«El italiano» della Rivoluzione torna a Cuba

Gino Donè, unico europeo imbarcato sul Granma, partigiano e guerrigliero castrista, è stato tumulato ieri all’Avana, nel Panteon dei combattenti della Rivoluzione cubana

Gino Donè, unico europeo imbarcato sul Granma, partigiano e guerrigliero castrista, è stato tumulato ieri all’Avana, nel Panteon dei combattenti della Rivoluzione cubana

 

Dalla Resistenza alla Rivoluzione. È questa l’estrema sintesi della vita dell’ultimo garibaldino italiano che si è battuto per Cuba, questa volta in una rivoluzione vincente, quella dei barbudos di Fidel Castro.
Si tratta di Gino Donè, l’unico italiano, anzi europeo, ad aver partecipato a fine novembre 1956 al corpo di spedizione di Fidel Castro, 82 uomini imbarcati sullo yacht Granma, per innescare nella perla delle Antillle la guerriglia contro il governo dittatoriale di Fulgencio Battista

UN’IMPRESA da far tremare i polsi ai ribelli cubani, figuriamoci a uno straniero. E infatti sul Granma ve ne erano solo quattro di non cubani, un messicano ( “Alfonso”), un domenicano (“Ramon”) – entrambi condividevano con i cubani la volontà di combattere la politica imperiale degli Stati uniti -, un argentino, Ernesto “Che” Guevara, medico malato d’asma ma che con Fidel condivideva il sogno bolivariano e martiano di fondare la “Patria grande” latinoamericana. E infine, “el Italiano”, Donè.
Le cui ceneri ieri, a 67 anni dallo sbarco del Granma, sono state tumulate all’Avana nel Panteon dei combattenti della Rivoluzione cubana del cimitero monumentale Colón alla presenza di alti funzionari di Stato. Si è compiuta così l’ultima volontà di Donè, esaudita dalla Associazione di amicizia Italia-Cuba.

MA LUI, Gino Donè, veneto trentenne, che ci faceva lì sul Granma? Lui che aveva fatto la guerra e la Resistenza e sapeva bene a quale futuro incerto e pericoloso andava incontro? Interrogato più volte negli ultimi anni della sua vita, ha argomentato che a motivarlo non era «l’ideologia marxista leninista come Ernesto» (Guevara), né la fiducia incrollabile di Fidel nel successo della guerra contro la dittatura. Lui si definiva «un selvaggio», tenacemente ribelle, disposto a lottare contro i sistemi che opprimono quelli come lui, venuti dal basso, dalle paludi, da lavori estenuanti e mal pagati. Gli invisibili al potere. Per questo si era unito alla Resistenza in Italia e dopo, anche a Cuba, continuava a pensare che valeva la pena rischiare la pelle per gli oppressi. Su quella barca che si dirigeva a Cuba aveva il grado di tenente, capo squadra del plotone di retroguardia comandato da Raúl Castro.

Gino Giacomo Donè (all’anagrafe portava il nome dei due nonni) era nato il 18 maggio 1924 in una casa colonica nella frazione di Rovarè, a San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso. Nel 1942 era soldato, di stanza a Pola. E lì si trovava l’8 settembre del 1943. Aveva 19 anni e decise subito da che parte stare: con una barca tornò a San Donà di Piave e si unì alla Brigata Piave svolgendo azioni di guerriglia e di soccorso.
Ma finita la guerra l’Italia vuole dimenticare e per prima cosa si dimentica dei piccoli eroi della guerra partigiana. Gino è disoccupato e deve emigrare per vivere. Fa il carpentiere in Francia, Belgio e Germania. Poi l’improvviso colpo di testa, lascia tutto, si imbarca come clandestino in una nave a Amburgo e viene sbarcato a Cuba nel 1952.

