Il Leviatano di Sili­con Valley

Internet non è solo una semplice tecnologia del controllo, ma anche il laboratorio dove ha preso forma e si sviluppa il nuovo capitalismo neoliberale

Internet. Un’intervista con il teorico della Rete Evgeny Morozov, in Italia per partecipare a un seminario a Settimo Torinese. Internet non è solo una semplice tecnologia del controllo, ma anche il laboratorio dove ha preso forma e si sviluppa il nuovo capitalismo neoliberale

Il per­corso teo­rico di Evgeny Moro­zov è eccen­trico rispetto il main­stream intel­let­tuale su Internet.

Cre­sciuto in Bie­lo­rus­sia ha par­te­ci­pato al movi­mento d’opinione che chie­deva una cesura del paese con il suo pas­sato sovie­tico. In quella con­giun­tura ha fre­quen­tato corsi di gior­na­li­smo on line, diven­tando in pochi mesi un mediat­ti­vi­sta che vedeva nella Rete un potente stru­mento per vei­co­lare istanze di libertà e di inno­va­zione sociale. È con que­sta con­vin­zione che è sbar­cato negli Stati Uniti, diven­tando in breve tempo un blog­ger noto per la sua capa­cità di met­tere a fuoco i punti forti e le pos­si­bile con­ta­mi­na­zioni della net­work cul­ture con il mondo dei media tradizionali.

Anni di lavoro gior­na­li­stico e teo­rico, che lo por­tano a guar­dare con scet­ti­ci­smo la rete come «incar­na­zione» di un regno della libertà.

La pub­bli­ca­zione del volume Le inge­nuità della Rete (Codice edi­zioni) è un con­den­sato di que­sta presa di distanza dal «cyber-utopismo», dove Inter­net più che regno della libertà è descritta come una tec­no­lo­gia di controllo.

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La pole­mica di Moro­zov, dive­nuta nel frat­tempo docente uni­ver­si­ta­rio, è con­tro chi con­ti­nua a chiu­dere gli occhi sul potere eser­ci­tato dalle imprese dell’high-tech, sull’uso della Rete da parte dei governi nazio­nali per con­trol­lare le comu­ni­ca­zioni dei cit­ta­dini, ridotti a sud­diti di un potere che non tol­lera forme di dis­senso e alte­rità rispetto il pen­siero dominante.

Descritto come un teo­rico con­ser­va­tore, pri­vi­le­gia invece un «libe­ra­li­smo radi­cale» come back­ground per cri­ti­care i mono­po­li­sti della Rete e della deci­sione politica.

Ma le sor­prese che lo stu­dioso bie­lo­russo non fini­scono con la pub­bli­ca­zione di due pam­phlet. Uno è dedi­cato alla mitiz­za­zione di Steve Jobs come cam­pione di inno­va­zione (Con­tro Steve JobsCodice edi­zioni) e Inter­net non sal­verà il mondo (Mon­da­dori), j’accuse con­tro i tec­no­crati del web.

Moro­zov radi­ca­lizza infatti la sua posi­zione e comin­cia ad usare un les­sico mili­tante, nel quale sono forti gli echi della cri­tica mar­xiana al capi­ta­li­smo. In una inter­vi­sta alla «New Left Review» e in un arti­colo scritto per «Le Monde Diplo­ma­ti­que», arriva a pro­porre, pro­vo­ca­to­ria­mente, l’espropriazione dei Big Data e la neces­sità di una rin­no­vata teo­rica cri­tica del capi­ta­li­smo neoliberale.

Moro­zov sarà ospite oggi a Torino di due seminari.

Il primo è alla scuola Hol­den (ore 11), il secondo è pre­vi­sto invece per oggi pome­rig­gio a Set­timo Tori­nese come ante­prima del «Festi­val dell’innovazione e della scienza» che ini­zierà il 19 otto­bre. L’incontro di oggi pome­rig­gio, invece, orga­niz­zato da Codice edi­zioni e dal Nexa Cen­ter for Inter­net & Society — Poli­tec­nico di Torino, vedrà Moro­zov dia­lo­gare con Luca de Biase (gior­na­li­sta delSole 24 ore) e il giu­ri­sta Carlo Blengino.

