Un movimento in ostaggio

 

È andata bene. Anzi, benissimo. Grazie a loro, a quella moltitudine variopinta e plurilingue, a quel melting pot generazionale, a quello spaccato di nuova società  possibile, seria e festosa, competente e divertente allo stesso tempo. Almeno mezzo milione di volti e voci del mondo del sociale e del volontariato, dei lavori e del sindacato, della politica di base e del territorio si sono incontrati e riconosciuti a Fortezza da Basso e nelle strade di Firenze. Si sono scambiati saperi ed esperienze negli infiniti e affollatissimi seminari e workshop del Forum sociale europeo. Si sono tenuti per mano nell’interminabile corteo di sabato 9 novembre.

È andata bene soprattutto grazie agli organizzatori. Il merito va non tanto ai volti e ai nomi resi famosi dalla pigrizia e dal gioco di specchi dei grandi media, quanto e veramente alle migliaia di anonimi volontari e alle centinaia di attivisti che hanno preparato e gestito senza grosse smagliature la complessa e faticosissima macchina dell’accoglienza, dell’organizzazione e articolazione dei lavori, della gestione degli spazi, della comunicazione e del media center. Interessante e riuscito il “Socialpress”, il quotidiano di informazione sul e dal Forum distribuito nei 4 giorni dei lavori; speriamo che possa ora continuare a uscire, per non spezzare il filo del discorso e lo spirito di Firenze.

Ora che è andata bene, si può e si deve dire che le cose hanno rischiato di andare diversamente. E che Firenze, anziché Genova, deve diventare ed essere inteso come il reale momento fondativo, e dunque come riferimento per le prossime iniziative e per le dinamiche politiche e organizzative del prossimo futuro.

Perché, nelle settimane di avvicinamento al FSE, in parallelo all’artificiosa produzione di allarmismo a mezzo stampa e grazie all’ormai frusto gioco del cerino tra maggioranza e opposizione parlamentare, sembrava crescere di giorno in giorno l’immagine di un movimento in ostaggio.

Ostaggio di tante e troppe cose. Di un gioco politico-mediatico in cui molti “portavoce” si muovono abitualmente come il classico elefante nella cristalleria, senza la capacità  di operare quello “scarto” in grado di imporre i contenuti e di rompere per davvero le regole dei teatrini di una vecchia politica.

Ostaggio della litigiosa autoreferenzialità  che contraddistingue alcune delle sue anime e componenti organizzate, tenacemente inconsapevoli che l’insieme, il “movimento dei movimenti”, è infinitamente superiore alla somma delle parti, sia in senso numerico che politico. Singole parti che, va detto sono spesso inessenziali e fossili, proprio come l’immagine di Stalin che qualche involontario buontempone ha ritenuto di portare nel corteo fiorentino.

Ulteriore prova di tale rocciosa inconsapevolezza sta nella stima avanzata dagli organizzatori alla vigilia della manifestazione: 200.000 contro i 600.000 partecipanti effettivi. Come già  nel luglio scorso a Genova, nella falsata percezione di sé, nelle stime sballate, si rivela lo strabismo politico e l’autorefenzialità  che impedisce di cogliere (o forse di accettare) il nuovo.

Nuovo in quanto soggettività  diverse, se non ribelli, rispetto alle polverose sigle e alla tentazione dei partitini. Nuovo anche dal punto di vista delle pratiche. Il che ci porta all’irrisolta questione della violenza. Che è l’altro, certo il più rilevante, dei fattori che da Genova hanno rischiato e tuttora rischiano si tenere sotto scacco e in ostaggio il movimento. Questione di fronte alla quale vi è stata sinora scarsa lucidità  e mancanza di coraggio nel farci i conti. O, sia pure, nel rendere conto – però pubblico e trasparente – della complessità  del tema e della difficoltà  di svolgerlo, essendo sotto doppio schiaffo: di proprie e intestine lacerazioni e delle interessate sollecitazioni da parte di una politica e di istituzioni consuetamente al di sotto di una minima credibilità  e autorevolezza. La questione è annosa. Questo movimento làha ereditata – irrisolta e velata da doppiezze e ipocrisie – da altri precedenti e dalla sinistra di ogni tempo e paese.

