La scommessa di Tsi­pras

Tsi­pras chiede più forza per nego­ziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il pos­si­bile even­tuale e depre­cato esito di un fal­li­mento defi­ni­tivo del negoziato

Nono­stante l’amichevole gesto con cui Mat­teo Renzi, rega­lan­do­gli una cra­vatta, accolse la prima volta il neo eletto primo mini­stro greco, è pro­prio lui che, arri­vati al dun­que, ha ora reso il peg­gior ser­vi­zio a Ale­xis Tsi­pras. Dicendo che il refe­ren­dum di Atene avrà per oggetto un pro­nun­cia­mento a favore dell’euro o della dracma. Pro­prio il con­tra­rio di quanto il governo greco si è sfor­zato di spie­gare. E cioè che non intende affatto optare per un ritorno alla moneta nazio­nale e uscire dall’eurozona, e invece aver più forza per imporre una discus­sione– che fino ad ora non c’è stata mai — su quale debba essere in mate­ria la poli­tica europea.

Final­mente qual­cuno che, anzi­ché cer­care riparo die­tro la fati­dica affer­ma­zione “ce lo chiede Bru­xel­les”, come ci hanno abi­tuato i gover­nanti euro­pei, pre­tende di dire la sua sulle scelte lì compiute.

E’ certo vero che nella stessa Gre­cia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vor­rebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è que­sto l’oggetto della con­sul­ta­zione. Tsi­pras chiede più forza per nego­ziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il pos­si­bile even­tuale e depre­cato esito di un fal­li­mento defi­ni­tivo del negoziato.

Un’eventualità che in que­ste ore sem­bra forse scon­giu­rata, seb­bene il signor Tusk, il più rude delle isti­tu­zioni, abbia all’ultimo appun­ta­mento but­tato fuori dal tavolo i nego­zia­tori greci, dichia­rando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il con­tra­rio). E’ una spe­ranza fle­bile, ma già dimo­stra che rifiu­tare i ricatti è giu­sto.
Pur­troppo tutta la lunga trat­ta­tiva è stata accom­pa­gnata da un fra­stuono media­tico che ha creato grande con­fu­sione. E così la gente meglio inten­zio­nata con­ti­nua a chie­dere se è pro­prio vero che i greci hanno una ple­tora di dipen­denti pub­blici, quando invece ne hanno, pro­por­zio­nal­mente, la metà della Germania.

Se è vero che vanno tutti in pen­sione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è supe­riore a quella dell’Unione euro­pea e la spesa pub­blica per il pen­sio­na­mento, sem­pre pro­por­zio­nal­mente, metà di quella fran­cese e un quarto di quella tede­sca. La pro­dut­ti­vità è bassa ma è cre­sciuta assai di più che in Ita­lia e per­sino che in Germania.

Se poi si guar­dano nei det­ta­gli i punti sui quali la squa­dra greca ha trat­tato e si è rifiu­tata di acco­gliere le pro­po­ste delle isti­tu­zioni euro­pee è dif­fi­cile rima­nere insen­si­bili alle sue ragioni: rifiu­tare un aumento dell’Iva sui generi di prima neces­sità (cibo, pro­dotti sani­tari, elet­tri­cità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turi­smo; respin­gere la richie­sta di varare una legge che con­senta licen­zia­menti di massa. Rifiuto, anche, a can­cel­lare i pre­pen­sio­na­menti esi­stenti, ma biso­gna ben tener conto che una quan­tità di gente è stata licen­ziata e non ha altre fonti di sosten­ta­mento. E invece è Bru­xel­les che ha rifiu­tato la richie­sta greca di un aumento del 12 % di tasse sui pro­fitti che supe­rano i 500.000 milioni.

Si con­ti­nua a ripe­tere osses­si­va­mente che la Gre­cia deve fare le riforme, ma, come del resto in Ita­lia, non si dice mai esat­ta­mente di quali riforme si tratti e in che modo quelle pro­po­ste, o attuate (vedi job act o Ita­li­cum da noi) pos­sano in qual­che modo aiu­tare una ripresa eco­no­mica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una poli­tica tanto miope da impe­dirla? Que­sta è la lezione che viene dalla Gre­cia: se invece di insi­stere su que­sta come sola ricetta già dal 2010 si fos­sero invece sacri­fi­cati pochi soldi per con­sen­tire gli inve­sti­menti neces­sari alla moder­niz­za­zione del paese non saremmo a que­sto punto.

