Novecento

Gino Donè, unico europeo imbarcato sul Granma, partigiano e guerrigliero castrista, è stato tumulato ieri all’Avana, nel Panteon dei combattenti della Rivoluzione cubana

 

Dalla Resistenza alla Rivoluzione. È questa l’estrema sintesi della vita dell’ultimo garibaldino italiano che si è battuto per Cuba, questa volta in una rivoluzione vincente, quella dei barbudos di Fidel Castro.
Si tratta di Gino Donè, l’unico italiano, anzi europeo, ad aver partecipato a fine novembre 1956 al corpo di spedizione di Fidel Castro, 82 uomini imbarcati sullo yacht Granma, per innescare nella perla delle Antillle la guerriglia contro il governo dittatoriale di Fulgencio Battista

UN’IMPRESA da far tremare i polsi ai ribelli cubani, figuriamoci a uno straniero. E infatti sul Granma ve ne erano solo quattro di non cubani, un messicano ( “Alfonso”), un domenicano (“Ramon”) – entrambi condividevano con i cubani la volontà di combattere la politica imperiale degli Stati uniti -, un argentino, Ernesto “Che” Guevara, medico malato d’asma ma che con Fidel condivideva il sogno bolivariano e martiano di fondare la “Patria grande” latinoamericana. E infine, “el Italiano”, Donè.
Le cui ceneri ieri, a 67 anni dallo sbarco del Granma, sono state tumulate all’Avana nel Panteon dei combattenti della Rivoluzione cubana del cimitero monumentale Colón alla presenza di alti funzionari di Stato. Si è compiuta così l’ultima volontà di Donè, esaudita dalla Associazione di amicizia Italia-Cuba.

MA LUI, Gino Donè, veneto trentenne, che ci faceva lì sul Granma? Lui che aveva fatto la guerra e la Resistenza e sapeva bene a quale futuro incerto e pericoloso andava incontro? Interrogato più volte negli ultimi anni della sua vita, ha argomentato che a motivarlo non era «l’ideologia marxista leninista come Ernesto» (Guevara), né la fiducia incrollabile di Fidel nel successo della guerra contro la dittatura. Lui si definiva «un selvaggio», tenacemente ribelle, disposto a lottare contro i sistemi che opprimono quelli come lui, venuti dal basso, dalle paludi, da lavori estenuanti e mal pagati. Gli invisibili al potere. Per questo si era unito alla Resistenza in Italia e dopo, anche a Cuba, continuava a pensare che valeva la pena rischiare la pelle per gli oppressi. Su quella barca che si dirigeva a Cuba aveva il grado di tenente, capo squadra del plotone di retroguardia comandato da Raúl Castro.

Gino Giacomo Donè (all’anagrafe portava il nome dei due nonni) era nato il 18 maggio 1924 in una casa colonica nella frazione di Rovarè, a San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso. Nel 1942 era soldato, di stanza a Pola. E lì si trovava l’8 settembre del 1943. Aveva 19 anni e decise subito da che parte stare: con una barca tornò a San Donà di Piave e si unì alla Brigata Piave svolgendo azioni di guerriglia e di soccorso.
Ma finita la guerra l’Italia vuole dimenticare e per prima cosa si dimentica dei piccoli eroi della guerra partigiana. Gino è disoccupato e deve emigrare per vivere. Fa il carpentiere in Francia, Belgio e Germania. Poi l’improvviso colpo di testa, lascia tutto, si imbarca come clandestino in una nave a Amburgo e viene sbarcato a Cuba nel 1952.

ED È QUI che la sua vita diventa come una pellicola d’avventura. Sulle scalinate dell’Università dell’Avana, dove aveva trovato lavoro, conosce Hemingway, ma anche studenti rivoluzionari. Ma la svolta avviene a Trinidad dove si sposta per lavoro. Si innamora e si sposa, lui ex guerrigliero, con una donna, Norma, che di cognome fa Guerra. Ed è la migliore amica di Aleida March, militante dello movimento che fa a capo a Fidel Castro, futura seconda moglie di Che Guevara. È Aleida che scrive a Fidel -in esilio in Messico e impegnato a preparare una spedizione per iniziare a Cuba la guerra di liberazione dalla dittatura – di un ex guerrigliero italiano che ha combattuto i fascisti durante la Seconda guerra mondiale.
Gino, non solo sa usare le armi e conosce la tattica di guerriglia, ma ha anche documenti italiani con i quali può viaggiare senza che l’occhiuta polizia di Batista gli aliti sul collo. È dunque lui incaricato di portare in Messico in varie missioni i soldi che servono per comparare armi e il battello Granma che porterà i ribelli a Cuba. E lo stesso Fidel coopta “el italiano” per la sua spedizione.

E FA BENE. Così ha raccontato Donè in una intervista a Liberazione: «Quando sbarcammo a Cuba, il 2 dicembre, impiegammo quattro ore per superare arbusti e mangrovie, poi siamo stati attaccati dagli aerei di Batista. Ci siamo divisi in gruppi, come mi aveva insegnato l’esperienza di partigiano. I chiodi degli scarponi ci bucavano i piedi». In questa drammatica situazione, Guevara in preda a un attacco d’asma e senza medicine rimane indietro e perde il contatto con il resto dei ribelli. Ed è “el italiano” che lo trova, spossato da una forte crisi d’asma, fucile e giberne in spalla ma incapace di camminare.

Donè aveva l’esperienza della moglie Norma anche lei asmatica; sa dunque come praticare un energico massaggio a Ernesto – «mai l’ho chiamato Che» dichiarò – in modo da alleviargli la crisi e permettergli di proseguire. In pratica salvandogli la vita.

IN SEGUITO tocca a Gino di trovarsi disperso dopo l’attacco sia dell’aviazione sia delle truppe di Batista a Alegria del Pio: è il primo scontro armato dove i ribelli vengono decimati- rimangono in 12 e anche il Che è ferito alla gola. Solo, in un canneto, mentre fischiano le pallottole, Donè pensa che se si apre la strada tra le canne verso dove pensa siano gli altri sopravvissuti lascerà una pista utilizzabile dal nemico. Decide di sganciarsi. Ritorna prima a Trinidad dalla moglie poi si sposta a Santa Clara dove si congiunge con i militanti del “26 luglio”, tra i quali Aleida March, che operano sabotaggi in città. Presto però è ricercato dalla polizia di Batista e deve fuggire all’estero.

Prima in Messico. Poi negli Usa. Dove rimarrà fino al 2003, quando ormai vedovo, decide di ritornare in patria, dove ha ancora parenti. È questa una zona grigia della vita del garibaldino. C’è chi lo accusa di aver disertato la guerriglia. Ma ci pensano, molti anni dopo in occasione di un viaggio di Donè a Cuba per il primo maggio 2004, sia il comandante Ramiro Valdés, sia lo stesso Fidel a fornire una evidente riabilitazione. “El italiano” infatti viene decorato, Valdés, attuale vicepremier, gli impone il suo berretto di comandante della Rivoluzione, Fidel lo abbraccia.

È IL RICONOSCIMENTO che anche all’estero Donè ha lavorato per Cuba? Nell’intervista a Liberazione (2006) dichiara: «Io straniero ero il più indicato a starmene lontano da Cuba per fare ciò che nella Sierra Maestra non avrei potuto fare. C’era bisogno di addestramenti, collegamenti, informazioni, soldi, armi e molte altre cose ancora… Anch’io ho fatto la mia parte».
Il vecchio garibaldino muore nel 2008. Al suo funerale partecipa una piccola folla, con molti ex partigiani. E vi sono anche le corone inviate da Fidel e Raúl con la scritta «ciao Gino».

* Fonte/autore: Roberto Livi, il manifesto

 

 

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Pannella

L’operaismo, gli anni settanta, il 7 aprile, Rossanda, il riconoscimento globale: 90 anni di un filosofo comunista

 

PARIGI. Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

Novant’anni sono un secolo breve.
Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.
È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?
Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?
Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

E che cosa possedeva quella sinistra?

Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?
Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?
Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?
È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

Che cosa era diventato?
Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

Quale?
Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?
Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?
Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?
Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

Anche Rossanda ti criticò…
Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?
Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

Perché allora hai deciso di tornare in Italia?
Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

Che ricordo oggi hai di lei?
Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.
Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?
È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…
Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

Esule, ancora, oggi?
Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?
Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?
Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

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Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

* Fonte/autore: Roberto Ciccarelli, il manifesto

«È difficile capire adesso che cosa era, o era diventato, il regime negli anni ’30 perché una ragazza non del tutto sciocca potesse aprire gli occhi di colpo nel 1943. Antonio Banfi mi aveva consigliato la lettura di Laski, Marx e Lenin. Dicevano: c’è un altro modo di veder le cose, il mondo, la vita, le responsabilità; sei stata cieca, non hai voluto vedere»

Nel settembre 2002, nell’ambito di un progetto di raccolta di interviste partigiane, Rossana Rossanda veniva intervistata per un progetto dell’Istituto veneziano per la storia della resistenza e la storia contemporanea (Iveser) sulla sua esperienza resistenziale e il suo rapporto con la Venezia degli anni ’30 e ’40. L’intervista è rimasta inedita perché Rossanda stava già allora lavorando sulla sua autobiografia, che sarebbe apparsa nel 2005. L’intervista parlava della sua iniziazione alla politica, del rapporto e delle esperienze nella Venezia degli anni ’30 e ’40 e della non lunga frequenza dell’Università di Padova, del rapporto tra intellettuali e fascismo, del fascismo come totalitarismo e del rapporto tra vita e memoria. Il testo integrale – che contiene diversi spunti originali – sarà pubblicato nella rivista Venetica nel numero 61, secondo numero del 2021, in uscita entro l’anno.
Ne anticipiamo un breve estratto che parla della formazione politica di Rossanda, ma anche del rapporto tra italiani e fascismo.
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TUTTA L’ESTATE (del 1943) avevo cercato di capire. Ero stata una ragazza stupida, convinta di potermi fare una strada privata, studiare, non occuparmi di politica – e mi trovo davanti a questa caduta indecorosa, che parla di quel che è stato il regime, di una guerra sbagliata. Per la prima volta mi sento investita come cittadina – la privatezza non mi appare più una scelta personale ma un lasciar fare errori tremendi. E l’estate badogliana mi lascia di stucco: come? È caduto il fascismo che ci ha portato in guerra, ma la guerra continua? (…) I giornali del periodo badogliano – lei li ha mai visti? – sono pessimi, reticenti.
La sensazione di essere senza una bussola, e che nell’esserlo c’è una specie di colpa, precede quindi il tonfo dell’8 settembre. Poi viene l’8 settembre, la monarchia se la fila e siamo occupati dai tedeschi. I partiti antifascisti nell’estate erano stati assai cauti, dei comunisti non si parlava proprio, una come me, che non aveva in casa particolari riferimenti, e a scuola aveva avuto professori che non parlavano di aquile e gagliardetti, ma neanche delle leggi razziali, non sapeva dove sbattere la testa. (…)
Non ricordo come seppi o chi mi disse per primo che Antonio Banfi doveva essere comunista, era tutto un prudente sussurrarsi. Qualcuno diceva: Banfi è comunista, qualcosa di vero doveva esserci e sono andata da lui. So che andai dritta da lui in un intervallo e glielo chiesi: «Lei è comunista? Perché io non so che cosa fare». (Avevo pensato che) o mi avrebbe mandato a spasso o mi avrebbe aiutato. Capì che ero una dei tanti in cerca, mi dette fiducia al buio, come io a lui.

(…) La prima volta Banfi non mi disse: «Prenda contatto con i seguenti comunisti», ma «Legga questi libri, e venga a dirmi che ne pensa». Andò alla scrivania e scrisse dei titoli su un foglietto. Io lo aprii in treno – sono le cose che uno ricorda per il resto della vita: era un foglietto magro con l’intestazione dell’università, deve essere andato perso come quasi tutte le mie cose. Aveva indicato due libri di Harold Laski, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e La guerra civile in Francia di Karl Marx, Stato e rivoluzione di Lenin, e «di S. quello che trova». Guardi che è una buona lista per una iniziazione. Ma allora mi venne un po’ un colpo: dunque era vero, era proprio un comunista, di quelli veri, non un simpatizzante (parola che allora non conoscevo).

DEI COMUNISTI sapevo soltanto che era gente decisa e temibile (…) I testi che Banfi mi indicava non dicevano soltanto agisci contro i tedeschi, ma anche: c’è un altro modo di veder le cose, il mondo, la vita, le responsabilità; sei stata cieca, non hai voluto vedere. E, spero che non la faccia ridere, mi pareva che imponessero di rinunciare a quelli che per me erano stati i valori – la pittura, la ricerca, il bello, il lusso della bellezza, non quello del consumismo, che allora non impazzava, e personalmente eravamo molto poveri. Sta di fatto che Banfi fu sorpreso di vedermi arrivare una settimana dopo… avevo deciso. Sì, fu una scelta intellettuale, ragionata e obbligata dalla ragione. Quei testi avevano ragione.

(…) Qualche anno fa a Torino alla fine di una conferenza una bella signora è venuta a salutarmi: ti ricordi? Eravamo a scuola assieme, sono Liliana – certo che la ricordavo, con una splendida treccia bionda attorno alla testa. E mi domanda: «dimmi, come è avvenuta la svolta?» «Che svolta?» «Come sei diventata comunista? Come hai cambiato idea?» E io: «Quale idea? Ero fascista?» Mi ha risposto più o meno «sì»: era imbarazzata, abbiamo parlato un paio di minuti e poi tutti sono usciti. M’è venuto un colpo. Sono stata fascista? Quando? Posso esserle apparsa tale solo nei due anni di liceo passati assieme, i miei quindici/sedici e sedici/diciassette. O prima al ginnasio Manzoni? Mi sono chiesta che diavolo ho detto o fatto e non trovo nulla. La memoria ha gentilmente rimosso delle atrocità? Mi ricordo solo che ero contenta di avere la divisa di giovane fascista perché era il mio primo tailleur, camicetta, giacca e cravatta.

Prima, da giovane italiana, era un informe mantellone, che mettevamo solo per andare ai saggi (anche il tailleur-divisa, del resto). Che cosa posso aver detto o fatto in quel tailleur? Forse che bisognava pensare alla guerra, sacrificarsi, pensare a quelli che erano al fronte, a vincere…? Non lo so.

LA MEMORIA non mi aiuta, non mi assegna colpe. Ricordo invece di essere andata a sentire un paio di lezioni di mistica fascista che era stata introdotta all’Università nell’autunno del 1943: ero curiosa di sentire. C’era un certo Atzeni, tutto vestito di nero in divisa, che blaterava di socialismo fascista, non era neppure interessante in negativo. (…)
È difficile capire adesso che cosa era, o era diventato, il regime negli anni ’30 perché una ragazza non del tutto sciocca potesse aprire gli occhi di colpo nel 1943. Mettiamoci pure l’egoismo personale, l’abitudine donnesca di non occuparsi di politica – la ragione di fondo era che il paese s’era fatto inerte. Il danno più grande di un regime totalitario non è che ti impedisce questo o quello, ti sfida tutti i giorni – ma se non fai politica, ti lascia vivere. Non è vera la tesi di Renzo de Felice, che chi non era antifascista era fascista; poteva essere indifferente o rassegnato, si occupava dei fatti suoi, si scavava delle strade nelle quali fare anche un buon lavoro come tecnico o insegnante o letterato. Guardi che nell’Urss degli anni cinquanta e seguenti, finite le repressioni più pesanti, avvenne lo stesso. Inversamente non è vero che chi era non fascista, o sprezzante del fascismo, fosse perciò antifascista, nel senso di: «Faccio qualcosa per abbattere costoro».

QUEL «NON FASCISMO» che avevo conosciuto a Milano prima dell’Università e poi all’Università fino al 1943 era piuttosto un certo disprezzo dei colti per la retorica fascista – ma quali aquile, spighe, soli… è roba della quale non vale la pena di parlare. (…) mio padre non comperava il «Popolo d’Italia», ma si sentivano per forza i fascisti alla radio o nel film Luce. Per un pezzo mi è rimasta – forse tuttora – la diffidenza per i giornali. Ma era una sottovalutazione, forse un inconscio alibi. Non essere fascisti, o meglio essere non fascisti, non è lo stesso che essere antifascisti. E così anche a scuola. Dove paradossalmente i miei insegnanti non erano fascisti, erano stati formati prima.

