Lo Statuto dei lavoratori minato da destra e sinistra

Il nucleo dello Statuto dei lavoratori di Brodolini, Donat Cattin e Giugni fu quello di riunificare il mondo del lavoro intorno a un nuovo patrimonio di diritti riconosciuti alla generalità  dei lavoratori, perché nella sua attività  il lavoratore non cede soltanto una merce, la forza lavoro, ma agisce e interagisce come persona con tutti i diritti e le prerogative riconosciute dalla Carta costituzionale. Non per nulla il titolo I non aveva alcun limite inferiore di applicabilità , risultando allo stesso modo cogente nelle piccole e nelle grandi imprese.

Il nucleo dello Statuto dei lavoratori di Brodolini, Donat Cattin e Giugni fu quello di riunificare il mondo del lavoro intorno a un nuovo patrimonio di diritti riconosciuti alla generalità  dei lavoratori, perché nella sua attività  il lavoratore non cede soltanto una merce, la forza lavoro, ma agisce e interagisce come persona con tutti i diritti e le prerogative riconosciute dalla Carta costituzionale. Non per nulla il titolo I non aveva alcun limite inferiore di applicabilità , risultando allo stesso modo cogente nelle piccole e nelle grandi imprese. La separazione tra i due mondi sussisteva ancora tuttavia per ragioni di rapporti di forza politica con riguardo a due nodi: l’applicazione dell’articolo 18, e la fruizione da parte dei sindacati di quei diritti e poteri previsti nel titolo III che hanno reso possibile e garantita la loro presenza nell’impresa con più di 16 dipendenti.
Fu attuata dunque una grande operazione di unificazione all’insegna del progresso civile e tuttavia non completa: perché il settore delle piccole realtà produttive restava non pienamente coperto da garanzie e il vasto campo dell’impiego pubblico prigioniero di una regolamentazione giuridica del tutto diversa dalla sua essenza; inoltre lo Statuto nulla diceva sulle modalità della contrattazione, la rappresentanza sindacale, la democrazia industriale, limitandosi ad assicurare la presenza del sindacato nelle aziende con almeno 16 dipendenti. Questo ultimo limite era storicamente comprensibile perché, all’indomani dell’«autunno caldo», l’unità sindacale era una realtà viva e ciò superava di fatto ogni problema di misurazione della rappresentanza sindacale e di controllo sull’operato negoziale. Nei decenni successivi, sinistra e destra si sono combattuti per migliorare e completare la normativa statutaria o per, al contrario, disapplicarla e disgregarla.
Gli attori principali della prima positiva corrente sono stati i Ghezzi e i D’Antona che, con altri, sono ben vivi nel nostro ricordo. Grazie a loro si pervenne all’unificazione del lavoro privato e pubblico, all’estensione del diritto di poter comunque impugnare un licenziamento ingiustificato, alla traduzione in norma di legge nell’impiego pubblico del nuovo principio per cui la negoziazione è collegata alla rappresentanza e la rappresentanza al consenso elettoralmente espresso dei lavoratori.
Ma, dall’altro lato, gli avversari dello Statuto sono riusciti a bloccare ogni tentativo di apprestare una normativa organica in tema di rappresentanza sindacale. Di recente hanno tentato di riaprire storici fossati tra pubblico e privato. Ma soprattutto sono riusciti nell’intento di contrapporre alla linea di unificazione del mondo del lavoro perseguita dallo Statuto, quella della sua frantumazione, attraverso la legittimazione di vari tipi di rapporti precari sottotutelati.
Si è imbastita dunque una grande ipocrisia. Il problema di garantire la parità e l’equipollenza delle posizioni di diritto e di vantaggio nella diversificata economia dei servizi è stata volutamente banalizzata nel concetto della «occupabilità», consistente nel creare tanti sottotipi di rapporti allo scopo, in teoria, di dare una qualche risposta alle varie figure di disponibilità parziale al lavoro (studenti, pensionati, casalinghe, extracomunitari, ecc.). Era del tutto evidente che questa situazione avrebbe inverato l’indiscutibile canone di esperienza, secondo cui la moneta cattiva caccia la buona e così un’intera generazione è stata condannata, dai sapienti giuristi di destra o moderati di varia sfumatura politica, alla sottoccupazione a vita, con contratti a termine, di lavoro somministrato, cococò e cocoprò, di lavoro intermittente, etc.
E oggi? Da una parte il governo intende costituire una filosofia della artificiosa frammentazione del mondo del lavoro sopra descritta, dando la dignità di uno Statuto alla regolamentazione poco o nulla garantista di ognuno di quei sottotipi di rapporto, così da parlare di Statuto dei «lavori». Si sanzionerebbe così definitivamente la peggiore situazione in cui si è mai venuta a trovare la classe lavoratrice. Invece, una parte dell’opposizione parlamentare, consapevole del disastro che è stato creato, vorrebbe tentare un recupero, lanciando lo slogan del «contratto unico di ingresso», ma che in realtà comporterebbe un drastico abbassamento delle garanzie quale contrappeso allo sfoltimento dei sottotipi contrattuali. Gli uni e gli altri, poi, concordano nel lasciare deperire la contrattazione collettiva. Perché la imbrigliano in regole cogenti che umiliano la contrattazione nazionale e quella aziendale. Perché negano ogni possibilità di verifica democratica da parte dei lavoratori destinatari di quella contrattazione che ormai privilegia obiettivamente i sindacati collusi con la controparte datoriale.
I lavoratori italiani, in particolare i giovani, sono i peggio pagati e i meno tutelati in Europa. Ora con lo Statuto dei lavori si vuole procedere a una revisione che sarebbe in realtà una definitiva distruzione dello Statuto. Questo invece ha bisogno di essere completato ed esteso all’intero mondo del lavoro, e ciò è giuridicamente possibile, coniugando flessibilità e garanzie. Basti ricordare: i 4 progetti di iniziativa popolare promossi anni addietro dalla Cgil, con cinque milioni di firme; il progetto di 13 articoli firmato da 100 parlamentari della sinistra nella passata legislatura; il progetto di democrazia sindacale ed economica ora promosso dalla Fiom. Non mancano dunque le idee e la cultura. Manca la forza e la volontà politica.

* www.dirittisocialiecittadinanza.org

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password