Quel tentativo del Pci di controllare la storia

L’ipoteca politica sugli studi sàincrina dopo il à56. Fino alla metà  del Novecento, la comunità  degli storici italiani considerava disdicevole occuparsi di fatti accaduti negli ultimi decenni, in particolare quelli che avevano ripercussioni politiche sull’attualità . I manuali di storia per le scuole superiori ignoravano gli accadimenti successivi alla Prima guerra mondiale; ciò che era connesso con il mussolinismo e la stagione che lo aveva preceduto era del tutto assente dai programmi scolastici e universitari, né esistevano studiosi che si cimentassero in maniera scientifica con tali argomenti.

L’ipoteca politica sugli studi sàincrina dopo il à56. Fino alla metà  del Novecento, la comunità  degli storici italiani considerava disdicevole occuparsi di fatti accaduti negli ultimi decenni, in particolare quelli che avevano ripercussioni politiche sull’attualità . I manuali di storia per le scuole superiori ignoravano gli accadimenti successivi alla Prima guerra mondiale; ciò che era connesso con il mussolinismo e la stagione che lo aveva preceduto era del tutto assente dai programmi scolastici e universitari, né esistevano studiosi che si cimentassero in maniera scientifica con tali argomenti.

Questa diffidenza nei confronti della «storia dei tempi recenti» esisteva già prima del fascismo. Nel 1905, a Firenze, Gaetano Salvemini non ottenne la cattedra che era stata del suo maestro, Pasquale Villari, proprio perché accusato dal corpo accademico di aver disperso le proprie energie trattando argomenti eccessivamente «attuali» . «In questo ultimo tempo» , gli scriveva lo stesso Villari, «Ella, così operoso e fecondo, non ha pubblicato ancora nessun lavoro storico» . Per uno storico anche occuparsi del Risorgimento poteva essere considerato disdicevole. Quando Salvemini inviò a Villari una sua prolusione su Mazzini, il maestro, nonostante si sentisse in dovere di scrivere che quel testo gli era «piaciuto assai» , lo biasimò con queste parole: «Da capo con la maledetta politica che tanto danno ha recato e reca… sempre le passioni, le agitazioni politiche debbono venire a turbare la serenità della scienza» . E a metà degli anni Venti, Adolfo Omodeo, braccio destro di Benedetto Croce, diede alle stampe un manuale di storia per i licei nel quale i fatti accaduti alla fine dell’Ottocento e all’inizio del secolo successivo (compresa la Prima guerra mondiale) erano collocati in una succinta appendice.
Succinta appendice dove rimasero anche nella successiva edizione di quel testo pubblicata all’inizio degli anni Quaranta. «Storia liquefatta in politica» , la giudicava Omodeo, costantemente inquinata da «tendenziosità» . Il primo libro che portò alla luce del sole la storia contemporanea fu I partiti politici nella storia d’Italia di Carlo Morandi, pubblicato nel 1945. Ma fu solo un timido inizio. Che fosse bizzarro non trattare la storia contemporanea era chiaro già da molto tempo. Nel 1926, Nello Rosselli— oltre dieci anni prima di essere ucciso dai fascisti in Francia, assieme al fratello Carlo — aveva messo in evidenza, su «Il Quarto Stato» , l’assurdità del fatto che, mentre non vi era militante socialista francese, inglese o tedesco, che non conoscesse sia pure a grandi linee la storia del proprio partito, da noi in Italia «è più facile che si sappia dire quant’erano le arti nella Firenze del Duecento e che salario riscuotevano i disgraziatissimi Ciompi» che sapere qualcosa della storia dei socialisti o dei popolari. Nell’estate del 1945, Guido De Ruggiero, che pure da ministro della Pubblica istruzione aveva dovuto firmare i decreti di «mutilazione» dei manuali scolastici, si era pronunciato su «La Nuova Europa» a favore dell’estensione dei programmi di storia fino al passato prossimo, definendo tale operazione come «il coraggio di affrontare l’ultimo capitolo» . Ancora nel 1950, in una lezione ai suoi allievi, Benedetto Croce si pronunciò sì a favore di una «storia del proprio tempo» , aggiungendo però che il radicato pregiudizio contro di essa conteneva «il nocciolo saldo di una verità» , che ne sconsigliava l’esercizio: non tanto per il coinvolgimento emotivo dello storico negli avvenimenti ricostruiti, ma per il fatto che in essa troppo facilmente si realizzasse «la confusione del divenire col divenuto» , la non distinzione tra i processi ancora aperti e quelli conclusi. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le cose iniziarono a cambiare. Entrò in scena una generazione di storici (soprattutto iscritti al Pci o appartenenti ad aree limitrofe al partito di Palmiro Togliatti) che non si fece problemi a mescolare le proprie esperienze politiche con quelle «scientifiche» . Ed è a loro che è dedicato un interessante libro di Gilda Zazzara, La storia a sinistra.
Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, che sta per essere pubblicato da Laterza. Zazzara ricorda come quasi tutti questi nuovi storici del dopoguerra, quasi volessero nobilitare il loro lavoro, avvertirono l’esigenza di occuparsi, oltre che di fatti più prossimi ai quali erano realmente appassionati, anche di questioni del Settecento o di prima ancora. Franca Pieroni, che avrebbe voluto dedicarsi esclusivamente ad eventi del Novecento, fu aspramente redarguita dal suo maestro Delio Cantimori: «Se parla di storia contemporanea, lei dice proprio quello che la gente vuole dimenticare!» . Ancora nella seconda metà degli anni Sessanta a Messina, Ernesto Ragionieri ebbe difficoltà di concorso, dal momento che gli fu rimproverata la «tendenza a far prevalere nella concreta ricostruzione storiografica una impostazione politico-ideologica» e gli fu altresì imputata una «ristrettezza nell’arco cronologico della produzione la quale denuncia in lui un prevalente interesse alla storia contemporanea» . Del resto a molti di quegli storici l’ispirazione era venuta da lotte a cui avevano partecipato come militanti comunisti: fu così per lo stesso Ragionieri, impegnato nella battaglia dei ceramisti di Sesto Fiorentino; o con Alberto Caracciolo, che da un’esperienza personale trasse spunto per dedicarsi al movimento contadino nel Lazio (ovviamente, in entrambi i casi, l’attenzione «scientifica» era spostata su un’epoca antecedente a quella in cui si erano trovati a militare). Molti dei loro lavori venivano pubblicati su «Rinascita» , la rivista culturale del Pci diretta dal segretario del partito Palmiro Togliatti. Fu così per il profilo di Antonio Labriola di Luciano Cafagna e per la storia dei congressi del movimento operaio italiano di Gastone Manacorda. In un libro scritto molti anni dopo, Le passioni di un decennio (1946-1956) (Garzanti), Paolo Spriano riconosceva che quel rapporto tra partecipazione politica e creatività scientifica generò più di un cortocircuito: «Accompagnare un intervento politico attivo con una ricerca storica» , scriveva, «può fornire una difesa personale, intima, contro entusiasmi o scoramenti eccessivi, ma quell’abito mentale contiene anche i rischi del giustificazionismo, se non dello scetticismo, riconduce troppo allo ieri quello che è dell’oggi e vuole anticipare il domani senza dovere caricarsi il peso, il monito, della memoria storica» . I maestri di questa nuova generazione di storici (Federico Chabod, Carlo Morandi, Walter Maturi, Delio Cantimori, Luigi Dal Pane) avevano nei confronti dei loro allievi un atteggiamento cautamente incoraggiante. Chi più, chi meno, quei maestri avevano avuto a che fare con il fascismo e nel dopoguerra erano assai poco desiderosi di tornare su quella pagina del loro passato.
 «Del compito di rendere conto dei loro “vischiosi”itinerari» , nota Gilda Zazzara, «non si investirono comprensibilmente quanti verso di essi sentivano di avere debiti non solo intellettuali» . Qualcosa lo fecero (tra le righe, molto tra le righe) alla loro morte. Come Paolo Alatri, che su «Società» scrisse di Morandi che aveva prodotto «il meglio di quanto possa dare la storiografia tradizionale nonostante nella sua attività pubblicistica non fosse riuscito a sottrarsi a una presentazione non equivoca degli avvenimenti europei e della politica dei vari regimi fascisti» . E, a proposito di Cantimori, Ragionieri fece una discreta allusione al suo «passato non sempre limpidamente dominato» , mentre Renzo De Felice — sempre in morte di Cantimori— si limitò a ricordare che era stato allievo «tra i migliori, più amati e apprezzati» di Giovanni Gentile.