Quella lenta invasione, pervasione del fascismo che Angelo d’Orsi descrive – quel libro è spiaciuto a Norberto Bobbio e anche a Pietro Ingrao -, mi spiega quel che a me, ragazzina, appariva il mondo attorno.
Non ricordo, da che l’età mi ha permesso di guardarmi in giro, che ci fosse il terrore. C’era il silenzio. I tagli erano già stati fatti, i comunisti già azzerati, e gli ebrei non li hanno cacciati fino al ’38.

*

GIUDECCA, INCONTRO A UN ANNO DALLA MORTE

Domani, 6 ottobre 2021 dalle ore 17, si svolgerà a Venezia – città che Rossanda definiva come «l’unico posto di cui (era) nostalgica» -, presso la sede dell’Istituto veneziano per la storia della resistenza, un incontro su Rossana Rossanda, in occasione del primo anniversario della sua scomparsa e della donazione all’istituto della biblioteca di Rossanda e del suo compagno di vita K.S. Karol. I relatori dell’incontro saranno Luciana Castellina, Massimo Cacciari e Mario Isnenghi, la moderatrice sarà Giulia Albanese. La sede è Villa Heriot 54/P Calle Michelangelo, Giudecca. Necessaria la prenotazione accedendo al sito dell’Istituto

* Fonte: Giulia Albanese, il manifesto

Il nesso tra storia e politica è un dato ineliminabile, che accompagna le due pratiche, e le loro elaborazioni teoriche, fin dal V secolo a. C. La politica si nutre di storia, e ne fa uso; si parla di «uso pubblico della storia», che alcuni decenni or sono veniva respinto da un filosofo come Habermas, nel timore che la fuoruscita dai luoghi canonici della ricerca e dell’insegnamento, fossero un potenziale pericolo per la storia, che rischia così di essere inquinata dagli interessi di singoli e di gruppi. Habermas aveva torto, perché un uso pubblico della storia, è non soltanto lecito e inevitabile, ma utile per eccitare la volontà di sapere, per costruire o rafforzare una comunità. Eppure aveva colto un problema reale, che nel corso del tempo, a partire dal 1989, si è manifestato con gravità crescente, con la trasformazione dell’uso pubblico in uso politico della storia, che, in determinate situazioni, è diventato abuso politico. Su questo giornale, Claudio Vercelli e Davide Conti hanno evocato talune delle tappe di questo percorso, che ha visto una debole risposta della comunità degli storici, e invece una complice adesione del ceto politico, nella quasi sua interezza.

UNA DATA CAPITALE fu l’autoscioglimento del Pci, con una generale corsa all’abiura che toccò vertici mai raggiunti prima di grottesco: tutti ricordano il «Non ero comunista», e così via. Si assunse, senza pensarci due volte, il pesante bagaglio di colpa del «Dio che ha fallito», e lo si caricò sul partito che nella narrazione corrente fino ad allora era stato, per difendere la sua distanza dagli errori e dagli orrori dello stalinismo, quello di «Gramsci Togliatti Longo Berlinguer». Ora la storica «diversità» comunista veniva obliterata, e via via, si giunse a grandi salti alla cancellazione della storia, accettando sostanzialmente gli argomenti dell’avversario, annegando la verità in una melassa in cui si accoglieva la logica dell’equiparazione di torti e ragioni, preludio inesorabile alla grottesca teorica delle «memorie condivise». La risoluzione del Parlamento Ue del settembre 2019, fu un punto di non ritorno, in tal senso.
In effetti, esiste un quadro sovranazionale, caratterizzato da un «panpenalismo giuridico» che si è coniugato con il «populismo storiografico», sotto la cappa del cupio dissolvi della sinistra.

SI È PROCEDUTO, con lo sfruttamento incontrastato della Shoah, verso una vittimologia giuridicizzata e santificata: il negazionismo, una ideologia con scarsissimo credito, divenne un alibi per mettere a segno alcuni colpi contro la libertà di pensiero e di parola. Ma la democrazia si sa è diventata «post», e la trasposizione sul piano non solo politico ma specificamente giuridico e quindi giudiziario (con sanzioni pecuniarie e pene carcerarie!) della vittimologia ebraica è stata usata come trampolino verso un abisso storiografico, politico e giuridico. L’art. 604 bis C. P., approvato da un Parlamento quasi unanime, recitava: «Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale».

COME PREVISTO da pochi osservatori, quell’articolo apriva la strada verso esiti inquietanti. Dopo il Giorno della Memoria, per una sorta di grottesco parallelo, ecco giungere il Giorno del Ricordo (qualcuno ci dovrà spiegare la differenza tra i due concetti!), dedicato all’esodo dalle Terre del Confine orientale, che però divenne immediatamente, l’apologetica degli italiani vittime dei comunisti, fondandosi su una incredibile contraffazione della verità storica: nasceva la narrazione sulle «foibe», destinata a enorme fortuna politico-mediatica.
Non ci si stupisca ora se il partito neofascista nella sua nota impudicizia, presenta una proposta di legge, volta a modificare il succitato articolo, aggiungendo un comma che, accanto alla Shoah richiama «i massacri delle foibe». La campagna ideologica delle destre, condotta per 17 anni, arriva infine alla vergognosa equiparazione tra due situazioni che nulla hanno in comune, i lager nazisti e le «foibe».

Gli ambienti israelitici che avevano salutato con favore la criminalizzazione della negazione o «minimizzazione» della Shoah, non hanno nulla da dire? Sono disposti ad accettare che quei milioni di morti, gasati e bruciati nei «forni», nella spietata macchina industriale dello sterminio nazista, vengano messi sullo stesso piano delle poche centinaia di morti nelle cavità carsiche delle Terre Orientali? Morti per la maggior parte «seppelliti» quando erano appunto già cadaveri, nel contesto di una guerra che noi italiani avevamo scatenato con l’occupazione della Jugoslavia, suscitando odio e volontà di vendetta.
L’offesa alla verità della storia, produce mostruosità politiche.

*L’articolo è in interlocuzione con quello di Claudio Vercelli, uscito su queste pagine l’8 di giugno, e quello di Davide Conti del 12 di giugno.

Fonte: Angelo d’Orsi, il manifesto

PASSATO PRESENTE. Un ritratto a partire dal libro della storica Anna Tonelli, «Nome di battaglia Estella» pubblicato da Le Monnier. Nata nel 1900 nella Torino proletaria e operaia, la lotta di classe e il senso di giustizia contro sfruttamento e oppressione saranno con lei fino alla fine. Staffetta, emissaria, giornalista, deportata, dirigente di partito e madre costituente, ha raccontato il Novecento attraverso documenti, libri e romanzi. «Rivoluzionaria professionale», la sua autobiografia edita nel 1974, percorre una vita straordinaria

Camilla Cederna l’ha definita «una specie di straordinaria moderna Odissea». E chiunque abbia avuto occasione di leggere Rivoluzionaria professionale, l’autobiografia di Teresa Noce – edita per la prima volta nel 1974 e di cui l’ultima riedizione è del 2016 per Red Star Press -, potrà facilmente convenire sulla intensità di una esistenza che ha attraversato il Novecento e che ne ha saputo raccontare le nervature, politiche, storiche ma anche sentimentali e di intrecci. Della intransigenza indocile di una protagonista di tale rilievo, si è scritto molto e la stessa Teresa Noce ci ha consegnato testi, discorsi, romanzi e documenti che testimoniano e descrivono la temperie di un secolo nel suo portato di libertà femminile e convinta militanza, senza reticenze sulle contraddizioni.

