? Igor Grubic «Angels with Dirty Faces», 2006

Mostre. Il curatore della rassegna «Il Piedistallo vuoto. Fantasmi dall'Est Europa», che si è aperta a Bologna, presenta l'idea-guida dell'esposizione. Una ricognizione sulla scena artistica dell'area post-sovietica contemporanea, presso il Museo civico archeologico
">

Il socialismo che non c’è

? Igor Grubic «Angels with Dirty Faces», 2006

Mostre. Il curatore della rassegna «Il Piedistallo vuoto. Fantasmi dall’Est Europa», che si è aperta a Bologna, presenta l’idea-guida dell’esposizione. Una ricognizione sulla scena artistica dell’area post-sovietica contemporanea, presso il Museo civico archeologico

? Igor Grubic «Angels with Dirty Faces», 2006

Mostre. Il curatore della rassegna «Il Piedistallo vuoto. Fantasmi dall’Est Europa», che si è aperta a Bologna, presenta l’idea-guida dell’esposizione. Una ricognizione sulla scena artistica dell’area post-sovietica contemporanea, presso il Museo civico archeologico

Tutte le sta­tue sono state rimosse e ne è rima­sto solo il pie­di­stallo? Costi­tuito da una base indi­vi­duata da un certo spes­sore, il pie­di­stallo è una strut­tura desti­nata a sup­por­tare qual­cosa. Pro­prio a par­tire da que­sta sua qua­li­fi­ca­zione seman­tica ha rac­colto nella sto­ria un alto valore sim­bo­lico rispetto alle forme del potere: come base dell’esercizio della sovra­nità, del vica­riato della divi­nità, come zoc­colo del tem­pio e del monu­mento. Si tratta sem­pre dell’instaurazione di un regime di visi­bi­lità che deter­mina in anti­cipo le rela­zioni tra poteri assog­get­tanti da un lato e sog­getti obbe­dienti dall’altro, dif­fe­renze tra pas­sato e pre­sente, tra supe­riore e infe­riore, tra forte e debole. Diciamo pure che il pie­di­stallo è la costante nel tempo rispetto alle varia­bili che il potere, di volta in volta, assume.

A distanza di molti anni, l’immagine più effi­cace che ancora con­ser­viamo della cosid­detta «caduta del comu­ni­smo» è il rituale ico­no­cla­sta col­let­tivo, che si è abbat­tuto sulle innu­me­re­voli sta­tue dis­se­mi­nate in tutto l’ex-territorio sovie­tico (la cosid­detta leni­no­cla­stia), che si è acca­nito sul suo sim­bolo più elo­quente: il Muro di Ber­lino. Era come se una stessa ceri­mo­nia (ma di segno con­tra­rio) facesse da con­trap­punto, con la sua attuale demo­li­zione, a quello che in pre­ce­denza era stato l’atto di ere­zione e con­sa­cra­zione del monu­mento. Innal­zarlo o demo­lirlo, in defi­ni­tiva, fa parte dello stesso gioco, come ha affer­mato Gerald Raunig.

