Addio alle tute bianche. “Troppi errori, cambieremo così”

Si abbandona lo scontro di piazza, il giottino scopre il “glocalismo”

La Repubblica, 6 giugno 2002

di CARLO BONINI

 

INCHIESTA/ Una mappa del movimento uscito dal G8 di Genova. 

MILANO – Le “tute bianche” non ci sono più. Il vocabolario è cambiato. Le “leadership” (parola da spendere con circospezione) si scoprono improvvisamente invecchiate, delegittimate. Quel che la rètina del Paese aveva trattenuto nel luglio scorso a Genova sono immagini di una foto precocemente ingiallita. E se i numeri hanno un senso dovrà pur dire qualcosa che sabato, nelle strade di Roma, per il controvertice Fao non saranno più di 50 mila i “no-global”. Sei volte in meno di Genova, appena un anno fa. Ce ne è abbastanza per chiedersi che fine abbia fatto il “movimento dei movimenti”. Per far sorridere ironico Daniele Farina, “disobbediente” del centro sociale Leoncavallo.

E’ a Milano, negli uffici del gruppo “Abele”, dove Sergio Segio ospita un incontro di Repubblica con esponenti del movimento. “E’ vero – dice – è passato soltanto un anno, ma sembra un secolo. Diciamo pure che siamo in una fase di transizione, di sviluppo carsico. Roma non sarà un’occasione per contarci, ma soltanto un passaggio importante verso l’Autunno e il social Forum europeo di Firenze”.

“Sì – concorda Gian Marco, torinese di “Punto zip” – dopo Genova il problema è stato, e resta, evitare uno scontro di piazza continuo che ci condannerebbe all’annientamento”. Epperò, non deve essere solo storia di “cicli”. Qualcosa è accaduto.

“Glocal” – Alberto Zoratti, del nodo genovese della Rete Lilliput, ha il dono della sincerità: “Diciamocelo francamente, sono stati commessi errori. In questo anno il movimento non è stato capace di includere e ha perso per strada molti interlocutori. La metto giù semplice: cosa vuol dire “disobbedienza”? Quando mia nonna che ha 85 anni smette di comprare il caffè al supermercato e va soltanto nelle botteghe del commercio equo e solidale anche lei disobbedisce. Ma lo abbiamo spiegato?”.

Se fosse solo questione di termini, un tentativo, a ben vedere, è stato fatto. La “disobbedienza”, vestita di “tute bianche” e brandita nell’estate genovese come forma assoluta di obiezione di coscienza individuale o collettiva, la ritrovi ora declinata in una cacofonica parola d’ordine presa in prestito dalla sociologia dell’oggi: “glocal” o “glocalismo”. Dove il termine esprime l’idea che i temi della “lotta ad una globalizzazione degli interessi ma non dei diritti” si possano esportare o, meglio, radicare nelle “lotte di quartiere, di territorio”. Il blocco di un cantiere dell’Alta velocità, le barricate per proteggere dallo sfratto alloggi occupati in nome del “diritto alla casa”. Ma il problema è forse tutt’altro che questione di lessico. Quasi che l’agenda politica del movimento, i suoi temi, fosse rimasta prigioniera di Genova, della sua sindrome da scontro di piazza, venendone irrimediabilmente essiccata. Gianni De Giuli, bolognese di “Livello 57”, è convinto che “sia necessario tornare a fare società”. Termine vagamente fumoso, ma chiaro se a Gianni chiedi di tradurlo: “Siamo minacciati da un rischio di deriva politicista e per questo, finalmente, a fine giugno, a Bologna, torneremo a discutere per tre giorni di temi che parlano alla testa di tutti, a quell’italiano su tre che, tra i 15 e i 34 anni, fa uso di marijuana. Di culture e politiche antiproibizioniste, di carcere”. “Ma sì – interloquisce Zoratti – la sfida è proprio quella di uscire dalla logica dei pokemon. E in questo senso anche la Fao di Roma può aiutarci a tornare a parlare di temi veri: sovranità alimentare, immigrazione, diritti”.