L’ESPERIENZA del comunismo, quando ventunenne prende la tessera – in seguito alla scissione livornese – del partito comunista d’Italia, vive in lei nel senso primigenio alla lotta di classe i cui bagliori si intravvedono già nei suoi lavori, come sarta apprendista, poi in una fabbrica di biscotti, dunque al tornio della Fiat Brevetti. Eppure la possiamo avvertire ancor prima, nella bambina precocemente ostinata e curiosa di conoscenza che cammina per le strade di Torino diretta a comprare i giornali per la propria madre, mentre si siede in una panchina e comincia a leggere i primi nomi del mondo intuendo di non essere sola. Proletario, operaio e sindacale, è un mondo che domanda, in quei primi anni del secolo scorso, giustizia e libertà. Camere del lavoro, leghe, i primi scioperi e moti del pane con il fascismo alle porte, lotte che contrassegnano la sua vita fin da ragazzina ancora lontana dalla guerra civile spagnola cui prenderà parte o dalla scuola leninista moscovita e ancora il massimo oltraggio della deportazione; la partigiana, madre costituente, deputata, dirigente di partito sempre al fianco delle lavoratrici, delle operaie, in particolare le tessili, è in quella giovanissima età una pretesa di riconoscimento inemendabile, per tutti e tutte.

ANCORA NON IMMAGINA cosa significhino strategie politiche complesse nella lunga strada della clandestinità o dentro la dirigenza di un partito ma in fabbrica protesta già per difendere le proprie compagne – molestate dai padroni. Lei che poi rientra a casa e l’acqua le si ghiaccia dentro il secchio, orfana di madre a 17 anni, un fratello aviatore che muore in guerra un anno dopo e un padre che non c’è mai stato. Legge silenziosa e studia avidamente nel pianerottolo dove la luce resiste più che nelle varie soffitte in cui è vissuta e da cui l’hanno sfrattata, ripetute volte. Emerge la rivolta rabbiosa di chi ha conosciuto l’esatto orlo della miseria e ha inteso sopravvivere con tutte le energie a disposizione, non si è mai rifugiata in altri mondi perché ha sempre saputo che è in questo unico e reale che bisogna giocarsi la scommessa vera.

A MENO DI DIECI ANNI la scabbia è un ricordo lontano, non può più andare a scuola e comincia a consegnare il pane per contribuire al sostentamento della propria famiglia, si nutre delle croste che avanzano e intanto contratta con un bancarelliere l’affitto di due libri a settimana invece di uno solo. Ha una tale fame di amore e giustizia, quella bambina, da rimanerle attaccata anche da adulta, eppure possiede un profilo talmente complesso di imprese che ha fatto bene la storica Anna Tonelli a indicarne la complementarietà in un interessante e piccolo libro che la presenta, nella ricostruzione bibliografica e delle fonti. Nome di battaglia Estella. Teresa Noce, una donna comunista nel Novecento (Le Monnier, pp. 155, euro 13) è infatti diviso in due parti; Tonelli – docente di Storia contemporanea e dei partiti e dei movimenti politici all’università di Urbino – compone un testo che percorre i due rilievi di pubblico e privato, stimolando anche il desiderio di procurarsi ogni cosa scritta da Noce, diffonderne la parabola, poterne discutere ancora la voce e le parole per comprendere quanto sia di gran lunga più generativo il comunismo quando risiede nelle mani di una donna.

Nella prima parte si descrivono dunque le fasi principali della sua vita pubblica, mentre avanza l’offensiva fascista e comincia per Teresa Noce e per altri la lunga strada della clandestinità. Staffetta, giornalista, emissaria, organizzatrice, consigliera, agitatrice, dirigente, Tonelli ne sintetizza ruoli e luoghi, dalla prima esperienza con Luigi Longo nella redazione di Avanguardia (poi La voce) a quella carceraria a San Vittore, la prima di altre detenzioni. Sono anni tumultuosi, dalla clandestinità necessaria alla «traduzione di un ideale politico, economico ed esistenziale» che per lei è stata la scuola leninista moscovita. Eppure mai abbandona l’osservazione e l’interlocuzione delle operaie, come accade infatti con le tessili di Ramenskoye.

FRANCIA, ITALIA POI SPAGNA accanto alle Brigate internazionali, gli anni Trenta sono andirivieni di impegno vivido per il partito e per la resistenza. Del resto, già quando sostiene lo sciopero delle mondine (del 1931 nel vercellese e novarese), Teresa è Estella, l’anonimato per proseguire spostamenti e il suo antifascismo, e anche «Madonna tempesta», per segnalare il suo carattere poco avvezzo ai compromessi. È un punto, questo della sua inclinazione al «dire di no», da sempre, che Tonelli tiene a precisare come costante puntellando le scelte autonome e il prezzo pagato anche interno al partito, fino alla vicenda personale con Luigi Longo, suo marito – almeno legalmente visto che il matrimonio si era sfaldato anni prima – fino al 1953, quando quest’ultimo ottiene l’annullamento a San Marino senza consultarla; Noce lo apprende mentre è alla Camera del Lavoro di Milano – impegnata nella stesura della legge sulla parità salariale tra uomo e donna – da un trafiletto del Corriere della Sera. Tonelli insiste sul punto perché la Teresa «pubblica» e quella «privata» sono molto più porose di quanto si immagini. E chi ha letto la sua autobiografia lo sa, quanto le contraddizioni sortiscano un disincanto radicale talvolta insanabile, oltre che ammalante.

A Noce, queste contraddizioni, hanno procurato anche l’estromissione dal Pci, indicativo l’aneddoto di lei che si rompe il menisco andando alla conferenza del Comitato centrale cui con tutta evidenza non voleva presenziare. E infatti torna indietro. Su quel ripudio da parte di Longo c’era intorno l’ostilità di molti dirigenti che fino a poco prima l’avevano non solo sostenuta ma lodata; basterebbe leggere ciò che le scrive Togliatti, dandole del voi e richiamandola all’ordine.
Quando scrive a proposito di questa frattura, ne parla come di un dolore più grave della sua deportazione. La prima detenzione in un campo di internamento come prigioniera politica è a Rieucros. Nel 1943 viene arrestata nuovamente a Parigi dalla polizia francese, e trasferita al carcere femminile Petite Roquette, con disposizione della Gestapo viene deportata al forte di Romainville, arriva a Ravensbrück, viene in seguito internata anche a Holleischen.

NE DÀ CONTO NEL ROMANZO del 1952, Ma domani farà giorno (riedito per Harpo nel 2019 a cura di Graziella Falconi) in cui tramite l’alter-ego di Giovanna Pinelli – amava la letteratura e la sua capacità di costruzione del sé e presa di parola – racconta la disumanizzazione subita, insieme ad altre, nei campi di morte fino alla liberazione. Dice però anche altro, cioè una vicinanza e un lavoro comune, per sabotare le armi dei nazisti, sì, e anche per non restare oppresse sia pure nello sprofondo della Storia, bisogna restarsi accanto.
Anna Tonelli ne riconsegna la vicenda fino alla fine, ovvero il 22 gennaio 1980, splendono le parole attraverso i suoi incontri nelle scuole, dalle lettere ricevute da lettori compagni e compagne che non l’hanno mai abbandonata. Rivoluzionaria, è in quanto donna consapevole di se stessa e per le donne che ha lottato con più passione. Comunista e libera, che mai si è pensata sola o separata dagli ultimi della terra.

* Fonte: Alessandra Pigliaru, il manifesto

Nella zona di Labin/Albona, in Istria, le miniere di carbon fossile sono state famose nei secoli; sfruttate forse già dalla Serenissima, diventate italiane dopo la lunga appartenenza austriaca. È il bacino dell’Arsia, torrente ricco d’acqua che scende dal Monte Maggiore e arriva all’Adriatico con un estuario paludoso: siamo lassù, nella punta di nord-est dell’Istria. La fascia mineraria corre lungo il mare, arrampicata a mezza costa e i pozzi sono stati aperti a decine vicino alle frazioni o a piccoli nuclei abitati: Càrpano, Podlabin, Vines…

Gli operai di quel grande bacino minerario non sono nuovi alle lotte: nel 1867 hanno fondato la «Società di Mutuo Soccorso» perché le agitazioni si susseguono, le condizioni di lavoro sono dure e i salari bassi. I minatori aderiscono esplicitamente al socialismo internazionalista: sono operai croati, tedeschi, slovacchi, italiani, arrivano ogni giorno a migliaia da tutta l’Istria.

