Battisti libero dopo solo sette ore Si allontana l’ipotesi di espulsione

«Lo Stato brasiliano conta più di un giudice». Sarkozy: l’Italia volti pagina

SAN PAOLO Una via qualunque, nella sterminata cintura urbana di San Paolo, venti e più milioni di abitanti. La cittadina si chiama Embu das Artes, il quartiere Vila Carmem. Un parrucchiere, un piccolo ristorante, casette intonacate e dipinte come capita: in una di queste vive da tempo Cesare Battisti, con la compagna e una bella bambina di due anni. Mulatta, come la madre Joyce, conosciuta dall’allora latitante nelle notti di Rio de Janeiro, prima di essere arrestato.
Ai pochi amici e visitatori, l’ex terrorista apre le porte di casa sospettoso e sempre con la stessa battuta: «Questo è quel che chiamano il mio esilio dorato». Due stanze bagno e cucina, 200 euro di affitto al mese, un decimo di quanto costa vivere nel centro di San Paolo o guardando l’oceano a Rio, dove Battisti è riuscito a restare assai poco, dopo la scarcerazione di quattro anni fa. Gli amici che contano, nella sinistra brasiliana e francese, a un certo punto si sono defilati, il superavvocato amico del governo non poteva certo tenerselo a vita nel suo attico, così come il celebre senatore di sinistra, convinto che non abbia mai fatto male a una mosca. A Embu, dice Battisti, si vive con poco. Quel che resta dei diritti d’autore per i libri, e forse qualche euro arriva ancora da Parigi, come negli anni della latitanza glamour.
Era in casa nel tardo pomeriggio di giovedì, quando agenti della polizia federale sono venuti a prenderlo per condurlo, sotto arresto, in un commissariato di San Paolo. E a casa è tornato dopo appena sette ore, uscendo da una pattuglia con il solito ghigno di sfida per riabbracciare Joyce. Tra tutti i passaggi in galera della sua vita, questo è certamente il più corto. Segno che l’interminabile battaglia della giustizia italiana per riaverlo non è ancora finita. Sempre se mai finirà.
L’arresto lampo non ha cambiato il suo status: Battisti vive legittimamente in Brasile con un visto di residenza permanente, concessogli dal governo dopo che l’allora presidente Lula ha negato la richiesta italiana di estradizione.
L’ultimo capitolo dell’eterna vicenda riguarda proprio questo pezzo di carta. Secondo una giudice di Brasilia, il visto è stato concesso per errore, quindi Battisti dev’essere espulso. Non sarebbe valido, dice, perché il titolare è uno straniero condannato in altro Paese (l’Italia). La sentenza è dei primi di marzo, giovedì l’idea della polizia federale che Battisti potesse restare in galera ad attendere, diceva il mandato di cattura, «l’esecuzione della deportazione».
Non è stato difficile per i legali dell’ex terrorista riportarlo a casa. Perché le convinzioni della giudice di Brasilia sono all’ultimo gradino di una scala ancora totalmente favorevole a Battisti. Lo difendono l’avvocatura generale dello Stato, la Corte suprema e a tutt’oggi anche la Presidenza della Repubblica, a meno che un giorno Dilma Rousseff decida di cambiare idea. Nel ricorso che l’ha fatto uscire subito si dice proprio così: un giudice di primo grado non può contraddire il capo dello Stato. E così le speranze italiane di veder trasformata l’estradizione almeno in una espulsione dal Paese sono cadute nel vuoto ancora una volta.
In Francia, invece, continuano a pensarla in altro modo. Persino l’ex presidente Nicolas Sarkozy ha lasciato intendere che sarebbe meglio metterci una pietra sopra: «La questione dell’estradizione di Cesare Battisti riguarda anche la società italiana, che deve voltare la pagina di quegli anni terribili», ha detto Sarkozy, intervistato dalla radio France Info , scatenando diverse reazioni in Italia. «Quello di Battisti è un caso doloroso, all’epoca dei fatti ero in carica. Tutto è legato a Mitterrand, che in passato aveva promesso di non estradare persino gente con sangue sulle mani, ma che si era rifugiata in Francia».
Rocco Cotroneo

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