 Da parte loro, i maestri erano stati condiscendenti con le irrequietezze dei loro allievi. Cantimori perse le staffe solo una volta, quando al X Congresso internazionale di scienze storiche, che si tenne Roma, i giovani professori (non ancora in cattedra) acclamarono con un uragano di applausi la delegazione sovietica, delegazione che certo non includeva studiosi di livello tale da giustificare quell’ovazione. Cantimori fece nome e cognome di coloro ai quali era indirizzata la sua rampogna: Ragionieri, Procacci, Mirri, Cafagna, Della Peruta, Zangheri, Caracciolo, Villari, Villani e Santarelli. Quegli stessi maestri erano molto suscettibili quando gli allievi pretendevano di fare loro le pulci, muovendo rilievi politici. Chabod ruppe con Caracciolo allorché questi, nel 1951, recensì su «Rinascita» il suo Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, lodandolo sì, ma rimproverandogli di non aver del tutto raccolto le indicazioni gramsciane sul ruolo dei democratici e delle masse contadine. Rilievi che furono espressi anche da Gaetano Arfè e Giampiero Carocci. Provocando in lui pari irritazione. Verso la fine degli anni Cinquanta, dopo le delusioni del 1956, per le rivelazioni di Kruscev al XX Congresso del Pcus sui crimini di Stalin e l’invasione sovietica dell’Ungheria, pochi di questi storici rimasero, come Franco Ferri, funzionari di partito a tempo pieno. Molti di loro— da Arfè a Carocci, a Manacorda, a Claudio Pavone— furono contagiati dalla «passione documentaria» , si dedicarono cioè al lavoro d’archivio, che era un modo di conferire rigore scientifico agli studi. Qualcuno andò a lavorare in archivio: Pavone esercitò la professione di archivista per 25 anni. Intanto qualcosa si muoveva anche sotto il profilo istituzionale. Nel 1957 furono attribuite (a Gabriele De Rosa e a Raimondo Luraghi) le prime due abilitazioni alla «libera docenza» in Storia contemporanea. Nel novembre del 1960 i programmi scolastici di storia — che erano fermi (unico Paese in Europa!) al 1918— furono ampliati al secondo dopoguerra fino a includere le «realizzazioni della democrazia» e il «tramonto del colonialismo» .
 In quello stesso anno la facoltà fiorentina di Scienze politiche ottenne dal ministero della Pubblica istruzione il nulla osta a bandire il primo concorso di Storia contemporanea. In ogni caso, scrive Gilda Zazzara, «la storia contemporanea e persino la carriera accademica furono spesso, per diversi anni, un secondo lavoro, non sempre quello che garantiva il sostentamento materiale, assicurato con più continuità dall’attività di partito, editoriale, o dall’insegnamento nella scuola media» . Per questa generazione «il giornalismo di opinione o di divulgazione fu un’esperienza significativa e duratura» . Contava il modello di Giovanni Spadolini, ad un tempo docente universitario e direttore del «Resto del Carlino» (e successivamente del «Corriere della Sera» ).
La collaborazione a riviste e quotidiani, ha scritto Nicola Tranfaglia, fu per molti, come Spriano, «nello stesso tempo l’acquisizione di un mestiere per vivere, di un modello espressivo fondamentale e di un prezioso lavoro di preparazione per la ricerca storica» . La seconda metà degli anni Quaranta e il decennio dei Cinquanta erano stati assai complicati. Grande fu la discussione sull’opportunità di consegnare i documenti della Resistenza all’Archivio di Stato. Fu per il sì Piero Calamandrei, secondo il quale, scrive la Zazzara, «la legge archivistica del ’ 39, che imponeva limitazioni quasi insormontabili alla consultazione delle carte posteriori al 1870, era una garanzia della buona conservazione e del loro corretto uso» . «Non sarà male ricordare» , affermò Calamandrei, «che negli stessi archivi si conservano i documenti dei governi provvisori del 1859, dopo la caduta dei vecchi regimi e prima dell’annessione al Piemonte. Allora nessuno oppose difficoltà o ostacoli alla consegna di quei documenti, e non c’era una legge che ne facesse obbligo» .
Contrario fu invece Gaetano Salvemini («Lo Stato? No, no e no» ), in preda, come ebbe a dire, ad «un accesso di timor panico» alla sola idea che l’autorità statale, «cioè l’alta burocrazia civile e militare, più i politicanti influenti» , potesse mettere le mani su tale documentazione. Ne sarebbe venuta fuori, sempre secondo Salvemini, una «storia fatta alla rovescia» , che avrebbe reso pressoché trasparente l’immagine della Resistenza. Importanti (ma tutti da ricanalizzare) in questa fase storica furono quelli che la Zazzara definisce «i tentativi del Partito comunista italiano di occupare lo spazio della storia contemporanea» .