Non c’è migliore let­tura dell’intero feno­meno del video Once in the XX Cen­tury (2004) di Dei­man­tas Nar­ke­vi­cius: il reale sman­tel­la­mento di una colos­sale sta­tua di Lenin si tra­sforma nel suo vir­tuale ripo­si­zio­na­mento, di fronte a una folla esul­tante che applaude, sven­tola ban­diere, foto­grafa l’evento. Ma ciò che tra­smette la tele­vi­sione di stato lituana si tra­sforma nel suo oppo­sto spe­cu­lare attra­verso un mon­tag­gio «rewind». Così, inter­ve­nire con un gesto simile da parte di Nar­ke­vi­cius nell’immagine di quella che già voleva essere una «rivo­lu­zione rewind» (come l’ha defi­nita Haber­mas) implica un cam­bia­mento nell’ordine del senso, apre a un con­tro­tempo. Affer­mare che il pie­di­stallo è vuoto signi­fica dun­que lasciare sem­pre dispo­ni­bile quello spa­zio a una «riserva d’essere», alle pos­si­bi­lità di vita che può espri­mere, a un vir­tuale per altri svi­luppi. Dun­que si tratta di con­ce­pire il «socia­li­smo» non tanto come un’eredità quanto piut­to­sto come una cosa che c’è e che manca da sem­pre. Ecco il fan­ta­sma, allora, come visi­bi­lità dell’invisibile, come qual­cosa che c’è senza esserci. Come ha scritto Der­rida «un fan­ta­sma non muore mai ma resta sem­pre a venire e a rive­nire». Di fatto il socia­li­smo non aveva preso, sin dall’inizio, le sem­bianze di uno spet­tro? Uno spet­tro che allora si aggi­rava per la vec­chia Europa e che adesso con­ti­nua ad appa­rire nel mondo, senza mai ces­sare di osses­sio­narci? Que­sta assenza è qual­cosa che pog­gia per­fet­ta­mente sui pie­di­stalli che Vya­che­slav Akhu­nov col­le­ziona e regi­stra già nel 1978. In un pro­getto gra­fico di otto tavole, fissa tren­ta­due basi monu­men­tali (rac­colte in diverse città sovie­ti­che, da Mosca a Tash­kent) che sono le uni­che varianti di una stessa sta­tua che risulta però, tem­po­ra­nea­mente, rimossa. Lenin se n’era già andato – «al magaz­zino, alla sauna, a com­prare la vodka, al con­gresso di par­tito», dice iro­ni­ca­mente Akhu­nov – lasciando vuoto il suo basa­mento. Il socia­li­smo, anche sotto la sua pre­sunta rea­liz­za­zione sto­rica, non è stato altro che un fan­ta­sma – qual­cosa che avrebbe potuto essere e che non è stato, qual­cosa che non abbiamo mai pos­se­duto per­ché ancora deve aver luogo.

«Ciò che chia­miamo ‘Est’ è un museo della sto­ria a cura dell’Ovest», ha scritto recen­te­mente Boris Buden, quando nel 2011-12 quella sto­ria è stata sul punto di ripar­tire, minac­ciando di sfug­gire a quel depo­sito di rovine post-sovietico in cui per anni è stata con­fi­nata. La cosid­detta «tran­si­zione verso la demo­cra­zia» dei paesi ex-socialisti è coin­cisa, di fatto e non per caso, con la musea­liz­za­zione dell’Est, come se si trat­tasse di un suo ovvio correlato.

Allo sman­tel­la­mento dell’Unione Sovie­tica ha fatto seguito, infatti, quello delle vicende del comu­ni­smo. Lo svi­luppo di un neo­li­be­ri­smo tanto illi­mi­tato quanto vio­lento si univa all’emersione di nuove oli­gar­chie orien­tali fon­date su ritorni nazio­na­li­stici, neoin­te­gra­li­sti, neo­feu­dali. La rispo­sta della popo­la­zione al pro­fondo diso­rien­ta­mento che l’ha col­pita con l’introduzione del regime pro­prie­ta­rio libe­ri­sta e la rico­sti­tu­zione del domi­nio di classe, è stata defi­nita negli anni recenti come «nostal­gia pro­gres­si­sta», oppure «ostal­gia», secondo il neo­lo­gi­smo tede­sco, o come altro la si è voluta chia­mare. Si è trat­tato sem­pre e comun­que di uno stato di forte disil­lu­sione che adesso por­tava a rim­pian­gere la per­dita del pas­sato (che veniva pre­sunto tale) e a met­tere in discus­sione le ragioni che con­du­ce­vano fuori da quel pas­sato stesso.

Molte mostre sulla scena arti­stica post-sovietica che si sono tenute negli ultimi anni in occi­dente hanno recu­pe­rato que­sto con­cetto di nostal­gia anta­go­ni­sta, non retro­spet­tiva ma in-prospettiva, che aveva tro­vato in un libro di Sve­tlana Boym del 2001, The Future of Nostal­gia, il pro­prio refe­rente teo­rico più o meno diretto. Forse, que­sto imma­gi­na­rio nostal­gico è stato accolto favo­re­vol­mente in occi­dente per la pas­sione che quest’ultimo nutre da sem­pre per le rovine, per il pas­sag­gio e la vanità del tempo. Ma oggi, con l’inasprimento ovun­que delle con­di­zioni economico-politiche e delle forme di con­trollo, anche l’Est non risponde più al cosid­detto capi­ta­li­smo di stato con una sorta di «sen­ti­mento» (per quanto costrut­tivo) ma con la ripresa delle pro­te­ste e dei movi­menti orga­niz­zati. L’Est, a ven­ti­cin­que anni della caduta del Muro di Ber­lino, intende ridi­scu­tere il nuovo con­tratto che lega società e potere.

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password