LA PRIMA GUERRA mondiale è una sorta di incubo: il regime in miniera si fa durissimo, le punizioni «esemplari», la riottosità antimilitarista viene castigata con invii mirati sul fronte rumeno. Ma con l’arrivo dell’Italia le condizioni non migliorano: l’Italia ha bisogno di carbone e i turni diventano di undici ore, il salario da fame, il ritmo di estrazione frenetico, le misure di sicurezza inesistenti. È bastato il cambio di calendario, tra l’austriaco e l’italiano, per dimezzare le festività riconosciute. Già alla fine del 1918 si torna a scioperare, si apre una sezione del Partito Socialista, sui bollini sindacali si stampa la falce e martello. Gli operai appartenenti alla distrutta Austria-Ungheria se ne vanno e vengono ampiamente rimpiazzati da «regnicoli» friulani, veneti, siciliani ma il clima non cambia, le idee della rivoluzione bolscevica hanno ormai raggiunto tutte le latitudini, la spinta del biennio rosso italiano si ripercuote con forza nelle zone slave occupate.

Nel marzo del 1921 lo sciopero è compatto, deciso: alle condizioni già dure di lavoro si sommano le angherie contro gli slavi in nome della «necessaria» italianizzazione e i fascisti scorrazzano indisturbati al seguito dei carabinieri. Il 4 marzo 1921 i minatori dell’Arsia occupano le miniere. Verso le ore 8 del mattino del 7 marzo, pattuglie di guardie rosse ispezionano il territorio del bacino minerario, invitando gli abitanti dei villaggi e le autorità scolastiche ad esporre sugli edifici le bandiere rosse.

NEL GIRO DI POCHE ore le bandiere spuntano su tutte le case, i ragazzi le issano perfino sui rami degli alberi e una grande bandiera con la falce e il martello viene portata a Vines e piantata all’ingresso principale della miniera. Da quel giorno si comincia a parlare della «Repubblica di Albona». Il Comitato rivoluzionario e le guardie rosse dominano la situazione, gli operai dicono «la miniera è nostra» e allora la miniera deve funzionare «dobbiamo produrre per conto nostro».

L’OCCUPAZIONE delle miniere e l’instaurazione della gestione diretta da parte dei lavoratori ha il carattere di una Comune proletaria, si passa presto all’autogestione amministrativa, il bacino minerario dell’Arsia con i suoi villaggi e i piccoli paesi, è un territorio governato dalla collettività. È l’unico caso di una Comune operaia, consistente territorialmente che si costituisce ed opera in quella che era l’Italia del 1921. Dura poco, le bandiere rosse sventolano ovunque fino all’8 aprile, poi sono strappate via con la forza delle armi.

Oggi, le zone interne dell’Istria sono ancora abbastanza intatte, hanno subìto meno il turismo di massa, la cementificazione, la distruzione di foreste secolari di pini marittimi e poi di lecci e di corbezzoli. E non sono state così devastate dalla guerra inter-etnica dell’ex Jugoslavia negli anni Novanta, quando in Croazia le sedi operaie, come la storica e fondativa Camera del lavoro di Vukovar importante per tutta la storia del movimento operaio jugoslavo, venivano fatte saltare – con le lapidi partigiane – con la dinamite dalle milizie neo-ustascia.

Labin/Albona, arroccata lassù sulla collina con le sue mura medioevali e la Torre Rotonda, è un intrico di viuzze, la piazza, la chiesa trecentesca, la loggia del ‘600: da lassù si vede il mare e le isole di fronte, intorno l’Istria interna verde di querce e di castagni, e poi gli orti e le vigne e gli oliveti a vista d’occhio.

LA TERRAZZA di un’osteria tutta di pietra, la fresca malvasia locale e un vecchio libro, magari scaricato gratuitamente da internet. In questo caso è La Repubblica di Albona” di Giacomo Scotti e Luciano Giuricin, libro fondamentale, e unico, per conoscere la storia della prima comune autogestita antifascista d’Italia. Una breve gloriosa esperienza nel contesto della storia istriana, in quegli anni cruciali del passaggio all’Italia dopo la prima guerra mondiale, la storia dei socialisti, dei comunisti e delle lotte operaie. Una fonte incredibile di fatti assai ben documentati con una ricca bibliografia e anche tanto materiale fotografico che si legge come un romanzo.

Cento anni fa esatti, in una terra certo più povera, con i pozzi di estrazione e l’aria di un grigio denso, la fuliggine, le ciminiere annerite. Eppure è un viaggio nel tempo che profuma, come adesso mentre scende il sole, il mare e il cielo impallidiscono e si sente il profumo della salvia, del rosmarino, della lavanda.

* Fonte: Marinella Salvi, il manifesto

La classicità del lavoro non sarebbe però venuta meno se il testo fosse stato aggiornato, riveduto nelle note come nella bibliografica in base a quanto uscito nel frattempo

Chi negli anni Settanta del secolo scorso si avvicinava ad Antonio Gramsci, allo studio della sua vita e del suo pensiero, si trovava di fronte alla necessità di compulsare, per operare una prima, obbligatoria ricognizione sull’oggetto del proprio studio, una biografia del grande sardo. La generazione che si accostò a Gramsci nel periodo appena indicato si trovò davanti a tre biografie del dirigente comunista: Giuseppe Tamburrano (Antonio Gramsci. La vita. Il pensiero. L’azione, Lacaita, 1963), Salvatore Francesco Romano (Gramsci, Utet, 1965), Giuseppe Fiori (Vita di Antonio Gramsci, Laterza, 1966).

I TRE AUTORI affrontavano la vita del pensatore sardo in modi diversi: chi insistendo, come Tamburrano, seppure in modo spregiudicato, decontestualizzando Gramsci rispetto al suo tempo, sugli aspetti teorici; chi, come Romano, fissando maggiormente l’attenzione sulla biografia in senso stretto, pur con una tendenza evidente a schiacciare la problematicità della vita di Gramsci su vicende psicologiche che, a suo dire, lo avrebbero condizionato; chi, come Fiori, ricostruendo le vicende del grande sardo in maniera non agiografica e senza preconcetti di ordine ideologico. Alla diversità delle impostazioni si contrapponeva un dato in comune fra i tre autori: si trattava di tre studiosi non comunisti.
Di queste biografie quella di Fiori, nel corso del tempo, ha maturato una legittima patente di classicità nel significato che il termine ha acquisito a partire dalla definizione di Calvino, ossia «un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire»; per questo viene oggi riproposta (Giuseppe Fiori, Vita di Antonio Gramsci, con una Introduzione di Alberto Asor Rosa, Laterza, pp. 334, euro 20). Questa nuova edizione vuole essere un doppio omaggio: a Fiori, autore di importanti biografie quali quelle di Lussu, Berlinguer, Ernesto Rossi, Michele Schirru, Berlusconi, dei fratelli Rosselli, e inoltre della raccolta di saggi in un unico volume su Gramsci, Togliatti e Stalin, nonché di due romanzi, Sonetàula e Uomini ex, attraverso la ristampa di alcuni di questi libri; al biografato, in quanto il volume viene riproposto nel 130° anniversario della nascita e, a sottolineare l’evento, è comparso in libreria proprio il 22 gennaio scorso, giorno natale di Gramsci.
A partire dall’anno della sua prima pubblicazione, il 1966, nella collana «Universale Laterza», il libro di Fiori è stato riproposto dalla casa editrice più volte e con varia collocazione: nella collana «Storia e Società» (1974), nella «Biblioteca Universale Laterza» (1989), nella «Economica Laterza» (1995) e ora nei «Robinson/Letture». Da tenere presente anche che lo stesso Fiori curò, nel 1994, per la Einaudi, un volume di Antonio Gramsci intitolato Vita attraverso le lettere, che era quasi una (auto)biografia.