ED È QUI che la sua vita diventa come una pellicola d’avventura. Sulle scalinate dell’Università dell’Avana, dove aveva trovato lavoro, conosce Hemingway, ma anche studenti rivoluzionari. Ma la svolta avviene a Trinidad dove si sposta per lavoro. Si innamora e si sposa, lui ex guerrigliero, con una donna, Norma, che di cognome fa Guerra. Ed è la migliore amica di Aleida March, militante dello movimento che fa a capo a Fidel Castro, futura seconda moglie di Che Guevara. È Aleida che scrive a Fidel -in esilio in Messico e impegnato a preparare una spedizione per iniziare a Cuba la guerra di liberazione dalla dittatura – di un ex guerrigliero italiano che ha combattuto i fascisti durante la Seconda guerra mondiale.
Gino, non solo sa usare le armi e conosce la tattica di guerriglia, ma ha anche documenti italiani con i quali può viaggiare senza che l’occhiuta polizia di Batista gli aliti sul collo. È dunque lui incaricato di portare in Messico in varie missioni i soldi che servono per comparare armi e il battello Granma che porterà i ribelli a Cuba. E lo stesso Fidel coopta “el italiano” per la sua spedizione.

E FA BENE. Così ha raccontato Donè in una intervista a Liberazione: «Quando sbarcammo a Cuba, il 2 dicembre, impiegammo quattro ore per superare arbusti e mangrovie, poi siamo stati attaccati dagli aerei di Batista. Ci siamo divisi in gruppi, come mi aveva insegnato l’esperienza di partigiano. I chiodi degli scarponi ci bucavano i piedi». In questa drammatica situazione, Guevara in preda a un attacco d’asma e senza medicine rimane indietro e perde il contatto con il resto dei ribelli. Ed è “el italiano” che lo trova, spossato da una forte crisi d’asma, fucile e giberne in spalla ma incapace di camminare.

Donè aveva l’esperienza della moglie Norma anche lei asmatica; sa dunque come praticare un energico massaggio a Ernesto – «mai l’ho chiamato Che» dichiarò – in modo da alleviargli la crisi e permettergli di proseguire. In pratica salvandogli la vita.

IN SEGUITO tocca a Gino di trovarsi disperso dopo l’attacco sia dell’aviazione sia delle truppe di Batista a Alegria del Pio: è il primo scontro armato dove i ribelli vengono decimati- rimangono in 12 e anche il Che è ferito alla gola. Solo, in un canneto, mentre fischiano le pallottole, Donè pensa che se si apre la strada tra le canne verso dove pensa siano gli altri sopravvissuti lascerà una pista utilizzabile dal nemico. Decide di sganciarsi. Ritorna prima a Trinidad dalla moglie poi si sposta a Santa Clara dove si congiunge con i militanti del “26 luglio”, tra i quali Aleida March, che operano sabotaggi in città. Presto però è ricercato dalla polizia di Batista e deve fuggire all’estero.

Prima in Messico. Poi negli Usa. Dove rimarrà fino al 2003, quando ormai vedovo, decide di ritornare in patria, dove ha ancora parenti. È questa una zona grigia della vita del garibaldino. C’è chi lo accusa di aver disertato la guerriglia. Ma ci pensano, molti anni dopo in occasione di un viaggio di Donè a Cuba per il primo maggio 2004, sia il comandante Ramiro Valdés, sia lo stesso Fidel a fornire una evidente riabilitazione. “El italiano” infatti viene decorato, Valdés, attuale vicepremier, gli impone il suo berretto di comandante della Rivoluzione, Fidel lo abbraccia.

È IL RICONOSCIMENTO che anche all’estero Donè ha lavorato per Cuba? Nell’intervista a Liberazione (2006) dichiara: «Io straniero ero il più indicato a starmene lontano da Cuba per fare ciò che nella Sierra Maestra non avrei potuto fare. C’era bisogno di addestramenti, collegamenti, informazioni, soldi, armi e molte altre cose ancora… Anch’io ho fatto la mia parte».
Il vecchio garibaldino muore nel 2008. Al suo funerale partecipa una piccola folla, con molti ex partigiani. E vi sono anche le corone inviate da Fidel e Raúl con la scritta «ciao Gino».

* Fonte/autore: Roberto Livi, il manifesto

 

 

ph by Paoloplava – Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=32470787

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