Una ricerca di tre università sull’uso dei social network da parte dei movimenti evidenzia il fatto che l’elaborazione dei tweet e dei post degli attivisti sono uno strumento di controllo poliziesco
Codici Aperti. Una ricerca di tre università sull’uso dei social network da parte dei movimenti evidenzia il fatto che l’elaborazione dei tweet e dei post degli attivisti sono uno strumento di controllo poliziesco e un settore economico in forte ascesa nella Rete
Se gli antichi àuguri al servizio dei governanti romani ascoltavano i gridi degli uccelli per formulare i loro presagi, oggi la divinazione è compito di algoritmi e modelli di analisi statistica appositamente congegnati per interpretare in tempo reale il significato di stormi di tweet. Cambiati i tempi – con oracoli ed indovini ormai scalzati dagli analisti dei Big Data –, rimane però immutato l’interesse di chi detiene il potere per il futuro. In particolar modo se questo rischia di essere funestato da disordini politici, sommovimenti sociali e rivolte popolari.
Da sempre, cortei e proteste si verificano in presenza di una diffusione di idee che amplifica l’azione collettiva e alimenta la soggettività di quanti ne sono protagonisti. Il fatto che oggi tale processo di contagio sia più o meno alimentato da social network come Twitter o Facebook è un’ipotesi da anni al centro di feroci diatribe: da un lato infatti si sprecano gli studi che individuano nei social media un vettore per nuove forme di mobilitazione e organizzazione, dall’altro non mancano le invettive di intellettuali ed attivisti fondate sulla convinzione che tali piattaforme confinino la rabbia degli utenti dietro al monitor di un computer, scoraggiando così la partecipazione reale.
I numeri delle proteste
A gettare benzina sul fuoco della disputa ci ha pensato di recente una ricerca pubblicata da tre accademici: Marco T. Bastos della Duke University, Dan Mercea della City University London e Arthur Charpentier dell’Université du Québec. Obbiettivo dello studio in questione era quello di riuscire a definire con precisione come la comunicazione digitale abbia influito sullo sviluppo delle mobilitazioni di Occupy Wall Street, degli Indignados spagnoli e delle proteste di Vinegar in Brasile. Per testare le loro ipotesi, i tre autori non hanno però fatto affidamento a metodologie di ricerca classiche (quali inchieste etnografiche o interviste qualitative), ma hanno preferito ricorrere a un sistema artigianale di analisi dei Big Data. Utilizzando strumenti di rilevazione dati non particolarmente sofisticati, hanno raccolto qualche milione di tweet, hashtag e post di gruppi Facebook pubblicati durante le proteste. In un secondo momento li hanno incrociati con le cifre dei partecipanti ai cortei, il numero degli attivisti arrestati durante il loro svolgimento e quello dei militanti (nei casi spagnolo e brasiliano) impegnati nelle acampadas. Infine hanno elaborato questi dati usando il test di Granger, un modello econometrico impiegato per determinare statisticamente una relazione di causalità tra variabili (nel nostro caso, il numero di messaggi pubblicati sulle piattaforme di social networking e l’effettiva partecipazione fisica ai disordini in strada).
I risultati dell’analisi portano alla luce conclusioni degne di un adeguato spazio di riflessione nella quotidianità dei movimenti. Se da una parte infatti il lavoro dei tre studiosi mostra come l’interazione vis-à-vis resti il fulcro dell’attivismo sul territorio, è altresì innegabile che i social network svolgano una funzione non di poco conto nei suoi processi di organizzazione. Nonostante il loro impatto sia differente a seconda dei contesti – nel caso di Vinegar l’influenza dei social è stata nettamente minore rispetto a quanto avvenuto altrove, probabilmente a causa di un ecosistema mediatico caratterizzato dall’assenza di integrazione tra Internet e media broadcast –, status e messaggi in 140 caratteri sembrano ben lungi da essere quel mero eco digitale, autoreferenziale e privo di ricadute reali, messo alla berlina da diversi intellettuali, Evgenj Morozov su tutti, nelle loro opere.
Al contrario, sostengono Bastos, Mercea e Charpentier, Twitter e Facebook si sono dimostrati cruciali per ampliare la massa critica di Occupy Wall Street e degli Indignados, tanto per la pubblicizzazione delle iniziative di movimento, quanto per la loro organizzazione logistica. Talmente importanti da far dire ai ricercatori che la crescita dei messaggi politici online associati a una specifica protesta costituisce una terreno fertile di analisi per prevedere in anticipo la sua esplosione in strada. Detta in altro modo, se è vero che Twitter e Facebook sono in grado di dare forma a una rivolta, allora è vero che un loro costante monitoraggio potrebbe altresì essere un elemento chiave per prevederla e bloccarla sul nascere.
