di prigionieri politici verso il carcere di massima sicurezza di Ibaguè.

L’organizzazione per i diritti umani Corporación Solidaridad Jurídica è allarmata: «Denunciamo il trattamento repressivo e militare verso i prigionieri politici – ci spiega il suo presidente John Leon – La notte del 24 marzo sono stati prelevati dal Patio 4 de La Modelo [la sezione del carcere dove attendono di essere giudicati gli ex guerriglieri. Nel Patio 5 sono detenuti invece ex paramilitari, ndr], quattro ex guerriglieri senza che potessero prendere i propri oggetti personali, né comunicare con gli avvocati. Sono stati portati nel carcere di massima sicurezza di Ibaguè, le motivazioni sembrano essere di natura disciplinare. Uno di loro, Josè Parra Bernal, era malato e protetto dalla Commissione Internazionale per i diritti umani, ci giunge voce che sia già deceduto».

La situazione è complicata dal conflitto giurisdizionale con la Jep (Giurisdizione speciale per la Pace, l’organismo preposto alla valutazione dei casi nell’ambito del processo di pace in corso in Colombia dal 2016), che di fatto blocca le amnistie – che potrebbero essere previste dal decreto governativo – per gli ex guerriglieri.

«Denunciamo la possibile sparizione forzata di queste persone», conclude Leon. Anche Michelle Bachelet ha scritto una preoccupata nota in proposito: «Ora più che mai crediamo che il governo colombiano debba prendere in considerazione di liberare prigionieri politici in carcere senza sufficienti motivazioni».

Apprensione anche per le tre giovani studentesse da tre anni incarcerate per l’attentato del 2017 al Centro commerciale andino di Bogotà, simbolo di quello che viene definito da movimenti universitari e organizzazioni sociali, un «montaggio giudiziale». Anche di Lizeth Rodríguez, Lina Jiménez ed Alejandra Mendez non si sa più nulla.

* Fonte: Francesca Caprini,  il manifesto

Morti nelle carceri. Un Comitato per la verità, la trasparenza e la giustizia

Tredici detenuti morti. Un numero inusitato, per giunta incerto, laddove alcuni quotidiani indicano quattordici. Numeri, neppure la dignità dei nomi, per la quale si sta adoperando il Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà.

Un numero impressionante, pur nell’eccezionalità delle circostanze in cui quelle morti si sono verificate. Viene in mente solo un unico altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise 9 recluse e 2 vigilatrici. Ma, oltre al numero, in quell’episodio furono almeno da subito chiare le cause, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si arrivò a un processo penale. Della vicenda odierna, al contrario, colpisce l’informazione approssimativa su ciò che ha provocato quelle morti. Un’opacità mediatica e politica incomprensibile e ingiustificabile, anche tenuto nel debito conto l’emergenza sanitaria in corso con le gravi e impellenti problematiche che pone a tutti.

Il ministro della Giustizia, nella sua informativa al Parlamento sui disordini che hanno scosso numerose carceri provocando ingenti danni e feriti, ha sostanzialmente sorvolato sull’aspetto più grave, vale a dire l’ingente numero delle vittime tra i detenuti, le dinamiche che le hanno provocate, le eventuali responsabilità e differenze tra caso e caso. L’unico accenno al riguardo fatto dal ministro dà anzi adito alle peggiori ipotesi, laddove ha affermato che «le cause, dai primi rilievi, sembrano per lo più riconducibili all’abuso di sostanze sottratte alle infermerie durante i disordini», senza dettagliare i casi e senza minimamente chiarire quali siano le altre cause occorse oltre a quelle “per lo più” riferibili all’uso di sostanze. E in ogni caso, anche per le morti da farmaci, le domande sulle dinamiche del mancato soccorso durante la reazione alle rivolte e durante le traduzioni sono più che aperte.