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In un recente sag­gio ha scritto che occorre odiare Sili­con Val­ley. Per­ché dob­biamo odiare la «valle del Silicio»?

La ragione prin­ci­pale per odiare la Sili­con Val­ley è sem­plice: i ragaz­zotti che vi lavo­rano si sen­tono degli intoc­ca­bili e le imprese che hanno la loro sede lì si amman­tano di non so quale manto di uma­ni­ta­ri­smo nobile. In realtà sono le imprese più rapaci che si pos­sono incon­trare. Molto più di molte che ope­rano a Wall Street. Ho matu­rato que­sto punto di vista negli ultimi tre anni. Ho però con­sta­tato che è molto dif­fi­cile tro­vare uomini e donne che si pon­gano dubbi e domande sull’operato delle imprese tec­no­lo­gi­che della Sili­con Val­ley. Que­sta dif­fi­coltà è dovuta al fatto che quelle stesse imprese rie­scono a imporre alla discus­sione pub­blica una rap­pre­sen­ta­zione del loro ope­rato indi­scu­ti­bile: chi fa domande o esprime dubbi sul loro ope­rato è dipinto come un oscu­ran­ti­sta. I miei scritti, ad esem­pio, sono stati liqui­dati come l’espressione di un tec­no­fobo che vive nelle fore­ste per­ché odia la moder­nità. A nes­suno, però, ver­rebbe in mente di squa­li­fi­care in que­sto modo le mie posi­zioni se, ad esem­pio, cri­ti­cassi Wall Street o le com­pa­gnie petrolifere.

Alcuni anni fa, Eric Sch­midt, uno del trium­vi­rato a capo di Goo­gle, ha detto, con fare pro­fe­tico, che la Sili­con Val­ley e società come Goo­gle rap­pre­sen­tano l’essenza del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo con­tro il quale è vana ogni forma di pro­te­sta e oppo­si­zione. È venuto però il tempo di affron­tare seria­mente, e con one­stà intel­let­tuale, la posi­zione di Eric Schmidt.

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La Sili­con Val­ley è un un feno­meno sociale, eco­no­mico e poli­tico emerso in una par­ti­co­lare con­giun­tura nella sto­ria del neo­li­be­ra­li­smo, quella che vede dispie­garsi pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione e deregulation.

È solo par­tendo da que­sto pri­ma­rio ele­mento che pos­siamo com­pren­dere e aiu­tare a far com­pren­dere che Goo­gle, Face­book e le tan­tis­sime star­tup for­mate e spesso fal­lite nella Sili­con Val­ley non sono com­po­ste da per­sone disin­te­res­sate, altrui­ste, bene­vole. Sono ragaz­zotti che hanno lavo­rato inten­sa­mente per cam­biare i rap­porti di potere nella società, ren­den­doci più dipen­denti, ostag­gio delle imprese di quanto acca­desse in pas­sato. L’esito del loro ope­rato è una com­pleta e radi­cale finan­zia­riz­za­zione di ogni aspetto della vita quo­ti­diana. Que­sto è il sot­tile e tut­ta­via più peri­co­loso fat­tore che emerge con lo svi­luppo della Sili­con Valley.

Penso che que­sta sia la strada obbli­gata per svi­lup­pare una cri­tica pun­tuale del ruolo svolto dalla tec­no­lo­gia nel ridi­se­gno dei rap­porti di potere, a favore delle imprese, va da sé, nella società.

Lo slo­gan ini­ziale di Goo­gle era «don’t be a devil», non essere il dia­volo. Per molti, invece la società di Moun­tain View è pro­prio un dia­volo per­ché si appro­pria dei nostri dati per­so­nali per fare affari. Per altri, invece, que­sta espro­pria­zione è il prezzo da pagare per usare gra­tui­ta­mente un buon motore di ricerca che faci­lita la nostra vita in Rete. Quale è il suo punto di vista?