E Casarini? – La fatica di ritrovarsi su contenuti e parole d’ordine che non suonino “vecchie” o stonate è anche quella di una leadership che, a ben vedere, non esiste. O, quantomeno, non esiste più. Se, parafrasando Kissinger, chiedi a Daniele Farina che “numero di telefono abbiano oggi i no-global” e quante “divisioni” contino, incassi il sorriso sconsolato di chi si dice convinto che “i media devono abituarsi a una idea diversa della rappresentanza”. Come dire: ciascuno è libero di parlare per se stesso e quella porzione di rete cui fa capo. Perché il “movimento dei movimenti” odia i leader e in qualche modo ne ha paura. Al punto che Luca Casarini e Vittorio Agnoletto, icone no-global nelle cronache di stampa e televisive, ti vengono restituiti e raccontati come semplici figuranti, reduci di quel “patto del Genoa social forum che deve considerarsi sciolto con il 23 luglio 2001”.

“Per carità – spiega Casarini – un primo ciclo di lotte si è chiuso e siamo in una fase diversa. Vorrei però che fosse chiaro che nessuno, compreso il sottoscritto, gioca a fare il leader. In questo anno faticosissimo, sia io che Agnoletto, per generosità e in assoluta buona fede, abbiamo tentato di conservare e dare continuità ai contenuti, alla tensione politica che aveva prodotto Genova. Sforzandoci sempre di dire non quel che passava per la testa dei sottoscritti, ma dei tanti fratelli e sorelle con cui ogni giorno lavoriamo. E’ vero, le tute bianche non ci sono più, ma oggi esistono la disobbedienza e i disobbedienti”. Quanto dureranno anche loro, si vedrà. “Certo, esiste la necessità di smarcarsi dal ricordo di Genova per evitare che una cosa da conservare gelosamente nei ricordi del movimento si trasformi in un cappio a cui rimanere impiccati. Ricordandoci che o siamo e continuiamo ad essere globali o non siamo. Roma sarà un’ottima occasione. Non sarà come il G8. Non sfileremo per contestare la legittimità della Fao, ma per ricordare i suoi fallimenti”.

“Liste zero virgola” – Una robusta mano all’invecchiamento precoce dei figli di Genova lo ha dato qualcosa che nessun “movimento dei movimenti” poteva prevedere. L’11 settembre, evidentemente, il più globale degli eventi. E ancora: la ripresa di un conflitto sociale sui temi del lavoro che la Cgil di Cofferati ha saputo catalizzare e rendere visibile in oceaniche manifestazioni di piazza, la corsa di Rifondazione comunista a intercettare umori e istanze che quel movimento ha prodotto. Nicola Fratoianni, leader dei giovani comunisti, dice che “no, non è vero”. Che “non c’è stata corsa a mettere il cappello sul movimento, ma, semmai a farsene contaminare”. Sta di fatto che dall’incrocio con la politica dei Palazzi l’unico prodotto visibile è stata una irrilevante sortita elettorale nell’ultimo turno delle amministrative, dove le cosiddette “social list” si sono trasformate in “liste zero virgola”, raccogliendo un consenso neppure percettibile. Unica eccezione – non a caso – Genova, l’epicentro da cui l’onda è partita e dove Laura Tartarini ha oscurato i suoi concorrenti a sinistra. Daniele Farina si fa caustico: “So che non è parso e non pare vero voler leggere in quel risultato una spia dello stato di salute, ma soprattutto dei possibili sbocchi del movimento. Peccato che non sia così. Che sia soltanto un’ipotesi tanto ideologicamente dolce, quanto inconsistente. L’esperimento che è stato fatto con quelle liste non significa nulla”.

Molto sembra invece significare l’invito di Casarini, il leader che forse è e forse no: “Stiamo sperimentando. Dunque, non prendiamoci troppo sul serio. Ci farà bene”.

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