Così pure il Guardasigilli non ha dato le necessarie risposte sui rischi per i reclusi e il personale di contagio da coronavirus nelle carceri chiarendo – o smentendo – quanto riportato da notizie di stampa, secondo cui si sarebbero già registrati alcuni casi, anche nel carcere di Modena, dove particolarmente si è accesa la protesta e dove è stato così alto il numero dei decessi. Essere rinchiusi in pochi metri affollati, privi di tutto, da chiunque non può che essere percepito come un rischio enorme per la propria incolumità, come del resto è noto che in carcere ogni malattia ha infinitamente maggiori probabilità di essere contratta. Anche per questo riteniamo fuorviante adombrare per le proteste supposti piani della criminalità organizzata, anziché, pur censurando le violenze, capire le ragioni di chi si è ribellato a una situazione che non è stata gestita, di fronte alla mancanza di misure per assicurare il diritto alla salute delle persone detenute, che deve essere tutelato alla pari di tutti gli altri cittadini e cittadine.

Da molto tempo il sistema penitenziario pare aver rinunciato a una visione costituzionalmente ancorata e orientata, divenendo sempre più solo un deposito di corpi, di disagio, di vite considerate “a perdere”. Appare evidente che la vita e l’incolumità di chi è recluso e reclusa sia l’ultima preoccupazione. Nel 2015-2016, il grande lavoro degli Stati generali dell’esecuzione penale, che ha fruito del generoso e qualificato impegno di centinaia di persone e suscitato ampie speranze, è stato alla fine frustrato e deluso per la scelta del governo pro tempore di rinunciare a varare le riforme allora messe a punto. Una scelta che è concausa della attuale drammatica situazione; riforme che andrebbero riprese e rapidamente varate, oltre a misure immediate di ridimensionamento del numero dei reclusi, quali quelle indicate da diverse associazioni in questi giorni.

A noi pare che la tragica morte di tredici persone detenute non possa essere rimossa e nascosta. Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, hanno diritto di conoscere ciò che è successo nei dettagli. E di conoscerlo tempestivamente: poiché occorre avere consapevolezza di quanto l’opacità, la disinformazione, l’incertezza e la paura possano provocare in chi vive rinchiuso disperazione, la quale a sua volta può innescare nuovi conflitti.

Al contempo questa vicenda e lo stato generalizzato di profondo disagio e sofferenza delle carceri, che si è ora manifestato con ulteriore evidenza, vanno trasformati in occasione per ripensare la pena e la sua funzione e per riformare il sistema che la amministra.

In questa necessità e prospettiva, facciamo appello alle associazioni, al composito mondo del volontariato penitenziario, alla rete dei media sociali, ad avvocati e operatori del diritto, ai Garanti dei diritti delle persone private della libertà con cui per primi si intende collaborare dato il fondamentale ruolo, a tutti coloro che in modo singolo o organizzato sono impegnati in percorsi e culture improntate alla decarcerizzazione, al recupero sociale, alla depenalizzazione di condotte quali il consumo di droghe, alla tutela dei diritti umani e sociali, per costituire assieme un Comitato che lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto.

Primi firmatari:

*** Vittorio Agnoletto, Ascanio Celestini, Franco Corleone, Giuseppe De Marzo, Alessandro De Pascale, Monica Gallo, Nicoletta Gandus, Francesco Maisto, Bruno Mellano, Moni Ovadia, Livio Pepino, Marco Revelli, Susanna Ronconi, Paolo Rossi e la Compagnia teatrale dei “Fuorilegge di Versailles”, Sergio Segio, Stefano Vecchio, Grazia Zuffa

Per aderire: info@dirittiglobali.it

Il varco verso l’abolizione totale dell’ergastolo ostativo, quello che non lascia alcuna speranza al condannato, quello che lo rende un “uomo ombra” senza possibilità di redenzione, è stato aperto. Con una «sentenza storica», come la definiscono in molti, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo negare automaticamente i permessi premio a quei reclusi a vita che non vogliono collaborare con la giustizia ma che magari hanno dimostrato un profondo cambiamento interiore.

La Consulta, riunitasi ieri in Camera di consiglio per analizzare i ricorsi in Cassazione e al Tribunale di sorveglianza di Perugia dei due mafiosi condannati all’ergastolo, Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, cui sono stati negati i benefici penitenziari, ha deciso infine di non fare differenza tra reati di mafia, terrorismo, corruzione, violazione delle leggi sulle droghe o sull’immigrazione o condannati per gli altri reati contemplati nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Però, delle varie voci connesse al primo comma – «lavoro all’esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione» -, i giudici costituzionalisti si sono soffermati solo sui permessi premio.

E hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di quella parte del 4 bis comma 1 che vieta «la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente – recita il comunicato della Consulta – il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo».

