Movimento NO TAV. Un bene «comune»

In Valle di Susa si scontrano il passato e il futuro. La mobilitazione militare di migliaia di poliziotti, di tutti i media, di pressoché tutti i partiti e delle istituzioni locali e nazionali, di Confindustria e di plotoni di parlatori televisivi di centro-qualcosa non è riuscita a capovolgere la realtà : il passato è il preteso “sviluppo”, la vantata modernità  del mega-tunnel che distruggerebbe la valle; il futuro sta nelle azioni, nei progetti, nelle proposte dei valsusini che si oppongono a questa “grande opera”, i No Tav.

In Valle di Susa si scontrano il passato e il futuro. La mobilitazione militare di migliaia di poliziotti, di tutti i media, di pressoché tutti i partiti e delle istituzioni locali e nazionali, di Confindustria e di plotoni di parlatori televisivi di centro-qualcosa non è riuscita a capovolgere la realtà : il passato è il preteso “sviluppo”, la vantata modernità  del mega-tunnel che distruggerebbe la valle; il futuro sta nelle azioni, nei progetti, nelle proposte dei valsusini che si oppongono a questa “grande opera”, i No Tav. Ieri, sulla Repubblica, Ilvo Diamanti ha scritto, a proposito dei referendum: «C’era nell’aria una domanda di valori… diversi da quelli propagandati dal “pensiero unico”», e, aggiungeva, in occasione dei referendum «è avvenuta “la scoperta del movimento”… una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate». Chiediamoci quale sia il movente, anzi la cultura, che anima, in modo diffuso e articolato anch’essa, queste esperienze. E perché risulta che nel referendum le motivazioni “politiche”, ossia dare una lezione a Berlusconi, e lo stesso quesito sul legittimo impedimento, fossero di gran lunga meno importanti, agli occhi di chi è andato a votare, dell’oggetto dei referendum: la tutela dell’acqua dalla privatizzazione e il rifiuto del nucleare. Ovvero, la ripulsa di due capisaldi di un modo – irrimediabilmente vecchio, ormai gravemente dannoso – di guardare alla vita della società. Un modo che, con uno stile e un linguaggio che i partiti e gli opinion maker cominciano a scoprire solo ora, la nuova società organizzata respinge – cambiando anche en passant i sindaci di grandi città e le percentuali di partecipazione ai voti referendari. I beni comuni non sono commerciabili, privatizzabili, sottoponibili alla logica inesorabile della massima profittabilità. E per conseguire questo scopo si deve creare una nuova forma della democrazia, dato che quella vecchia è ormai pienamente nelle mani di chi i beni comuni vuole a tutti i costi commerciare e privatizzare. Qui sta la frattura sempre più profonda tra i “rappresentanti” e i cittadini.
Questo “movimento” – più che altro un cambio progressivo di civilizzazione e di mentalità, di relazioni tra persone e dentro le comunità – non è “nuovo”. Viene ora a compimento un processo iniziato alla fine del secolo scorso, che ha avuto le sue tappe nell’opposizione alle guerre – quella contro la Serbia e quella contro l’Iraq – e nelle manifestazioni come quella di Seattle, nei Forum sociali mondiali, nello zapatismo e nell’insorgenza indigena latinoamericana, nel grande movimento che a Genova, dieci anni fa, fu aggredito in modo feroce. E lo fu, come ora i valsusini, perché il potere ha perso la sua legittimità, qualcuno direbbe la sua egemonia: il suo discorso sullo “sviluppo” che certo costa ma che frutterà inevitabilmente benessere suona ora come una brutta favole in cui il lupo divora l’agnello. Perché nel frattempo l’espressione “beni comuni” si è allargata a tutta la vita della società: tale è l’acqua, tale l’energia, ma lo è anche il suolo, quello agricolo e quello urbano, lo sono l’aria e il paesaggio, il mutuo aiuto sociale (o welfare), bene comune è evitare che i sottoprodotti di un modo di vivere dissennato riempiano le strade come a Napoli, lo sono il lavoro (il buon lavoro utile alla società) e la stessa democrazia.
Di questo rinascimento, in fondo al tunnel di trent’anni di liberismo, ossia del capitalismo più cinico nei confronti del contesto sociale e ambientale, i cittadini della Val di Susa sono padri fondatori. La loro opposizione alla Tav è iniziata vent’anni fa, e in questo periodo hanno resistito ad ogni sorta di minaccia e di tentativi di corruzione, hanno argomentato e conquistato non solo la partecipazione dei loro concittadini ma la simpatia di chiunque, in Italia, si trovi alle prese con quel genere di “sviluppo”, si tratti di un’ennesima autostrada, di un rigassificatore, di una speculazione fondiaria in città già esauste. I No Tav sono i fratelli della «molteplicità di esperienze» di cui parla Diamanti. Perciò nel 2005, quando le truppe di un altro ministro degli interni li invasero, furono decine di migliaia a migrare verso l’ultima valle in alto a sinistra, dove formarono un corteo lungo 80 mila persone e insieme ai valsusini si ripresero Venaus. Lo facevano per se stessi, non solo per solidarietà, e gettavano le fondamenta di quella bella casa comune che è il solo no sancito da un voto popolare, in tutto il mondo, al furto dell’acqua.
Ora risulta che la valle sia bloccata, che gli operai – chiamati dalla Fiom – siano in sciopero. Nonostante la conquista della Maddalena e il ridicolo atteggiamento da “veni, vidi, vici” di Maroni, quello che “fa casino” nella Lega nord. Sanno anche loro, Fassino, Marcegaglia e il capo della polizia ferroviaria di Torino, Spartaco Mortola, condannato per la “mattanza” alla Diaz e quindi promosso, che non si può fare un tunnel di quel genere contro un’intera popolazione. Vogliono solo mettere le mani su un po’ di soldi europei e aprire un cantiere, fare qualche buco per terra e battersi il petto come gorilla soddisfatti. Lo stesso Castelli, quello che da ministro della giustizia visitò nel 2001 la caserma di Bolzaneto mentre i ragazzi venivano torturati, e non notò nulla di strano, e che ora dice che gli argomenti dei No Tav sono “tutte balle” (è il loro stile), ha dovuto ammettere, da viceministro alle infrastrutture, che il mega-tunnel è del tutto inutile, ai fini del traffico ferroviario, che piuttosto diminuisce. Ma sappiamo che è molto utile a imprese, a politici, alla mafia, ad arraffare denaro. E a spezzare le reni, colpendo i valsusini, a quelli che in tutto il paese pretendono di fare politica a modo loro, ad esempio umiliando la Lega a casa sua, a Milano.
Non sappiamo cosa decideranno di fare adesso i valsusini. Se chiameranno a una manifestazione, è probabile che sarà anche più grande di quella del 2005. Ma sarebbe un grande segnale se, come nel 2003 milioni di balconi furono decorati con i colori della pace, e come in primavera molte finestre esposero la bandiera blu dell’acqua, ora si producessero, distribuissero ed esponessero ovunque le bandiere bianche con la scritta rossa “No Tav”, come si vede da anni in Val di Susa. È un’idea come un’altra: la fantasia non manca di sicuro, al movimento dei beni comuni.

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