I greci oltre che fan­nul­loni sareb­bero anche imbro­glioni per­ché hanno preso i soldi e non li resti­tui­scono. Se qual­cuno avesse memo­ria, un bene che sem­bra ormai raro, ci si ricor­de­rebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scop­piò il dramma del debito accu­mu­lato dai paesi del terzo mondo da poco arri­vati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vit­time di quelli che allora non si ebbe timore di chia­mare “spac­cia­tori”. Per­ché è così che si inde­bi­ta­rono oltre il ragio­ne­vole: per l’insistente offerta di acce­dere a un modello di con­sumo super­fluo e dan­noso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto per­ché così con­ve­niva ai pre­sta­tori che poi pas­sa­rono a chie­dere il conto.

La Gre­cia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accu­mu­lata pro­prio così, per colpa di ban­che e di imprese senza scru­poli. Che peral­tro sono state oggi — erano tede­sche sopra­tutto ma non solo — feli­ce­mente ripa­gate con danaro pub­blico europeo.

Quando, poco dopo l’ingesso della Gre­cia nella Comu­nità Euro­pea, nell’81, si arrivò al seme­stre di pre­si­denza affi­dato per la prima volta ad Atene, l’allora mini­stro degli esteri del governo di Andreas Papan­dreu, Cha­ram­po­pu­los, dichiarò: «Non pos­siamo restare silen­ziosi di fronte a una linea poli­tica che non prende in con­si­de­ra­zione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ric­chi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il pros­simo ingresso di Spa­gna e Por­to­gallo, sof­frirà di un dram­ma­tico gap nord-sud per affron­tare il quale sarà neces­sa­rio un vasto tra­sfe­ri­mento di risorse pub­bli­che e di un piano sta­tale inteso a con­di­zio­nare le sel­vagge regole del mercato».

Si trattò di una sag­gia pre­vi­sione. Di cui tut­ta­via anche il governo socia­li­sta greco finì per dimen­ti­carsi, sic­ché anche quando i governi socia­li­sti furono in mag­gio­ranza nel Con­si­glio euro­peo non ci fu alcuna modi­fica sostan­ziale nella linea poli­tica dell’Unione. Fu pro­prio allora che fu decisa la libera cir­co­la­zione dei capi­tali senza che alcuna misura di con­trollo e di uni­fi­ca­zione fiscale fosse assunta.

Renzi avrebbe avuto una buona occa­sione per ripren­dere il discorso e far valere le ragioni dei paesi euro­pei del Medi­ter­ra­neo, con­tro la logica assur­da­mente e fal­sa­mente omo­lo­gante che pre­tende di adot­tare linee di poli­tica eco­no­mica ana­lo­ghe per realtà così diverse. Fa comodo, natu­ral­mente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli strac­cioni del sud. Per di più comu­ni­sti. «Un’Europa senza il Medi­ter­ra­neo sarebbe — come ha scritto Pere­drag Mat­ve­je­vitch — un adulto pri­vato della sua infan­zia». Cioè un mostro.

Quando l’altro giorno ho sen­tito nel corso di un mede­simo gior­nale radio che le ultime noti­zie da Bru­xel­les riguar­da­vano un for­mag­gio senza latte, un cioc­co­lato senza cioc­co­lata, e sopra­tutto un ter­ri­to­rio senza immi­grati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.

Ma non si può. Con la glo­ba­liz­za­zione abbiamo per­duto quel tanto di sovra­nità che gli stati nazio­nali ci con­sen­ti­vano. A livello mon­diale è quasi impos­si­bile costruire isti­tu­zioni che ce ne resti­tui­scano almeno una parte. La sola spe­ranza è di rico­struirle ad un livello più ampio del nazio­nale e più limi­tato del glo­bale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa arti­co­larsi. L’Europa è una di que­ste. Ma il discorso vale solo se lo spa­zio comune non è solo un pezzo di mer­cato, ma una scelta, un modello di pro­du­zione e di con­sumo diversi, una rivi­si­ta­zione posi­tiva di una comune tra­di­zione. Il nego­ziato di Atene ci aiuta, in defi­ni­tiva, ad andare in que­sta dire­zione. Ed è per que­sto che va sostenuto.

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