 L’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, fondato da Ferruccio Parri nel 1949, fu ultrapoliticizzato e in quanto tale molto impegnato nelle battaglie dell’epoca contro il Patto atlantico e la guerra di Corea. I cattolici si defilarono dal primo Congresso, a Venezia nel 1950, accusando l’Istituto di nutrire una pregiudiziale antidemocristiana. Ma al Congresso presero parte Leo Valiani, Piero Calamandrei, Luigi Salvatorelli e le assise ricevettero l’adesione di Benedetto Croce, nonché del presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Sotto il profilo scientifico le attività dell’Istituto dovettero scontare quella che Stefano Magagnoli ha definito «un’eresia storiografica fondativa» , nel senso che producevano una storia eccessivamente piegata al punto di vista dei protagonisti della vicenda che avrebbe dovuto essere oggetto di studio, la Resistenza. I quali protagonisti giunsero a teorizzare che «questa storia può farla solo chi l’abbia vissuta: uno studioso che pretenda di scriverla dall’esterno può portare il severo abito mentale del clinico, ma non l’attenta e comprensiva intelligenza di chi solo per averle vissute può intendere le condizioni di pressione e di temperatura nelle quali i fatti si sono prodotti» . Al secondo Congresso (dicembre 1954) si ebbe qualche relazione — come quelle di Claudio Pavone e di Enzo Collotti— a carattere più propriamente «scientifico» . Ma si registrò anche la polemica del comunista Giancarlo Pajetta contro Salvatorelli, trascinato sul banco degli imputati per aver detto il vero e cioè che il fascismo nel 1943 era caduto più per la fronda monarchica e le trame interne al regime che per l’iniziativa degli antifascisti. Molti giovani storici — Franco Della Peruta, Gastone Manacorda, Ernesto Ragionieri, Renato Zangheri, Franco Catalano (l’unico non comunista) — si radunarono attorno alla Biblioteca Feltrinelli che Giangiacomo Feltrinelli fondò nel 1951 con il sostegno di Togliatti e che si proponeva di acquisire materiale in modo da impedire che — come scrisse l’editore, nel gennaio del 1951, alla segreteria del Pci— venisse «trasferito in America e sottratto agli studiosi democratici o sottoposto alla deformazione della propaganda avversaria» . La Biblioteca filiò la rivista «Movimento operaio» , che Feltrinelli affidò alle cure del socialista Gianni Bosio. Ma quella di Bosio, carattere indipendente, non fu vita facile. Già nel 1951 partì contro di lui un’offensiva ad opera di un dirigente culturale del Pci, Mario Spinella, che accusò «Movimento operaio» di «corporativismo» , oltreché di «riflesso di una visione subalterna e borghese del ruolo della classe operaia» . Nel 1953 Feltrinelli fu indotto dal Pci a licenziare Bosio. Solo gli storici non comunisti solidarizzarono con il direttore estromesso, peraltro limitandosi ad esprimere in modo assai cauto il proprio disappunto per l’accaduto. Tra i dirigenti del Partito socialista, unico Raniero Panzieri tentò di indurre Botteghe Oscure ad un ripensamento. Ma fu inutile. Scrisse Franco Venturi a Leo Valiani che i comunisti, ad ogni evidenza, «non potevano sopportare l’idea che una rivista di storia del movimento operaio non fosse in loro mano» .