UN PRONUNCIAMENTO che ha mandato subito in tilt le forze politiche che sul «buttare la chiave» hanno fatto la loro fortuna. Anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha chiesto subito agli uffici del ministero di analizzare le possibili conseguenze, perché, ha detto, «la questione ha la massima priorità».

«IN ATTESA DI CONOSCERE il testo della sentenza si può comunque evincere dal comunicato della Consulta, che è molto chiaro, il portato storico di questa decisione, perché va ad erodere il meccanismo ostativo», commenta il costituzionalista Marco Ruotolo, docente dell’Università Roma Tre.

Si legge infatti sul dispositivo che la Corte, «pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti, ha sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti)».

Ruotolo fa poi notare al manifesto che «nell’indicazione finale, i giudici aprono un varco importante, così come avvenne con la custodia cautelare, perché la preclusione assoluta viene trasformata in preclusione relativa». Tornando al testo del comunicato, si legge infatti: «In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica».

«È una sentenza importante, tuttavia la Consulta non ha abbattuto l’ergastolo ostativo – commenta Emilia Rossi, componente del collegio del Garante dei detenuti e suo rappresentante davanti alla Consulta in questo procedimento -: ha superato l’assolutismo e ha restituito al giudice di sorveglianza la possibilità di valutare il recupero della persona e al condannato la possibilità di dimostrare la propria risocializzazione. Quello dei permessi premio è un beneficio di particolare rilievo perché tocca i legami affettivi e familiari, che sono il primo passo di risocializzazione».

IN MOLTI SI AUGURANO ora, dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e il pronunciamento di ieri, che la politica agisca di conseguenza, «in nome del principio di legalità costituzionale», come esorta l’associazione Antigone. «È un primo passo nell’affermazione del diritto alla speranza», afferma Nessuno tocchi Caino.

MA A FARE PIÙ RUMORE sono le voci di dissenso, come quella del consigliere del Csm Nino Di Matteo che ha lanciato un grido d’allarme e un appello alla «politica» a «reagire prontamente» per «evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo». Un’affermazione di «straordinaria gravità», secondo il presidente degli avvocati penalisti, Giandomenico Caiazza, perché si muove in direzione contraria al nostro «assetto democratico» di «equilibrio tra i poteri». Una sponda a Di Matteo la offrono però in molti: la Lega, il M5S e FdI lamentano un «regalo alle mafie», ma persino il segretario Pd Nicola Zingaretti a Porta a Porta parla di «sentenza un po’ stravagante», con la quale «non mi sento in sintonia». La strada è ancora lunga.

* Fonte: Eleonora Martini, il manifesto

 

Foto: Pixabay CC0 Creative Commons

«Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all’ergastolo per l’uccisione a Monza del re d’Italia». Così il 22 maggio del 1901 fu archiviata, come se fosse suicidio, la morte dell’anarchico Gaetano Bresci nell’ergastolo-fortezza dell’isola di Santo Stefano a Ventotene. Pochi in realtà credettero al suicidio. Non vi credette ad esempio Sandro Pertini, che in quel carcere vi trascorse un periodo della sua lunga prigionia. A Gaetano Bresci, secondo il futuro presidente della Repubblica, avrebbero fatto il Sant’Antonio, ossia sarebbe stato massacrato di botte fino alla morte. Ancora oggi nello slang delle galere si usa l’espressione Sant’Antonio per indicare una pratica di punizione violenta per le vie brevi. Gaetano Bresci fu dunque probabilmente ammazzato nell’isola degli ergastolani.

NELLE SCORSE settimane ho avuto la fortuna di visitare l’ex carcere di Santo Stefano insieme a un gruppo di studiosi e studenti dell’Università Roma Tre. Un viaggio che, anche grazie alla sapienza e alla passione di una guida del comune di Ventotene, si è efficacemente trasformato in una lezione di diritto e di etica sull’antropologia della pena e del potere. Il carcere di Santo Stefano, oramai chiuso da decenni, ci interroga intorno a chi sono le persone pericolose, a come vengono trattate, al rapporto tra potere e diritto ma anche tra uso della forza e garanzie fondamentali.

