Una quieta follia narrata da Dovlatov

ROMANZI Cronaca di un amore nella Leningrado anni ’60

ROMANZI Cronaca di un amore nella Leningrado anni ’60

In quella affascinante «autobiografia rivisitata» che è Speak, Memory, Vladimir Nabokov si sofferma sugli effetti distruttivi innescati dalla saltuaria inclusione di un frammento del proprio passato nell’orizzonte artificiale del romanzo. Il prezioso dettaglio biografico che lo scrittore elargisce quasi incautamente a un personaggio fittizio perde infatti, ai suoi occhi, ogni «intimo tepore», viene per così dire fagocitato dall’universo cartaceo, finendo per identificarsi più con la fabula che con gli itinerari privati della memoria. È così che «in una stanza gelida, tra le braccia dello scrittore, muore Mnemosina» – come osserva lo stesso Nabokov in una frase estromessa dalla redazione finale (e pertanto assente nella eccellente traduzione italiana Parla, ricordo, edita di recente da Adelphi per la cura di Anna Raffetto) e inclusa invece in Altre sponde, variante russa del testo.
Non è superfluo chiedersi cosa pensasse delle elucubrazioni nabokoviane su arte e memoria uno scrittore di Leningrado anche lui emigrato negli Stati Uniti, che della contaminazione divertita tra letteratura e vita avrebbe fatto una costante della sua prosa: Sergej Dovlatov. Tanto meno peregrino appare questo interrogativo dopo aver letto La filiale, trascinante romanzo del 1987 in cui l’autore riesce a condensare in meno di duecento pagine una caustica foto di gruppo degli intellettuali russi giunti in Occidente alla fine degli anni Settanta e la rievocazione – commossa ma non troppo – del suo primo amore.
Sullo sfondo affollato di un convegno dedicato alle progressive sorti della Russia, il giornalista Dalmatov ritrova a Los Angeles Anastasija detta Tasja, la donna che, ossessionandolo con i suoi tirannici capricci, gli ha letteralmente rovinato la vita. Al concitato e spesso surreale dibattito tra dissidenti si alternano senza soluzione di continuità spezzoni prelevati dal passato; a scene imbarazzanti con la benintenzionata comunità scientifica locale fa da contraltare la «cronaca di un amore», ambientata tra la gioventù dorata di Leningrado negli anni Sessanta e narrata con uno stile quasi cinematografico che allude ai registi prediletti all’epoca, in primo luogo Antonioni. Che i propri trascorsi sovietici a distanza di venti anni possano riaffiorare perfettamente integri nella stralunata cornice di un simposio americano non dovrà stupire più di tanto. Che cos’è infatti l’emigrazione se non uno specchio lievemente deformato della Russia, sua «degna», ancorché irrequieta e litigiosa, filiale?
In questa grottesca sovrapposizione tra passato e presente sarebbe ingenuo da parte del protagonista attendersi colpi di scena che lo strappino alla sua vita alienata, e infatti lo scettico Dalmatov non nutre alcuna illusione, consapevole com’è che all’assurdità dell’esistenza si può replicare solo in modo altrettanto assurdo, perseguendo l’ideale di una «quieta follia». Malgrado la sua repentina entrata in scena, Tasja infatti non è un deus ex machina in grado di sottrarlo a quella moglie querula e anodina che al telefono da New York gli raccomanda di comprare l’acqua minerale quando rientra. Tutt’al più si rivela una donna allo stesso tempo inetta e rapace, ormai integrata in quel clan che, tenendo corsi su Dostoevskij in qualche remota università, tira a campare «sfruttando» le glorie nazionali. Se dunque Tasja finirà per dimostrarsi la stessa opportunista svampita di un tempo, il convegno si concluderà invece con l’inattesa riconciliazione degli eterni nemici – slavofili e occidentalisti, nazionalisti e liberali – in nome del bene comune. Anche se nell’orizzonte malinconico di Dovlatov tale unanimità non potrà che assumere i toni paradossali di un ragionamento per esclusione: «Alla fine ammisero tutti che la Russia fosse il paese del futuro, in quanto il suo passato era spaventoso e il suo presente incerto».
Lo slavista potrà divertirsi a rintracciare dietro i pittoreschi colleghi di Dalmatov i loro prototipi reali, aiutandosi con la nota esplicativa di Laura Salmon, che ne ha accertato l’identità caso per caso. In certi passaggi La filiale sembra quasi sul punto di trasformarsi in un ipotetico album di figurine della letteratura russa dell’emigrazione, tale è lo zelo collezionistico dell’autore, speculare d’altronde a quello che spinge Dalmatov a registrare infaticabilmente rumori di fondo, nonché tipi differenti di silenzio («silenzio deferente, silenzio con sfumatura di disapprovazione, silenzio violato dal grido “Emissario del Kgb!”) per corredare i suoi resoconti destinati all’emittente radiofonica in lingua russa «La terza ondata». L’autobiografismo della Filiale – talmente scoperto da indurre nel 2001 la «vera» Tasja a pubblicare un libro per confutare quell’immagine letteraria evidentemente non di suo gradimento – ci riporta alle radici stesse della scrittura di Dovlatov, scomparso prematuramente nel 1990. Se per Nabokov alla fine degli anni Quaranta l’autobiografia diventa necessaria per sottrarre frammenti del passato all’inesorabile azione corrosiva della fiction, al contrario, nelle pagine di Dovlatov, la esibita manipolazione di dati autobiografici nasconde la speranza di trasformare la vita in fabula. «Si trattava di una reazione difensiva. Altrimenti sarei morto di paura», confessò lo stesso autore, approdato a New York nel 1978, l’anno successivo alla morte di Nabokov in un albergo di Montreux. «Gran bella cosa per un padre di famiglia ritrovarsi in albergo e per di più in una sconosciuta città americana», esclama Dalmatov all’inizio della Filiale e questa elezione (reale o auspicata) dell’hotel come centro della propria esistenza nomade è un altro elemento che riconnette fugacemente queste due personalità altrimenti inconciliabili, rappresentanti di due ondate migratorie assai lontane sia dal punto di vista cronologico che spirituale. Al cosmopolitismo innato e aristocratico di Nabokov, Dovlatov e i suoi doppi contrappongono uno sradicamento pervaso da insanabili sensi di colpa, dove la cesura introdotta dall’emigrazione nel proprio percorso biografico non è più vissuta come la conseguenza imprevedibile di una cataclisma storico-politico, bensì innanzitutto come fallimento personale. Da qui la peculiare laconicità del suo stile, fondato sulla certezza che opporre al fato qualsiasi forma di resistenza, sfida o querimonia significherebbe solo sprofondare nel ridicolo. Anche perché «dal regno dell’assurdo ci si può trasferire tutt’al più ai confini della vita reale».
LIBRI: SERGEJ DOVLATOV, LA FILIALE,  A CURA DI LAURA SALMON, SELLERIO, PP. 209 PP, EURO 12

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