 In ogni caso — anche per effetto delle tensioni che si erano prodotte— alla successione di Bosio fu designato Armando Saitta che, pur facendola rientrare nei ranghi, allargò gli orizzonti della rivista e per questo ottenne qualche riconoscimento da un giovane storico emergente nel mondo liberale: Rosario Romeo. Però la pressione del Pci e del nuovo responsabile della Commissione culturale, Mario Alicata, aveva continuato a farsi sentire. Ciò che spinse Cantimori a lasciare, nel ’ 56, la rivista (e, in silenzio, il partito). Cantimori scrisse a Saitta ricordandogli come durante la guerra Alicata gli avesse proposto (cosa che giudicava «spaventosa» ) «di rifare in sei mesi dal punto di vista marxista-leninista la Storia della storiografia italiana del secolo XIX del Croce» . E lamentandosi per come poi lo stesso Alicata avesse stigmatizzato alcuni suoi giudizi irriverenti nei confronti di storici sovietici. Ciò che lo induceva a «ritirarsi in buon ordine» . Terza istituzione assai rilevante per il confronto tra gli storici fu la Fondazione Gramsci, fondata nel 1948, inaugurata nel ’ 50, la quale, su proposta di Ragionieri, nel dicembre del 1954 fu chiamata a «discutere i lavori scritti in questi ultimi anni dai compagni storici, tirarne un bilancio complessivo e chiarirci un po’ meglio le prospettive e gli obiettivi da dare ai nostri studi e alle nostre ricerche storiche» . A tenere la relazione introduttiva fu invitato un dirigente della vecchia guardia: Arturo Colombi, responsabile della sezione ideologica del Comitato centrale. Probabilmente si trattava di una trappola ordita dallo stesso Togliatti, che in quel momento era impegnato in una lotta contro l’ala del partito legata a Pietro Secchia. In che senso una trappola? Colombi si presentò con una relazione dal titolo «Come i nostri storici adempiono i loro compiti» (subito modificato con il meno inquisitorio «Orientamenti e compiti della storiografia marxista in Italia» ). Ma il contenuto Colombi non lo modificò: si trattava di una requisitoria contro la storia dei congressi del movimento operaio di Manacorda, il quale veniva accusato di non aver messo ben in risalto la «necessità» della scissione di Livorno e di non avere sufficientemente evidenziato la «funzione nefasta» del riformismo nella storia socialista (nonché i «limiti e l’impotenza» del massimalismo). Il tutto accompagnato da un grande elogio a Stalin, morto l’anno precedente. E dal ricorso reiterato ai verbi «denunciare» , «giustificare» , «dimostrare» . Gilda Zazzara mette bene in evidenza come a sorpresa (fatto inaudito all’epoca, per il Pci) l’intervento di Colombi venne fatto oggetto di repliche molto, molto pungenti, tra cui quella dello stesso Manacorda. Ma non è tutto.
Passò qualche giorno e Palmiro Togliatti scrisse una lettera ai convegnisti, in cui affermava che l’intervento di Colombi aveva destato in lui «perplessità» e «preoccupazione» , si scusava con gli storici presenti alla riunione e stigmatizzava le posizioni a cui si era richiamato l’anziano dirigente: «In questo modo» , affermava Togliatti, «il marxismo viene screditato e avvalorata la calunniosa opinione che per noi non esiste la verità scientifica, ma solo il comodo politico, secondo il quale giudichiamo e condanniamo con grande sufficienza» . Alcuni dei partecipanti alla riunione e Mario Alicata chiesero che la replica di Togliatti a Colombi fosse pubblicata su «Rinascita» . Poi però prevalse il desiderio di non esporre Colombi alla condanna del partito e si decise di soprassedere. Nello stesso 1954, tracciando un bilancio dell’attività della Fondazione in un promemoria indirizzato alla segreteria del Pci, Carlo Muscetta ne parlava come di una realtà «nata morta» , priva di una vera direzione e affidata a «pii custodi che la conservano allo stato cemeteriale» .
Per essere efficace, il lavoro della Fondazione avrebbe dovuto acquistare credito negli ambienti accademici e, per raggiungere questo obiettivo, era indispensabile che il Pci si ritraesse. Che si ritraessero i Colombi, ma anche gli Alicata e i Togliatti. Un primo segno di allentamento della briglia il Pci lo diede nel 1958, autorizzando la pubblicazione della rivista «Studi storici» , alla cui direzione fu nominato Manacorda, che era stato precedentemente emarginato per aver espresso dissenso circa l’atteggiamento del partito sull’Ungheria. In quello stesso periodo Feltrinelli ruppe con il Pci e questa frattura diede modo ad alcuni storici— — Stefano Merli e Luigi Cortesi, fondatori in seguito della «Rivista storica del socialismo» — di esprimersi con maggiore libertà. Su iniziativa di Ernesto Rossi, del Partito radicale (con l’adesione dei partiti repubblicano e socialista) si svolse a Roma nella primavera del 1959 un convegno sulla Resistenza i cui oratori— oltre a Ferruccio Parri— furono Nino Valeri, Ugo La Malfa, Luigi Salvatorelli, Aldo Garosci, Nicola Chiaromonte, Altiero Spinelli, mentre comunisti e cattolici ebbero la parola solo nelle vesti di testimoni. Poi negli anni Sessanta Renzo De Felice, fuoriuscito dal Pci anche lui dopo il 1956, rivoluzionò la storiografia italiana del Novecento con le sue ricerche sul fascismo e Benito Mussolini che, secondo Gilda Zazzara, segnarono «una svolta nella storia di questi studi, divenendo un punto di riferimento obbligato» .
L’età della piena ortodossia comunista era finita. Cominciava quella della vera storia contemporanea.

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