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“Il prof negò la Shoah ma non fu propaganda”

Roma, le motivazioni shock dell’assoluzione: “Con gli studenti solo una conversazione informale”
Roma, le motivazioni shock dell’assoluzione: “Con gli studenti solo una conversazione informale”

ROMA — È stata una semplice “conversazione informale e personale” quella tra il professore Roberto Valvo e una sua studentessa di origine ebraica. Le tesi negazioniste sostenute dal docente di storia dell’arte del liceo Ripetta di Roma, cinque anni fa in classe, di fronte a tre studenti entrati a scuola in una giornata di sciopero, sebbene “certamente e moralmente censurabili e lesive della sensibilità della giovane” non hanno nulla a che fare con la “propaganda delle idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale”. Un reato che ricorre, come specificato nella sentenza che ha assolto Valvo un mese fa, “quando la propaganda è svolta per diffondere fra ampi strati della popolazione le proprie idee facendo ricorso a tutti i mezzi per modificare le opinioni e i comportamenti”. Valvo, invece, “ha rivolto le sue parole esclusivamente all’alunna”. Questo il concetto con il quale il giudice Maria Cristina Muccari ha motivato la sentenza, che fece discutere un mese fa, nei confronti dell’insegnante, oggi in pensione, finito sul banco degli imputati e poi assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste”.
Sebbene Valvo “abbia esplicitato le sue teorie negazioniste, carpendo in classe anche l’attenzione di un secondo studente”, ciò non è stato giudicato “sufficiente a integrare la condotta di propaganda”. Reato che sussiste, secondo il magistrato, nei casi in cui si vada “oltre la manifestazione di un personale convincimento ad un singolo o a un numero ristretto di interlocutori”. Sotto un altro punto di vista l’insegnante, difeso dall’avvocato Giuseppe Pisauro, “nel riportare le teorie negazioniste dell’Olocausto, certamente aberranti e risibili sotto il profilo storico e culturale, lo ha fatto, però, con modalità del tutto asettiche. Non ha utilizzato termini indicativi della superiorità del popolo ariano né ha manifestato odio verso quello ebreo”. Tutto ruota intorno al termine “propaganda”, concetto diverso da quello di “adesione”. Nelle motivazioni si paragona la legislazione italiana a quella francese e austriaca, dove la semplice “adesione a queste teorie costituisce di per sé reato” a differenza dell’Italia, “dove non è l’adesione ad essere punita ma la propaganda”. «Al di là delle motivazioni specifiche è un’ulteriore dimostrazione che in Italia c’è bisogno di confini legislativi più rigidi per combattere il negazionismo della Shoah — ha commentato Ruben Della Rocca, assessore
alle relazioni istituzionali della comunità ebraica di Roma — È arrivato il momento che il nostro paese si adegui alle normative europee, come hanno già fatto altri paesi del vecchio continente».
La vicenda risale all’ottobre del 2008. Durante una giornata di sciopero, al Ripetta, scuola dove una lapide vicino all’Aula Magna ricorda una studentessa dell’istituto uccisa nel 1944 ad Auschwitz, entrano solamente tre studenti, fra cui Sofia, una ragazza ebrea. Il professore Valvo, incuriosito dal suo cognome, le domanda quali siano le sue origini. La giovane risponde e a sua volta gli chiede lumi sull’Olocausto. A quel punto l’insegnante, secondo il racconto della ragazza, inizia a parlare minimizzando il numero di vittime e aggiungendo che “i video dei campi di concentramento sono stati girati al termine della guerra da registi come Hitchcock e i cumuli di cadaveri nei filmati non sono verosimili, altrimenti gli ufficiali nazisti non avrebbero potuto sopportarne l’odore”. Il docente, interrogato, aveva detto che il numero di vittime “era stato oggetto di contestazione da parte di storici non negazionisti”. Poi aveva spiegato “che molti documenti dell’Olocausto erano stati secretati e che da sempre venivano riproposti servizi cinematografici senza alcuna rilevanza probatoria, che tendevano a valorizzare l’aspetto emozionale della vicenda”.

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