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Parto da una con­sta­ta­zione. In poco più di un decen­nio si sono for­mate delle imprese glo­bali che hanno con­qui­stato posi­zioni di potere, eco­no­mico e non solo, su scala glo­bale. Goo­gle è una di que­ste imprese glo­bali. Per i sin­goli, l’elemento impor­tante è che pos­sono usare il suo soft­ware e i ser­vizi gra­tui­ta­mente, senza sof­fer­marsi sul fatto che con­di­vidi con una società pri­vata molti dati per­so­nali sen­si­bili. Il suo modello di busi­ness è molto astuto e all’apparenza «inno­cente», ma non lascia molti mar­gini di manovra .

Nes­suno in Europa, a dif­fe­renza di quanto invece è acca­duto in Rus­sia, Cina e alcuni paesi dell’America latina, ha mai lavo­rato seria­mente per svi­lup­pare società e modelli di busi­ness che ridu­ces­sero la dipen­denza dal potere di Sili­con Val­ley nel pla­smare le nostre vite. Que­sto non è dovuto a un approc­cio inge­nuo verso la tec­no­lo­gia, quanto a una certa inge­nuità euro­pea verso l’«impero americano».

Solo così si spiega, ad esem­pio, il con­senso di molti paesi euro­pei al Ttip: con­senso che rimuove qual­siasi ana­lisi sulle impli­ca­zioni geo­po­li­ti­che, «impe­riali» e tec­no­lo­gi­che del trattato.

La Rete è anche una tec­no­lo­gia del con­trollo. È usata dagli stati nazio­nali per spiare e con­trol­lare i cit­ta­dini. È altresì usata dalle imprese per rac­co­gliere, ela­bo­rare e «impac­chet­tare» infor­ma­zioni sen­si­bili per essere ven­dute. Potremmo dire che gli stati nazio­nali e le imprese hanno dato vita a un com­plesso militare-digitale, che si affianca a quello militare-industriale. Costi­tui­sce, anch’esso, un peri­colo per la democrazia?

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Parto dalla con­vin­zione che la Natio­nal Secu­rity Agency e l’intelligence mili­tare sta­tu­ni­tense sono molto con­tenti, se non felici del ruolo svolto dalle società tec­no­lo­gi­che. Il potere occulto che abbiamo chia­mato com­plesso militare-industriale non è scom­parso e  quello che vediamo in azione è una sua evoluzione.

Non è certo pro­dut­tivo fare pro­fe­zie sul futuro, ma alcune ipo­tesi sui rap­porti tra imprese e intel­li­gence sono utili per capire come si sta strut­tu­rando uno «stato di sicu­rezza nazio­nale» che ha come archi­trave pro­cessi di pri­va­tiz­za­zione e di con­cen­tra­zione monopolista.

Fac­cio un esem­pio: c’è un paese dove la comu­ni­ca­zione avviene attra­verso una infra­strut­tura di pro­prietà pub­blica, che garan­ti­sce affi­da­bi­lità, riser­va­tezza, ano­ni­mato. L’intelligence di quel paese ha già il mate­riale con il quale lavo­rare, visto che l’accesso ai dati è pre­vi­sto se viene invo­cata la sicu­rezza nazio­nale. Può acca­dere che quella infra­strut­tura venga poi pri­va­tiz­zata e acqui­sita da una impresa. I dati per­so­nali sono così nelle mani dell’intelligence e delle imprese pri­vate. È quello che è acca­duto in molte parti del pianeta.

La pri­vacy è un diritto uni­ver­sale, dicono giu­ri­sti e atti­vi­sti. Ma la pri­vacy è anche un busi­ness cre­scente nella Rete. I ric­chi, viene soste­nuto, pos­sono acqui­stare ser­vizi e soft­ware che garan­ti­sce la loro pri­vacy, i poveri no. Cosa nel pensa?

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La logica del capi­ta­li­smo neo­li­be­rale è tra­sfor­mare ogni cosa in merce. E que­sto vale anche per la privacy.

