I contropoteri delle comu­nità resistenti

Movimenti. Un salto negli Stati Uniti, alla riscoperta delle pratiche anti-oligarchiche del «community organizing»

Negli Stati Uniti, dove le oli­gar­chie hanno da sem­pre mostrato il volto più moderno e sofi­sti­cato, la sfida al loro stra­po­tere ha ispi­rato lo svi­luppo di cor­renti demo­cra­ti­che radi­cali il cui fine prin­ci­pale è stato quello della ridi­stri­bu­zione sociale del potere. La prin­ci­pale tra que­ste cor­renti è senza dub­bio quella del com­mu­nity orga­ni­zing. Fon­dato da un socio­logo allievo di Clif­ford Shaw nella Chi­cago degli anni ’30, Saul Alin­sky, si tratta di un metodo fina­liz­zato alla crea­zione di forme di sin­da­ca­li­smo di comu­nità d’ispirazione soli­dale che si mobi­lita, attra­verso la costi­tu­zione di orga­niz­za­zioni for­mal­mente strut­tu­rate, su obiet­tivi spe­ci­fici e di ampiezza rela­ti­va­mente limitata.

Nello sto­rico distretto pro­le­ta­rio del meat­pac­king nella Chi­cago degli anni trenta, Alin­sky (il cui capo­la­voro, Reveille for Radi­cals, è in uscita in tra­du­zione ita­liana per le Edi­zioni dell’asino, a cura di chi scrive) era stato pro­ta­go­ni­sta di uno dei più straor­di­nari esempi di sin­da­ca­liz­za­zione e costru­zione comu­ni­ta­ria della sto­ria ame­ri­cana. Al cen­tro della sua ricetta vi era l’idea che l’azione poli­tica e sociale demo­cra­tica dovesse avere come fine fon­da­men­tale la costru­zione del potere fra i deboli e gli esclusi. Tutto ciò sulla base della per­ce­zione che dei pro­pri inte­ressi ave­vano le stesse popo­la­zioni mobi­li­tate, del coin­vol­gi­mento del ter­ri­to­rio in tutte le sue forme, della tes­si­tura di coa­li­zioni sociali lar­ghe e in una certa misura inu­suali. E pun­tando infine sulla labo­riosa costru­zione di lea­der­ship natu­rali e indi­gene che fos­sero espres­sione diretta dei gruppi mobi­li­tati.
Dagli anni trenta in avanti, la tra­di­zione del com­mu­nity orga­ni­zing ha ani­mato decenni di bat­ta­glie pro­gres­si­ste nel paese – dal movi­mento per i diritti civili ai movi­menti per i diritti di wel­fare – per poi dare un con­tri­buto fon­da­men­tale, sulla soglia degli anni novanta, alla rivi­ta­liz­za­zione del movi­mento sin­da­cale e del pro­gres­si­smo ame­ri­cano. Dalle grandi orga­niz­za­zioni impe­gnate nelle cam­pa­gne di massa per la regi­stra­zione al voto delle mino­ranze quali l’Association of Com­mu­nity Orga­ni­za­tion for Reform Now (sciolta nel 2010) fino alle orga­niz­za­zioni sin­da­cali impe­gnate nella sin­da­ca­liz­za­zione di set­tori ad alta inten­sità di mano­do­pera – il ter­zia­rio arre­trato dove si con­cen­trano i migranti, e in par­ti­co­lare i migranti lati­nos – quali la Ser­vice Employees Inter­na­tio­nal Union, pas­sando per gli espe­ri­menti di sin­da­ca­li­smo ter­ri­to­riale por­tati avanti da coa­li­zioni inno­va­tive quali la Los Ange­les Alliance for a New Eco­nomy, il patri­mo­nio di tec­ni­che e stili e orga­niz­za­tivi ere­di­tato dal com­mu­nity orga­ni­zing ha vis­suto una nuova pro­met­tente fioritura.

L’eredità prin­ci­pale di que­sta tra­di­zione anti-oligarchica con­si­ste innan­zi­tutto nella capa­cità di ridare vita a comu­nità power­less. Ed è que­sta la ragione della sua recente sco­perta euro­pea, che dall’Inghilterra si è pro­pa­gata a Fran­cia, Ger­ma­nia e anche Ita­lia: si ricerca un’ispirazione prag­ma­tica, per spe­ri­men­tare nuovi inne­schi orga­niz­za­tivi della mobi­li­ta­zione. I motivi di que­sta risco­perta sono diversi e tutti fon­dati: la crisi gra­vis­sima dei para­digmi cul­tu­rali e orga­niz­za­tivi dell’azione sociale legati alla tra­di­zione socia­li­sta e l’apparente irri­for­ma­bi­lità di molti dei loro stan­chi eredi; il farsi strada di un’interpretazione della demo­cra­zia proat­tiva e volon­ta­ri­sta, fatta d’investimenti stra­te­gici su sog­getti e discorsi per mezzo di orga­niz­za­zioni pro­get­tuali, adatte a una vita sociale tur­bo­lenta e in costante cam­bia­mento, in cui le strut­ture di potere sono viscose ma non sono date una volta per tutte.

Con il com­mu­nity orga­ni­zing si accetta il piano della demo­cra­zia deli­be­ra­tiva pren­dendo sul serio nello stesso tempo i suoi limiti, a par­tire dalle dif­fe­renze nell’accesso alle risorse cogni­tive e cul­tu­rali che sono indi­spen­sa­bili alla par­te­ci­pa­zione alle diverse arene pub­bli­che: si punta così a redi­stri­buire il potere e il sapere. Rico­struire que­sto capi­tale col­let­tivo – con logi­che e pra­ti­che orga­niz­za­tive che per­met­tano di con­ser­varlo – è pre­con­di­zione per il con­tro­bi­lan­cia­mento del potere oli­gar­chico e di ren­dita. Il com­mu­nity orga­ni­zing ricorda agli orga­niz­za­bili che il potere – per quanto sfug­gente, com­plesso, arti­co­lato in dimen­sioni mul­ti­li­vello – è un gioco a somma zero: o si vince o si perde.

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