Ergastolo, ieri e oggi. Antifascisti e anarchici condannati all’eliminazione

Giustizia. L’ergastolo è una pena innaturale, che cambia la natura dei comportamenti. Da Gaetano Bresci a Rubin Carter, detto Hurricane e cantato da Bob Dylan: storie della pena capitale in vita contro cui si batterono Perucatti e Spinelli.

«Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all’ergastolo per l’uccisione a Monza del re d’Italia». Così il 22 maggio del 1901 fu archiviata, come se fosse suicidio, la morte dell’anarchico Gaetano Bresci nell’ergastolo-fortezza dell’isola di Santo Stefano a Ventotene. Pochi in realtà credettero al suicidio. Non vi credette ad esempio Sandro Pertini, che in quel carcere vi trascorse un periodo della sua lunga prigionia. A Gaetano Bresci, secondo il futuro presidente della Repubblica, avrebbero fatto il Sant’Antonio, ossia sarebbe stato massacrato di botte fino alla morte. Ancora oggi nello slang delle galere si usa l’espressione Sant’Antonio per indicare una pratica di punizione violenta per le vie brevi. Gaetano Bresci fu dunque probabilmente ammazzato nell’isola degli ergastolani.

NELLE SCORSE settimane ho avuto la fortuna di visitare l’ex carcere di Santo Stefano insieme a un gruppo di studiosi e studenti dell’Università Roma Tre. Un viaggio che, anche grazie alla sapienza e alla passione di una guida del comune di Ventotene, si è efficacemente trasformato in una lezione di diritto e di etica sull’antropologia della pena e del potere. Il carcere di Santo Stefano, oramai chiuso da decenni, ci interroga intorno a chi sono le persone pericolose, a come vengono trattate, al rapporto tra potere e diritto ma anche tra uso della forza e garanzie fondamentali.

Gaetano Bresci, prima di tornare in Italia per uccidere re Umberto I di Savoia, aveva vissuto nella città americana di Paterson, dove qualche decennio più avanti il pugile Rubin Carter, detto anche Hurricane per la forza devastante che esprimeva sul ring, sarebbe stato arrestato e condannato a tre ergastoli per un delitto che, come sarà successivamente acclarato, non aveva mai commesso. Fu Bob Dylan a raccontare e cantare la storia di Hurricane, ergastolano innocente, condannato, come la stessa Corte Federale Usa riconobbe, per evidenti pregiudizi di discriminazione razziale.

L’ERGASTOLO, al pari della pena di morte, è una pena eliminativa. Solo chi ha vissuto il carcere-fortezza degli ergastolani può intuire cosa significhi la condizione umana dell’ergastolano. Eugenio Perucatti nei primi anni Cinquanta, finita la tragedia fascista, andò a dirigere il carcere di Santo Stefano. Al momento del suo arrivo non c’erano più i dissenzienti politici imprigionati dal regime mussoliniano. Alcuni erano già morti, come ad esempio Antonio Gramsci, proprio a causa della durezza del regime penitenziario. Nel carcere diretto da Perucatti c’erano solo criminali comuni. Lui iniziò ad osservarne la vita di tutti i giorni. Oziavano rinchiusi in celle, che lo scrittore risorgimentale Luigi Settembrini, anche lui recluso a Santo Stefano, circa un secolo prima, aveva definito ‘la tomba dei vivi’. Perucatti avviò un percorso di attenuazione della durezza delle condizioni di vita interne. Fece costruire all’interno del carcere dagli stessi ergastolani un campo di calcio nonché quella che lui chiamò con enfasi religiosa la Piazza della Redenzione, con alberi, panchine e viali.

La redenzione di cui parlava e scriveva il direttore Perucatti, non era altro che la risocializzazione di cui negli anni a seguire ha descritto la Corte Costituzionale. Avviò una campagna per l’abolizione della pena dell’ergastolo, suggerendo al suo posto la cosiddetta pena condizionalmente perpetua. Ricevuto dal Presidente della Repubblica, scrisse: «La disumanità della pena dell’ergastolo non sta nel fatto di minacciare ad un individuo di fargli terminare la sua vita in carcere, qualora continuerà ad essere delinquente, ma nel fatto di non offrirgli la possibilità di riscattarsi, modificandosi. In questo senso io penso possano conciliarsi le esigenze della remora al delitto con le ragioni di umanità; la soluzione più giusta e più equa: pena condizionalmente perpetua».

MICHELE GIUA, azionista, professore di chimica, fu incarcerato dai fascisti per lunghi otto anni nelle galere dell’allora Regno d’Italia. Così descriveva la pena dell’ergastolo: «L’ergastolo è immorale oltre che dispendioso; forse meglio la pena di morte per i grandi colpevoli. Eppure vi sono ministri della giustizia che negano la libertà ad ergastolani che hanno passato trentacinque o quaranta anni di galera! Tali ministri sono sacerdoti di una giustizia che nulla ha di umano. Dopo trent’anni di reclusione non si è più uomini, anche nel senso fisico della parola, si è degli spettri nella vita fisica e morale».

La presenza degli ergastolani in un carcere ne cambia la fisionomia. Di fronte a una pena senza prospettiva di rilascio il detenuto pensa più spesso alla morte, oppure a forme di anomalo adattamento al contesto. In un memorabile scritto inviato a Piero Calamandrei, Altiero Spinelli, che per motivi politici aveva scontato durante il regime fascista nove anni di carcere e sei di confino di cui metà del tempo proprio a Ventotene, affermava: «L’ergastolano è il detenuto di cui i reclusi più diffidano perché è quasi regolarmente una spia della direzione, un servitore abbietto dei guardiani. Egli dovrebbe portare una matricola scritta in stoffa nera, ma, per poco che si rilassi la severità della regola carceraria, se la toglie e la sostituisce con la matricola su stoffa bianca o verde dei condannati a tempo».

La pena dell’ergastolo è una pena innaturale che cambia la natura dei comportamenti, li deforma irreversibilmente. L’ergastolo senza alcuna prospettiva di rilascio lo fa assomigliare drammaticamente alla pena capitale.

* Fonte: Patrizio Gonnella, il manifesto

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