NELL’AVVERTENZA scriveva di voler fornire «l’autoritratto di Gramsci attraverso una selezione di 261 sue lettere (con le conosciute, le trascurate): tra le 652 finora edite, quelle che meglio aiutino le ultime leve di lettori a conoscerlo» (ovviamente il numero delle lettere era riferito alla somma di quelle carcerarie con quelle pre-carcerarie). Emergeva, dall’Avvertenza, la necessità di divulgare e far conoscere Gramsci a un pubblico vasto e veniva manifestata «l’ambizione di accostare a Gramsci i giovani, poco informati dalla scuola (se non da singoli professori colti e volenterosi)».
Asor Rosa, nell’Introduzione a questa nuova edizione, sottolinea quelli che a suo avviso sono gli aspetti fondamentali della biografia gramsciana di Fiori: la «sardità», «le radici e le scaturizioni psicologiche e culturali nel massimo della profondità possibile», l’impegno politico, la prigionia, la «centralità del tema amoroso». Asor Rosa si sofferma con particolare interesse sul Gramsci politico come appare nell’interpretazione di Fiori, in specie il Gramsci del 1926, fra il Congresso di Lione del gennaio e la lettera al Comitato centrale del Partito comunista sovietico dell’ottobre. Gramsci verrà arrestato, a dire il vero, meno di un mese dopo, l’8 novembre, e non «poco più di un anno dopo – novembre 1927».

Da qui l’Introduzione passa ad affrontare il tema, in genere ricordato con il titolo di un celebre saggio di Spriano, Gramsci in carcere e il Partito, ossia il «contrasto profondo – su cui Fiori metteva l’accento, ricorda Asor Rosa – che sarebbe sorto con lo stesso Togliatti e con il Centro del Pcd’I» conseguente all’espulsione di Leonetti, Tresso e Ravazzoli e all’assunzione da parte dell’Internazionale della linea del socialfascismo. «Gramsci sapeva? E qual era in proposito la sua opinione?», si chiede Fiori. Asor Rosa affronta la vicenda ricorrendo a una documentazione a dire il vero ormai datata, alle posizioni polemiche di Ragionieri e di Spriano contemporanee all’uscita del libro, concordi nell’affermare che non c’erano state fratture rilevanti, all’epoca, ai vertici del Pci. Sull’altro fronte, Fiori sosteneva che le tesi degli espulsi erano quelle di Gramsci e riteneva che la «suicida linea staliniana» fosse stata accolta con poca convinzione anche da Togliatti. A far chiarezza sulla vicenda intervenne, molti anni dopo, il ritrovamento del Rapporto Gennaro (pubblicato nel 2007 in appendice al volume di Angelo Rossi e Giuseppe Vacca Gramsci tra Mussolini e Stalin) nel quale il fratello maggiore di Gramsci, in un colloquio con il detenuto presso il carcere di Turi, sosteneva che Gramsci nulla aveva eccepito sull’espulsione dei tre, ma aveva criticato la svolta socialfascista imposta dall’Internazionale al Pcd’I. Ma il reale oggetto della riflessione carceraria di Gramsci sulla politica in atto non era solo sulla sua opposizione alla «svolta», ma più in generale sul tema della fuoriuscita dal fascismo. E a questo proposito Fiori aveva scritto che le stesse Tesi di Lione del 1926 anticipavano in qualche modo la politica dei fronti popolari.

QUALCHE OSSERVAZIONE più generale sul testo. La nuova edizione della Vita di Antonio Gramsci ripropone la stessa Avvertenza con cui Fiori apriva l’edizione del 1995. L’autore faceva presente allora che, pur consapevole della grande mole di scritti pubblicati sul comunista sardo dal 1966 in avanti, preferiva non intervenire sulla biografia, «per consiglio di cultori di Gramsci» propensi a pensare che il libro reggeva bene l’urto dei nuovi materiali nel frattempo messi a disposizione degli studiosi.
Siano consentiti a questo proposito alcuni dubbi. La classicità del lavoro di Fiori sarebbe venuta meno se questa nuova edizione fosse stata aggiornata, riveduta nelle note a pie’ di pagina e nella Nota bibliografica che chiude il lavoro? Non sarebbe stato opportuno, avendo a disposizione due edizioni delle Lettere dal carcere successive a quella di cui poteva disporre Fiori nel 1966 (presso Sellerio nel 1996, a cura di Antonio A. Santucci, e presso Einaudi, nel 2020, a cura di Francesco Giasi, quest’ultima arricchita di diverse nuove lettere), intervenire sulle molte note in cui Fiori scrive «La lettera è inedita»? I ragazzi ai quali Fiori dedica il suo lavoro, quelli che oggi leggono e studiano Gramsci, e più in generale forse tutte le lettrici e tutti i lettori, sarebbero stati riconoscenti a chi avesse realizzato tale operazione di necessario aggiornamento bibliografico, senza ovviamente toccare il testo. Ricordava Livio Sichirollo: «con i libri sono un po’ pignolo, cioè all’antica». E Antonio A. Santucci, peraltro amico di Fiori, chiosava: «Non resta allora che sperare d’essere stati abbastanza all’antica». Con i libri è meglio essere pignoli e all’antica che correre il rischio di esserlo troppo poco.

* Fonte: Lelio La Porta, il manifesto

Divenne dopo Gramsci la segretaria del Pci, con il fardello organizzativo dei collegamenti con i responsabili regionali, la pubblicazione de l’Unità, le infinite riunioni

La chiusura in casa da «quarantino» ha fatto saltare decine di appuntamenti per il 75° della Liberazione, suscitando però una nuova curiosità: raccontare la storia di uomini e donne vittime del virus fascista di allora e sottoposte alla durissima segregazione, durata in alcuni casi più di dieci anni.

Il primo nome che mi viene in mente è quello della maestrina di Acqui, Camilla Ravera, arrestata il 10 luglio 1930, ad Arona, e detenuta in tante galere, ininterrottamente sino all’agosto 1943. Un primato di quarantena durato 4795 giorni, condiviso in luoghi e tempi diversi con illustri compagni, colpiti dallo stesso virus, quali Pertini, Terracini, Spinelli, Rosselli, Amendola, Gramsci, Silone, Grieco, Spano, Togliatti, Felicita Ferrero, Teresa Noce ecc….

L’omaggio doveroso coincide con il 32° anniversario della morte, avvenuta il 14 aprile 1988 all’età di 99 anni. Mussolini, duce del fascismo, ordinò il suo primo arresto nel novembre 1922. Non sopportava che una donna potesse essere una dirigente eccelsa del mondo antifascista. Quasi sempre nascosta, la clandestina Camilla sfuggì a Mussolini per quasi 8 anni, assumendo nomi di battaglia, quali Silvia e Micheli, nomi che facevano impazzire l’Ovra incapace di pensare che il temuto partito comunista, potesse essere diretto da una donna.

Fu Antonio Gramsci ad intuire le capacità di Camilla, giovane socialista torinese. La chiamò nel 1920 nella redazione del settimanale Ordine Nuovo affidandole l’incarico di esperta del movimento internazionale. Lo stesso Gramsci, nel luglio 1921, le affidò nell’Ordine Nuovo, diventato quotidiano, il ruolo di responsabile della «Tribuna delle donne».

Diventa comunista a Livorno il 21/01/1921, fu eletta negli organismi dirigenti. Venne prescelta a far parte della delegazione italiana inviata a Mosca nel novembre 1922 alla conferenza dell’Internazionale comunista dove ebbe l’incontro più importante, sotto il profilo umano e politico, della sua vita, con Bordiga ebbe un colloquio con Vladimir Lenin, a pochi giorni di distanza dal golpe fascista della marcia su Roma.

Cominciarono allora 8 anni di lavoro clandestino, accanto a Gramsci, Togliatti e Terracini. Un ruolo spesso oscuro ma decisivo: le elezioni del 1924, il delitto Matteotti, il congresso di Lione con la vittoria gramsciana su Bordiga e infine la repressione fascista del novembre 1926 che decise il rapporto stretto di Camilla Ravera con Genova. Il comitato centrale eletto a Lione venne convocato clandestinamente a Genova, in Valpolcevera. Solo pochi compagni sfuggirono alle retate fasciste. Anche Gramsci fu arrestato. Camilla ebbe il peso sulle sue spalle di salvare il partito.

