Via di fuga dalla morsa tra «comunità » e «società »

Un mondo alla deriva delle «piccole patrie»

Un mondo alla deriva delle «piccole patrie»

Walter Benjamin, uno dei più straordinari interpreti della cultura moderna, durante gli anni Trenta scriveva che il vero valore delle cose, delle opere d’arte come delle merci, delle forme di vita come degli spazi urbani, poteva essere colto pienamente solo dopo che nuove merci, collettività e città ne avevano preso il posto. Per designare questa condizione egli amava parlare di vita postuma delle cose, semplificando, la dimensione all’interno della quale i critici sociali potevano analizzare fino in fondo il senso e il significato dei loro oggetti d’indagine, gettando luce tanto sul passato quanto sul presente. Forte sostenitore della politicizzazione dell’arte e della sua democratizzazione, Benjamin dibatté a lungo con Theodor W. Adorno, uno dei fondatori e principali esponenti della «Teoria critica», sulla necessità di inventare metodi di ricerca, chiavi interpretative e nuovi prodotti culturali, in grado di cogliere le potenzialità emancipatrici della cultura di massa. Dal canto suo Adorno, tra sprezzante intellettualismo e adesione integrale al primato della dialettica, rifiutò sempre questa prospettiva, giudicando la cultura di massa alla stregua di un semplice meccanismo di alienazione che andava condannato senza appello.
Questa vicenda, che oppone una lettura ambivalente ad un’interpretazione finemente unilaterale quanto totalizzante del mutamento sociale, ci offre più di uno spunto per leggere l’ultima monografia di Lelio Demichelis Comunità o società. Il titolo rimanda a uno dei principali dibattiti culturali del XIX e del XX secolo: mentre un intero mondo andava scomparendo sotto il peso dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione, la nascente sociologia tedesca cominciò a interessarsi alla sua vita postuma. È allora che il termine «comunità» iniziò a designare quei legami sociali forti, tra persone ciascuna familiare per l’altra, che l’avvento della «Società», cioè di una collettività basata sull’anonimato, l’individualismo e la ragione economica, stava spazzando via.
La diagnosi fu, con vari accenti, condivisa da molti intellettuali delle più diverse tendenze politiche e specializzazioni professionali: l’avvento della «Società», distruggendo la «Comunità», avrebbe condotto al disastro l’umanità. Tutti saremmo divenuti automi sociali senza né cuore né storia né persone care cui rivolgerci. Il libro di Demichelis, collegandosi ad una linea critica oggi piuttosto diffusa e consolidata, propone un’inversione, morale oltre che analitica, dei due termini: la «Società degli anonimi», che oggi si rivelerebbe anche degli eguali e dei diritti, sarebbe quell’orizzonte ormai perduto, la cui vita postuma ci consente di cogliere tutti i pericoli di una mortale diffusione delle forme di vita comunitarie, in ogni angolo della nostra vita. Dissoluzione della «Società» vuol dire che ciascuno vive in un angolino di mondo incantato schiacciato sul presente quanto separato dal resto del mondo, non più prodotto spontaneamente dagli uomini ma dall’onnipotente azione dell’«Apparato». Termine, quest’ultimo, con cui Demichelis sintetizza gli effetti combinati tanto del dominio capitalista quanto e soprattutto della tecnologia materiale e sociale, della pubblicità e del marketing, delle nuove strategie politiche che si radicano sui territori, tutti elementi che ci avrebbero precipitato in quello strisciante totalitarismo sociale, già ampiamente teorizzato da Adorno e, in genere, dalla Scuola di Francoforte, riferendosi però, in quel frangente storico, alla «Società». Per ironia della storia o per pura intuizione intellettuale, in questo mondo orwelliano da noi abitato nel segno delle comunità artificialmente create (pensiamo alle comunità virtuali o alle «patrie» inventate dalle Leghe), coerentemente l’autore indica nella ricostruzione dell’utopia l’unico orizzonte possibile di salvezza.
Ma di vera salvezza si tratta? Viviamo in un’epoca in cui la moltitudine degli intellettuali e i loro frammenti, continuano a oscillare tra un opinionismo estemporaneo, spesso interessato, e un atteggiamento di idealistica auto-referenzialità. Alla sacralizzazione del senso comune dei primi corrisponde il catastrofismo supponente dei secondi, entrambi irrilevanti per il potere. E tanto peggio per la realtà. Una realtà che è ambivalente, contraddittoria e conflittuale, all’interno della quale, oggi come ieri, forme di dominio disumanizzante si legano a grandi possibilità di emancipazione: lo dimostra, semplicemente, la storia del movimento operaio per non parlare dei movimenti di democratizzazione che ancora oggi sfidano regimi (realmente) autoritari, pur tra mille contraddizioni, fughe in avanti, precipitose e a volte rovinose ritirate.
La storia, ancora una volta, non finisce nell’incubo totale dell’anti-utopia. E questo restituisce senso e valore all’attività politica, alla critica sociale, allo stesso scrivere un libro acuto come quello Di Demichelis. Torniamo allora al primo Benjamin che seppe vedere rischi e potenzialità della società moderna, dicendo no a quello stesso Benjamin che, alcuni anni dopo, sopraffatto dalla disperazione, per sfuggire al totalitarismo fascista, smise di lottare e non vide altre alternative che togliersi la vita.
LIBRI LELIO DEMICHELIS COMUNITÀ O SOCIETÀ, CAROCCI, PP. 246, EURO 24,50

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