La violenza è un potere. Se vogliamo, è il potere delle minoranze, ma questa diventa un’aggravante non una legittimazione. Anche perché ognuno, ogni gruppo, è allo stesso tempo minoranza e maggioranza nei confronti di qualcun altro. Per i 300.000 di Genova e per i 600.000 di Firenze liberarsi dall’ipoteca della violenza dei pochi, dei casseur d’oltralpe e dei nostrani sfasciavetrine, è una necessità  vitale, pena lo scacco e il progressivo inaridirsi delle proprie ragioni costitutive. Ma non serve e non basta scomunicare, dichiarando “nemici” i “black bloc”, come ha fatto alla vigilia del FSE un improvvido documento sottoscritto al solito da intellettuali poco avvezzi a conoscere davvero ciò di cui pure non rinunciano a voler spiegare.

Non è con questa superficialità  di argomentazione, né tanto meno utilizzando lo schema amico/nemico, che si battono la logica e i comportamenti di chi mima o agogna la guerra, rivoluzionaria, di classe o, addirittura, di etnia e di religione. In questo caso, “guerra” in sedicesimo, certo. A basso costo e rischio e ad alto impatto e resa mediatica. Questa è la forza della vetrina rotta, calamitante ogni interessata attenzione e debordante nei titoli del giorno dopo. Questo è il meccanismo per cui, come negli stadi, non càè difesa “militare” o militante che tenga dalla provocazione soggettiva di gruppi organizzati, ma anche di singolarità , rabbiose forse più che ribelli, vale a dire portatrici di quella violenza comportamentale, reattiva o addirittura esistenziale, tipica delle metropoli e della perdita di senso e di comunità  che ne caratterizza la vita e le periferie.

Dunque non è la scomunica e neppure il meccanismo tendenzialmente perverso dei “servizi d’ordine” (o dellà“autotutela” che dir si voglia), che può fronteggiare e battere il gesto stupidamente e negativamente esemplare.

È con lo scarto deciso che il movimento può liberarsi dall’abbraccio parassitario dei violenti e dei provocatori, ma anche di quello dei nostalgici del socialismo reale e delle sue imperialistiche barbarie o del più nostrano brigatismo. Uso qui questo termine, provocatori, senza alcuna valenza stigmatizzante, ma in senso letterale ed etimologico: quello del pro-vocare, di un’azione che ne chiama altre in risposta, che innesca cioè una spirale.

Scarto deciso: nel senso che deve mettere in discussione, e battere culturalmente e politicamente, non semplicemente e genericamente la violenza, ma, appunto, la violenza in quanto potere, in quanto cultura e ambizione del potere.

E scarto radicale: poiché, per essere credibile, esige la coerenza del mettere altrettanto decisamente e contestualmente in discussione altre forme e dinamiche del potere. Non solo quelle esterne e macroscopiche dei signori della guerra e dell’economia globale, ma, prima ancora, quelle interne, sottili e avvolgenti: il meccanismo elitario, l’appiattimento delle singolarità  e dei soggetti entro le dinamiche dell’organizzazione e della logica di leadership, di comando, di rappresentanza o di delegazione, la separazione del personale dal politico, la subordinazione delle emozioni alle mozioni, della verità  all’opportunità .

Paradossalmente, è il minimo possibile di strutturazione e non l’inverso, l’orizzontalità  non la gerarchizzazione, che difende il movimento dalla violenza come potere e dalla violenza del potere. Sempre che, beninteso, di movimento si parli e lo si intenda come forma transitoria e compiuta in sé, come nuova politica, come forma possibile di politica dal basso, e non come embrione di qualcosàaltro, espressione primitiva del partito o, ancor peggio, materiale di scambio e di incasso sul tavolo della politica istituzionale e delle candidature elettorali. Da questo punto di vista, la forte e visibile “tutela” che sull’appuntamento e sulla manifestazione di Firenze vi è stata da parte della sinistra istituzionale pone qualche interrogativo.

Se, come credo, anche dopo Firenze il movimento rischia di essere ostaggio e appesantito da tutto ciò, bisognerà  liberarlo. Con il cuore e il cervello. E con un poà più di coraggio.

(novembre 2002)

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