Individuò il quartiere di Sturla come centro nascosto dei comunisti. La villetta alla confluenza tra Via Caprera e Via Sturla divenne direzione del Pc d’ I. La casetta dell’ortolano, nella zona allora agricola dell’attuale liceo King fu destinata a ufficio stampa. Un appartamento scelto da Camilla in Salita Vallechiara ospitò l’ufficio militare. Oggi può apparire un miracolo: la compagna Micheli divenne dopo Gramsci e prima di Togliatti, la segretaria del Pci, con il fardello organizzativo dei collegamenti con i responsabili regionali, indicati con un numero al posto dei nomi. Camilla riuscì a mantenere la pubblicazione de l’Unità, a convocare infinite riunioni di partito a Sturla nella casetta denominata “Albergo dei poveri” per l’ospitalità ai quadri di partito.

Le relazioni accurate di Micheli per Ercoli (Togliatti) fanno parte della storia della vitalità antifascista, rappresentata da questa piccola, minuta donna, ricercata dalla polizia e capace, ogni giorno, di prendersi l’ora di aria sulla bellissima spiaggia di Sturla. La storia di quell’Italia è stata scritta da Paolo Spriano, sulla base degli scritti di Camilla Ravera. Dopo l’arresto del 10/07/1930 subì il processo concluso con la condanna a 15 anni e 6 mesi. Il pellegrinaggio tra carceri e confino fu infinito: Trani, Perugia, Montalbano Ionico, S. Giorgio Lucano, Ponza, Ventotene.

Tutto provò Camilla: la ferocia fascista, l’amarezza provocata in lei dagli stalinisti del Pci che non le perdonavano di essersi nel 1939 schierata contro il patto Stalin-Hitler. Venne addirittura espulsa dal Pci e riammessa solo nel 1945. Una profonda amarezza mitigata dall’incontro a Ponza e a Ventotene con Sandro Pertini e Umberto Terracini.

* Fonte: Giordano Bruschi, il manifesto

Un esempio è un modello da seguire, ma anche un fatto particolare che illustra un’idea generale. La vita di Bianca Guidetti Serra, della quale quest’anno ricorre il centenario della nascita, lo è stata, un esempio, nel duplice significato del termine: sia come punto di riferimento, sia come rappresentazione del Novecento «in una persona sola». Lo si può ricavare dall’autobiografia Bianca la rossa (Einaudi, 2009), scritta insieme a Santina Mobiglia vincendo le ritrosie di chi preferiva esprimersi «dal punto di vista del noi anziché dell’io»: il racconto di una storia individuale intrecciata alla Storia delle grandi vicende collettive. E lo si può riconoscere grazie alle molte iniziative che sta realizzando il Comitato nazionale per la celebrazione della sua figura, come il convegno in programma domani a Roma, a Palazzo San Macuto, dedicato alla sua attività di parlamentare (ore 15, fra i relatori Gaetano Azzariti e Rosy Bindi).

TORINESE, FIGLIA DI UNA SARTA e di un modesto avvocato, la sua «introduzione alla politica» sono le leggi razziali, patite attraverso le discriminazioni subite da Alberto Salmoni, divenuto poi suo marito, e dagli amici che conosce attraverso di lui, come Primo Levi, a lei legatissimo. Orfana di padre, ne segue le orme, laureandosi in giurisprudenza tre settimane prima della destituzione di Mussolini. Diventata nel frattempo comunista, nel capoluogo piemontese partecipa alla Resistenza attraverso i «Gruppi di difesa della donna», occupandosi in particolare della produzione e diffusione del suo giornale clandestino, La difesa della lavoratrice, primo segno dell’attenzione, che mai abbandonerà, nei confronti della circolazione delle informazioni e delle idee. Vive la lotta di Liberazione come lotta politica per l’emancipazione femminile, una lotta che senza soluzione di continuità prosegue nell’attività sindacale dell’immediato dopoguerra: il 14 luglio del ’45 il primo sciopero, perché il governo del Cln aveva fissato l’indennità di contingenza sui salari dei lavoratori prevedendo che fosse più bassa per le donne.
Un «femminismo», quello di Bianca, consegnato alle splendide pagine di Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, uscito nel ’77 per Einaudi, uno dei vertici della storiografia della Resistenza basata sulle fonti orali – che la casa editrice dello Struzzo farebbe bene a ripubblicare. Voci di donne «che sono state “base”», la cui vita, per l’autrice, ha significato «l’affermazione e la dimostrazione del valore e della portata della partecipazione dal basso, che si caratterizza e si qualifica per la fedeltà al proprio patrimonio ideale e al contempo per l’attenzione ai problemi immediati e concreti». Un «femminismo» non teorico (da cui si sentì sempre distante, lei «emancipazionista») ma praticato nell’impegno politico e in quello professionale. Avvocata dal 1947, un caso fra i tanti che segue è quello di Gigliola Pierobon, processata nel 1973 per aborto volontario.

IL «LUNGO SESSANTOTTO» è l’apogeo del suo ruolo di «militante» nelle aule di giustizia: dalla difesa degli studenti a quella dei detenuti in lotta, dagli obiettori di coscienza alla parte civile nello storico processo per le spionaggio che la Fiat operò ai danni dei suoi dipendenti, vicenda raccontata in un altro suo prezioso libro, Le schedature Fiat (Rosemberg & Sellier, 1984): in quell’immenso archivio con oltre 300mila schede personali compilato illegalmente nell’arco di vent’anni emergeva l’intreccio fra abuso privato e abuso pubblico, perché tra gli informatori dell’azienda figuravano anche funzionari delle amministrazioni locali e appartenenti ai corpi di polizia. E poi il processo più difficile, quello al nucleo storico delle Brigate rosse, da difensore «tecnico» dei brigatisti che rifiutano di avere avvocato.
Negli anni Settanta Guidetti Serra è da tempo comunista «senza partito». Dopo quel fatale 1956 dell’intervento sovietico in Ungheria non rinnovò la tessera, come Italo Calvino: il suo spirito libertario e la sua autonomia di giudizio le impedivano di «tacere e giustificare». Il tradimento, per lei, stava nel silenzio complice, non nella denuncia dei carri armati. L’abbandono del Pci è «un trauma profondo», superato dimostrando «che si poteva fare politica anche senza il partito». Ad esempio nell’impegno internazionalistico: molto del suo attivismo successivo è nelle campagne di solidarietà con l’antifranchismo in Spagna. Ma non solo: è tra le fondatrici, con Norberto Bobbio, del Centro studi Piero Gobetti, e si dedica anche al delicatissimo tema dei diritti dell’infanzia, in particolare dei minori maltrattati negli istituti assistenziali – lasciandone importante traccia ne Il paese dei celestini, volume del ’73 uscito nella storica «Serie politica» einaudiana, quella dalle copertine viola, curato con Francesco Santanera.

DOPO QUELLA DEL PCI non ha altre tessere di partito, ma è «compagna di strada» dei gruppi della nuova sinistra. A metà anni Ottanta Democrazia proletaria le propone di guidare la sua lista al consiglio comunale di Torino, poi di candidarsi alla Camera: deputata dal 1987 al ’90, promuove un’indagine conoscitiva sulle adozioni e una legge per la messa al bando dell’amianto, segue le carceri e l’antimafia. Poi nuovamente il consiglio comunale, da indipendente in quel Pci in cambiamento dopo la Bolognina, e poi nel Pds. Nella biografia confessa di essersi sentita più a proprio agio nelle aule di tribunale che in quelle parlamentari, forse perché in politica «ci si ascolta poco e si parla troppo»: è debole «il quadro condiviso da cui dovrebbero scaturire i criteri per argomentare e decidere», a partire dalla Costituzione spesso ignorata. Un disincantato realismo che, tuttavia, non è anti-politica, semmai il suo contrario: è aspirazione a una politica di tutti e tutte, non di soli professionisti, a una democrazia che «bisogna volere e costruire» ogni giorno, senza perdere «il filo delle sue ragioni, quel filo da riannodare e intessere costantemente, che è poi il senso del legame sociale».