Gaetano Bresci, prima di tornare in Italia per uccidere re Umberto I di Savoia, aveva vissuto nella città americana di Paterson, dove qualche decennio più avanti il pugile Rubin Carter, detto anche Hurricane per la forza devastante che esprimeva sul ring, sarebbe stato arrestato e condannato a tre ergastoli per un delitto che, come sarà successivamente acclarato, non aveva mai commesso. Fu Bob Dylan a raccontare e cantare la storia di Hurricane, ergastolano innocente, condannato, come la stessa Corte Federale Usa riconobbe, per evidenti pregiudizi di discriminazione razziale.

L’ERGASTOLO, al pari della pena di morte, è una pena eliminativa. Solo chi ha vissuto il carcere-fortezza degli ergastolani può intuire cosa significhi la condizione umana dell’ergastolano. Eugenio Perucatti nei primi anni Cinquanta, finita la tragedia fascista, andò a dirigere il carcere di Santo Stefano. Al momento del suo arrivo non c’erano più i dissenzienti politici imprigionati dal regime mussoliniano. Alcuni erano già morti, come ad esempio Antonio Gramsci, proprio a causa della durezza del regime penitenziario. Nel carcere diretto da Perucatti c’erano solo criminali comuni. Lui iniziò ad osservarne la vita di tutti i giorni. Oziavano rinchiusi in celle, che lo scrittore risorgimentale Luigi Settembrini, anche lui recluso a Santo Stefano, circa un secolo prima, aveva definito ‘la tomba dei vivi’. Perucatti avviò un percorso di attenuazione della durezza delle condizioni di vita interne. Fece costruire all’interno del carcere dagli stessi ergastolani un campo di calcio nonché quella che lui chiamò con enfasi religiosa la Piazza della Redenzione, con alberi, panchine e viali.

La redenzione di cui parlava e scriveva il direttore Perucatti, non era altro che la risocializzazione di cui negli anni a seguire ha descritto la Corte Costituzionale. Avviò una campagna per l’abolizione della pena dell’ergastolo, suggerendo al suo posto la cosiddetta pena condizionalmente perpetua. Ricevuto dal Presidente della Repubblica, scrisse: «La disumanità della pena dell’ergastolo non sta nel fatto di minacciare ad un individuo di fargli terminare la sua vita in carcere, qualora continuerà ad essere delinquente, ma nel fatto di non offrirgli la possibilità di riscattarsi, modificandosi. In questo senso io penso possano conciliarsi le esigenze della remora al delitto con le ragioni di umanità; la soluzione più giusta e più equa: pena condizionalmente perpetua».

MICHELE GIUA, azionista, professore di chimica, fu incarcerato dai fascisti per lunghi otto anni nelle galere dell’allora Regno d’Italia. Così descriveva la pena dell’ergastolo: «L’ergastolo è immorale oltre che dispendioso; forse meglio la pena di morte per i grandi colpevoli. Eppure vi sono ministri della giustizia che negano la libertà ad ergastolani che hanno passato trentacinque o quaranta anni di galera! Tali ministri sono sacerdoti di una giustizia che nulla ha di umano. Dopo trent’anni di reclusione non si è più uomini, anche nel senso fisico della parola, si è degli spettri nella vita fisica e morale».

La presenza degli ergastolani in un carcere ne cambia la fisionomia. Di fronte a una pena senza prospettiva di rilascio il detenuto pensa più spesso alla morte, oppure a forme di anomalo adattamento al contesto. In un memorabile scritto inviato a Piero Calamandrei, Altiero Spinelli, che per motivi politici aveva scontato durante il regime fascista nove anni di carcere e sei di confino di cui metà del tempo proprio a Ventotene, affermava: «L’ergastolano è il detenuto di cui i reclusi più diffidano perché è quasi regolarmente una spia della direzione, un servitore abbietto dei guardiani. Egli dovrebbe portare una matricola scritta in stoffa nera, ma, per poco che si rilassi la severità della regola carceraria, se la toglie e la sostituisce con la matricola su stoffa bianca o verde dei condannati a tempo».

La pena dell’ergastolo è una pena innaturale che cambia la natura dei comportamenti, li deforma irreversibilmente. L’ergastolo senza alcuna prospettiva di rilascio lo fa assomigliare drammaticamente alla pena capitale.

* Fonte: Patrizio Gonnella, il manifesto

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