Le anime e i colori della Resistenza Una sintesi che ci restituì la libertà

Si risvegliarono gli ideali politici a lungo soffocati dalla dittatura fascista E forze diverse s’impegnarono a cooperare: quella lezione è ancora valida

Non è facile un esame soddisfacente della Resistenza in Italia sul piano della consistenza ed efficacia militare. Non lo è, del resto, anche per gli altri Paesi europei in cui vi fu un’analoga vicenda (l’unico movimento resistenziale a prendere in Europa un vero rilievo militare fu quello jugoslavo). Ancora più difficile è, comunque, l’esame degli aspetti politici della Resistenza e in Italia forse più che altrove.
Nella Resistenza sussisteva, infatti, una pluralità di posizioni politiche, che aveva un duplice aspetto. Era, da un lato, un chiaro indizio della sua aderenza alla realtà del Paese. Compresse dalla lunga dittatura fascista, le tendenze e le convinzioni dell’Italia prefascista non erano sparite. Continuarono a mantenersi latenti e, per così dire, dormienti in gran parte degli italiani. Per una minoranza avevano, invece, significato una scelta antifascista, pagata col carcere, con l’esilio e, in molti casi, con la vita.
Una minoranza fu anche quella che nei primi tempi prese l’iniziativa e fornì le leve della lotta armata ai tedeschi e al mal risorto fascismo di Salò nell’Italia del Centro-Nord. All’inizio sembrò, anzi, che il regime di Salò potesse ancora contare su un’adesione alquanto vasta. Poi, nel corso del 1944, quell’adesione finì col limitarsi ai soli militanti e ai pochi simpatizzanti. Ciò ha fatto parlare della «zona grigia» dell’Italia sotto i tedeschi. Vi erano, si dice, i fascisti, gli antifascisti e gli altri. Si può ammettere. Ma, innanzitutto, non era un fenomeno da porre al passivo nel sempre pessimistico bilancio delle «anomalie» italiane: è accaduto e accade fin troppo spesso anche altrove. In secondo luogo, nel prosieguo della guerra la zona grigia si ridusse di molto, l’adesione a Salò ancora di più e si può ben dire che agli inizi del 1945, se non la Resistenza attiva, le sue finalità antifasciste e antigermaniche erano ormai entrate nel sentire della grande maggioranza.
Fu un «secondo Risorgimento»? Questa formula prestigiosa fece la sua comparsa già allora, ma (com’era giusto) durò poco e già dopo il 1960 era difficile ritrovarla. Ha resistito, invece, e a lungo indiscussa, la tesi, che è stata ed è anche una profonda convinzione etico-politica, per cui la Resistenza va considerata come la matrice ideale e politica del regime liberal-democratico sancito nella vigente Costituzione italiana, e la fonte legittimante delle forze politiche protagoniste della vita politica dopo il 1946.
Come in tanti casi, in questa tesi e convinzione c’è un duplice aspetto. Da un lato, sono stati in molti, e talora autorevoli, a far presente che il mondo della Resistenza comprendeva forze politiche in netto e frontale antagonismo. Vi erano almeno tre posizioni diverse. Vi era un orientamento liberal-democratico, che si proponeva una ripresa e un rinnovamento della tradizione liberale italiana, stroncata dal fascismo. Vi erano quelli che questa tradizione apprezzavano solo in parte e desideravano una sua radicale trasformazione in senso democratico. Vi erano altri che verso quella tradizione erano molto critici e pensavano anch’essi a una trasformazione radicale del Paese, ma in senso socialista o comunista.
È una semplificazione schematica, ma rende forse la realtà delle cose meglio di molte, pur pregevoli, analisi dettagliate e, soprattutto, meglio di ogni ideologismo o mitizzazione.
Dall’altro lato, però, se questo è vero, ciò non toglie che nel biennio resistenziale si sia formata una nuova tradizione politica, che trascendeva le diversità della Resistenza. Le trascendeva a tal punto che nel 1944 il governo dell’Italia già libera — solo legittimo rappresentante del Paese nelle relazioni internazionali, che già combatteva come «cobelligerante» al fianco degli anglo-americani — riconobbe, da Roma, il Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia come proprio legittimo rappresentante nell’Italia ancora sotto i tedeschi. Inoltre il generale Raffaele Cadorna, uomo della tradizione militare sabauda, fu nominato a capo del Corpo volontari della libertà (cioè l’insieme delle formazioni partigiane), con Ferruccio Parri e Luigi Longo come vice. E, anche se si volesse considerare, per assurdo, soltanto formale l’integrazione, questa specie di «compromesso storico» tra la Resistenza e il governo di Roma, si sa che le forme non sono mai un nulla e nella vita pubblica più che mai.
Era nata, invero, una tradizione politica che comprendeva Roma e la Resistenza al di là di ogni distinzione o contrapposizione. Comprendeva, perfino, la «zona grigia» di prima e di dopo del fascismo. E che fosse così lo dimostra il fatto che la vita politica nell’Italia repubblicana si è svolta in sostanza sulla base di quel «compromesso storico», che consentì poi una scelta «occidentale» di libertà, che ha finito col condizionare anche le forze che su tale scelta non convenivano o la interpretavano in tutt’altro senso e avrebbero voluto svolgerla in tutt’altra direzione.
Si è spenta la valida efficacia di tutto ciò nell’Italia di oggi? Può anche darsi. Nonché l’Italia, il mondo è così profondamente mutato in settant’anni! Le stesse forze che della Resistenza furono le protagoniste maggiori, anche se tutt’altro che esclusive, sono tutte finite, e non tutte o del tutto bene: gli azionisti, quasi subito; democristiani, comunisti e socialisti dopo una cinquantina di anni. Altri fiori sono nati nel giardino della Repubblica, ma — francamente — troppo spesso non leggiadri e non di delicato e rinfrescante profumo.
Fosse solo per questo, la Resistenza vive ancora. Ma si può anche azzardare il pronostico che nella nuova Italia, ancora in gestazione da ormai venti anni, il «compromesso storico» e l’integrazione e il coordinamento nazionale in cui la Resistenza trovò il suo contesto, nel segno di una indiscutibile opportunità e legittimità storica, avranno ancora molto da dire.
Giuseppe Galasso

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