* Fonte: Jacopo Rosatelli, il manifesto

«Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile». Raccontare la breve esistenza di Giaime Pintor, morto a ventiquattro anni su una mina tedesca, a Castelnuovo al Volturno, in Molise, durante il compimento di un’azione di infiltrazione nel territorio occupato dai nazifascisti, è ripercorrere la traiettoria di una generazione di intellettuali che si formò all’ombra del fascismo per poi, nel mentre stesso in cui il regime ancora celebrava i suoi declinanti fasti, distaccarsene con motivazioni proprie. Prima ancora che a un’opposizione politica, il dato che emerge è quello di una rivolta ideale e morale, che si incanala progressivamente verso esiti di rifiuto esistenziale.
Ci aiutano in questo percorso di scavo nella coscienza nazionale e continentale le Edizioni Ensemble di Roma che, con la ristampa del Sangue d’Europa. Scritti politici e letterari (a cura di Andrea Comincini, pp. 291, euro 15) e del romanzo testimonianza di Carlo Ferrucci, La mina tedesca (pp. 203, euro 16), ci restituiscono un quadro d’insieme. Anche e soprattutto dopo le polemiche, a volte impietose, sui modi e i termini da adottare per capire certe scelte.

NEL CASO DI GIAIME, la voracità intellettuale e la bulimia culturale sono i vettori su cui modella progressivamente una precisa identità, che è solo in parte tributaria dello spirito dei suoi tempi, semmai interrogandosi su quelli a venire. Le domande rimarranno nel suo caso senza risposta, di fatto cadendo in combattimento nei primi mesi della lotta di Liberazione. Saranno quindi altri che se ne faranno latori, a partire dal fratello Luigi.
L’origine famigliare sarda, in un ambiente che dell’interconnessione tra formazione culturale, al limite dell’erudizione leopardiana, e ruolo sociale, aveva fatto la sua ragione d’identità, è senz’altro un primo calco dal quale partire. L’incontro con Roma, fin da piccolo, costituisce un’altra tappa importante. Se l’infanzia cagliaritana fu segnata dalla condizione di felice abbandono a sé e alla propria famiglia, ben presto l’irrequietezza di Giaime iniziò ad emergere, con una sorprendente precocità, dal momento che il rapporto con la lettura e la conoscenza si costituirono in lui come una sfera di identità autonoma. Alla curiosità, peraltro, si legava sempre più spesso l’insofferenza. Se negli anni della formazione adolescenziale ciò poteva essere ancora inteso come un tratto di distinzione tipico di un’età che cercava di perimetrare il proprio sé, il trasferimento al Roma nel 1935, sua città elettiva, per concludere gli studi liceali, ne segnò l’atto di autonomia.

Fondamentale fu il salotto della casa degli zii, che ospitava una nutrita congerie di amici e interlocutori, dal filosofo Giovanni Gentile a Lucio Lombardo Radice, quest’ultimo poi pedagogista e matematico di vaglia, che erano parte del gruppo dei giovani intellettuali comunisti (Antonio Amendola, Bufalini, i fratelli Natoli) presenti nella capitale. Non si trattava di iniziare a svolgere un lavoro politico ma di intessere la tela delle reciprocità. Le quali, poi, avrebbero comunque influito enormemente nell’evoluzione del radicamento sociale e culturale dei risorti partiti antifascisti.
La cifra di Giaime, in quegli anni di prodromi e premesse del cambiamento, è quella di un’immedesimazione diretta, senza mediazioni, nei temi culturali, alla quale si accompagna, in forma di autodifesa, un distacco ironico, a tratti sarcastico, ma comunque individualistico, dal fascismo più grottesco. L’avvio degli studi universitari, nella facoltà di giurisprudenza, e la partecipazione ai Littoriali, costituirono un ulteriore momento di transizione. Poiché fu in quelle circostanze, per un giovane uomo che per tutta la sua breve esistenza rimase essenzialmente un letterato, traduttore novatore di autori tedeschi, germanista in erba e in fiore, che il problema di raccordare lettere ad azioni, pensieri a scelte, iniziò a formularsi appieno.

Se l’Europa si stava consegnando con sufficiente inconsapevolezza alla tragedia di una guerra mondiale, tra quel gruppo di giovani cresceva invece un disagio che si sarebbe poi tradotto in contrapposizione attiva. Sul piano intellettuale era il rigetto dell’irrazionalismo fideistico che stava lievitando come corredo e legittimazione della violenza che si sarebbe scatenata di lì a poco; sul piano etico era la messa in discussione del primato di un’inesistente moralità fascista; sul piano politico, infine, diventava la negazione della statolatria fascista ma anche del suo antipluralismo. Proprio dal lavoro di traduttore dal tedesco, e di filologo, il giovane intellettuale trasse e maturò la convinzione che la realtà è assai più complessa di quelle raffigurazioni che intendono incapsularla in pochi paradigmi.

COME TRADUTTORE di Rainer Maria Rilke (poi di Kleist, Trakl, Arnim, Jünger e altri ancora), e pubblicista, si adoperò in un duplice lavoro: liberare i versi dalla ridondante retorica dannunziana, riprodottasi in molteplici registri, ed evitare che l’intero apparato poetico tedesco fosse inghiottito dalla rutilante autoraffigurazione del nazismo, affermatosi in Europa come vera e propria mitopoiesi, capace di ingoiare anche il patrimonio letterario tedesco. Nel 1940, pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra da parte dell’Italia, si laureò e partì per il servizio militare, che svolse con crescente demotivazione, irritazione ed infine estraneità, come ufficiale subordinato. Il trasferimento a Torino per motivi di servizio, gli valse una grande opportunità, quella di entrare in contatto e poi collaborare attivamente con il cenacolo della casa editrice Einaudi (Massimo Mila, Leone Ginzburg, Felice Balbo, Cesare Pavese).

Più la crisi bellica si incancreniva, maggiore era l’intransigenza che Pintor e i suoi amici e colleghi andavano maturando. La consulenza editoriale gli era facilitata dalla grande capacità di cogliere una molteplicità di aspetti della trasformazione in atto, potendo fare affidamento sulla sua poliedricità intellettuale. La repentina caduta del regime lo fece quindi rientrare a Roma da Vichy, dove era stato nel mentre trasferito come aggregato alla missione militare italiana. Nella capitale rimase fino ai primi giorni di settembre, lavorando prima all’ipotesi di una testata giornalistica, poi all’intelaiatura di rapporti e scambi tra i partiti antifascisti e l’esercito. Pintor, tuttavia, era e rimaneva anche un militare. La crisi dell’8 settembre, quindi, fu da lui vissuta non più in chiave di sollecitazione intellettuale ma soprattutto in termini operativi. Più che il maturare dell’antifascismo come cultura politica, contava il viverlo come primato dell’opposizione ai fatti. «A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in un’organizzazione di combattimento».
Prima partecipò agli scontri a Porta San Paolo, poi si mosse verso Brindisi, dove nel mentre erano riparate le autorità regie. Benché si fosse messo a loro disposizione, dinanzi al tracollo in atto e all’inettitudine di ciò che restava dei comandi («dopo essermi convinto che nulla era cambiato tra i militari»), decise di abbandonare la città andando a Napoli, dove, nel mentre, mentore Benedetto Croce, si stava cercando di costituire un corpo di volontari, comandato dal generale Giuseppe Pavone. Fallito anche questo tentativo, infine si aggregò si servizi di intelligence dell’esercito britannico, con l’incarico di assumere il comando di un piccolo gruppo di combattenti.

TRE GIORNI PRIMA di morire scrisse l’accorata, dolente e lucidissima lettera-testamento al fratello Luigi, manifesto generazionale: «oggi in nessuna nazione civile il distacco tra le possibilità vitali e la condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo distacco e di dichiarare lo stato d’emergenza». Parole che sembrano riecheggiare in qualche modo lo stato presente delle cose. Pintor non fu icona ma rimase uomo. Come tale, incorporando anche conflitti interiori. Il resto, francamente, rimane eco solo di una vacua e sterile polemica, in una battaglia di parole dove non si sente mai il trascorso riecheggiare del piombo.

* Fonte: Claudio Vercelli, il manifesto

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