Finora il discorso sul diritto alla riser­va­tezza era rele­gato al campo giu­ri­dico o alle norme che rego­lano le rela­zioni tra gli Stati. Le rive­la­zioni di Edward Sno­w­den hanno fatto molto scal­pore, ma non hanno avuto grandi effetti, né aggiunto molto a ciò che era noto.

La logica del capitalismo neoliberale è trasformare ogni cosa in merce. E questo vale anche per la privacy.

Ciò è dovuto al fatto che Sno­w­den non ha mai dimo­strato una dispo­ni­bi­lità a cri­ti­care il capi­ta­li­smo o la poli­tica di potenza degli Stati Uniti. Ele­mento, quest’ultimo, pre­sente anche in Julian Assange. In ogni caso l’affaire Sno­w­denè sem­pre stato affron­tato su un piano pre­va­len­te­mente giu­ri­dico. Non è mai emerso nella discus­sione pub­blica nes­sun accenno alla strut­tura mono­po­li­stica del capi­ta­li­smo, né è stato messo a fuoco il pro­cesso di pri­va­tiz­za­zione in atto.

Sno­w­den d’altronde non è molto inte­res­sato di chi è la pro­prietà e come opera l’infrastruttura della comu­ni­ca­zione. Essendo un liber­ta­rio, potrebbe anche mani­fe­stare sen­ti­menti posi­tivi verso il fatto che le imprese della comu­ni­ca­zione siano pri­vate invece che statali.

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D’altronde, i liber­tari ame­ri­cani sono indif­fe­renti al tema delle forme di pro­prietà. Sono por­tati a rap­pre­sen­tare i governi nazio­nali come aste­roidi distinti e sepa­rati da quelli delle imprese pri­vate. Nulla dicono dei mono­poli, delle rela­zioni tra lo stato e il mercato.

Non sono dun­que sor­preso che il tema della sor­ve­glianza, della pri­vacy non con­tem­pli mai la mer­ci­fi­ca­zione della vita o la pri­va­tiz­za­zione dei beni pub­blici. Eppure a Ber­lino ci sono decine e decine di start up, alcune delle quali senza fini di lucro, che stanno svi­lup­pando app di qua­lità per la tutela della pri­vacy in Rete.

Non sono così inge­nuo da cre­dere che il capi­ta­li­smo neo­li­be­rale sarà scon­fitto da una appli­ca­zione per la Rete, così come non credo che le poli­ti­che di auste­rità pos­sano essere con­tra­state svi­lup­pando una app.

Ritengo più rea­li­stico imma­gi­nare lo svi­luppo di movi­menti sociali con una auto­noma pro­po­sta poli­tica e ana­lisi eco­no­mica sulle dina­mi­che che hanno por­tato a que­sto tipo di capi­ta­li­smo. È così infatti che si pos­sono indi­vi­duare delle solu­zioni e un supe­ra­mento di que­sto stato di cose, com­presa anche la difesa della privacy.

In recenti inter­venti e inter­vi­ste lei ha affer­mato che i Big data dovreb­bero essere socia­liz­zati. Ci sono echi di poli­ti­che socia­li­ste di nazio­na­liz­za­zione in que­sta posi­zione. Vuol dire che lo spet­tro del comu­ni­smo si può aggi­rare nuo­va­mente nel mondo?

Non sono inte­res­sato a discu­tere se il comu­ni­smo è morto o se sta risorgendo.

Pongo solo il pro­blema di come resti­tuire le infor­ma­zioni per­so­nali che sono andate a costi­tuire i Big Data. Ho posto il pro­blema cioè della loro pro­prietà e della mer­ci­fi­ca­zione dei dati personali.

Occorre cioè imma­gi­nare modelli di gestione alter­na­tivi al dogma domi­nante neo­li­be­rale. Que­sto sia a livello nazio­nale, ma anche sovra­na­zio­nale. È la par­tita attorno ai Big Data che occorre gio­care. E si deve andare in campo con la giu­sta pre­pa­ra­zione e un’adeguata strategia.

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