Corrompere il nemico
Ne è convinto Dan Braha, del New England Complex Systems Instituite. Autore di un’analisi dei tweet che hanno accompagnato i tumulti di Baltimora dello scorso aprile, Braha sostiene che, quando mediati dalla rete, i riot sono sono facilmente prevedibili. La conseguenza è che, non solo il dislocamento delle forze di polizia sul campo può essere operato in maniera più accorta grazie alla costante sorveglianza dei social, ma addirittura questi potrebbero essere utilizzati come vettori per la diffusione di panico e false informazioni: un’operazione, questa, da orchestrare con l’intento di scoraggiare la partecipazione della popolazione alle dimostrazioni di strada. Nell’utilizzo dell’analisi dei Big Data con finalità di ordine pubblico sembra quindi concretizzarsi uno dei princìpi cardine dell’arte della guerra, ovvero quello di influenzare e corrompere i meccanismi di decision making del nemico: chi detiene queste capacità, sosteneva Sun Tzu, è il combattente migliore perché è in grado di sconfiggere l’avversario senza combattere, semplicemente vanificandone i piani.
Cionondimeno, va ricordato che neppure i Big Data sfuggono a un passaggio fondamentale degli sviluppi del pensiero di Foucault sull’evoluzione della governamentalità: l’obbiettivo del potere non è più solo sorvegliare e punire – ovvero reprimere –, ma organizzare la popolazione sul territorio al fine di massimizzarne la potenzialità in termini economici. Anche se in termini nuovi. Di qui un elemento che ci fa capire come in questa dimensione – entro un’evoluzione della governamentalità intrecciata alle mutazioni tecnologiche – si sia rovesciato il rapporto tra il politico e l’economico. Da Jeremy Bentham allo storico testo di Gilles Deleuze sulla società di controllo, passando per Lewis Mumford, la sovrapposizione tra sorveglianza e governamentalità è uno dei terreni di esclusivo dominio del politico. Non a caso, in La verità e le forme giuridiche, Michel Foucault definisce Bentham il vero classico ineludibile del pensiero politico dell’Ottocento. Un terreno nel quale, a lungo, l’egemonia nelle strategie di innovazione e nell’impiego dei fondi – almeno nell’Europa continentale – è stata sostanzialmente pubblica.
Dal 2001 ad oggi invece, l’istituzione più importante ad occuparsi di Big Data è la Gartner. Citata anche nell’«affare Snowden», si tratta di un’istituzione ovviamente privata che annovera tra i suoi clienti l’amministrazione federale, le forze militari ed il business finanziario. Un’istituzione che soprattutto esercita egemonia – essendo al vertice di quest’ambito di ricerca e in congiunzione con il venture capitalism – sulle strategie dell’amministrazione federale. In questo modo l’estrazione di analisi dai Big Data ha una doppia, classica ricaduta: militare e di impresa. Ed ecco il salto di paradigma nei processi di sorveglianza: qui i Big Data non sono solo semplicemente «dati» utili ad orientare dispositivi governamentali ma processi di messa a valore del digitale che, una volta strutturati, generano una economia di scala dalle dimensioni ragguardevoli. Secondo stime McKinsey e Ocse, essi rappresentano infatti il 2 per cento del Pil Usa e Ue, con una crescita del 236 per cento annuo almeno fino alla decade 2020 (dati Nessi, progetto misto pubblico-privato di analisi sul potenziale economia del software a livello Ue).
Governance versus politica
Così – quando si tocca il terreno dell’ottica del potere, tra sorveglianza e governo – siamo di fronte a qualcosa di diverso rispetto al passato. Attraverso l’analisi dei Big Data, la governamentalità tramite sorveglianza cessa di essere, secondo il paradigma classico, un terreno di esclusivo dominio, e persino di caratterizzazione simbolica ed identitaria, del politico. Al contrario, essa diviene un terreno dove la politica è qualcosa di secondario rispetto alle evoluzioni della messa a valore dei dati. Come discusso al festival Observer Ideas e riportato dal Guardian nel luglio del 2014, emerge sempre più una simultaneità tra «crescita dei dati e morte della politica» a causa della «regolamentazione algoritimica dell’approccio alla governance». E questo sopratutto perché l’algoritmo, il cui uso nell’analisi dei big data è regolato dalla visual analyis che è così da intendersi come vera scienza della produzione, qui è un procedimento matematico messo a valore, ormai merce tra le merci. In questo modo tutte le carte etiche, le norme, le costituzioni risultano pericolosamente impotenti quando messa a valore e potenza tecnologica occupano quello che un tempo era considerato più durevole dei bastioni del politico: la sorveglianza.
L’economia dell’informazione
I Big Data si accumulano su mille piani: sanità, sicurezza, borsa, meteo, traffico, relazioni sociali, stili di consumo, inclinazioni sessuali, politiche e cicli economici, universo finanziario e, appunto, movimenti. Generano un’economia del loro trattamento e, allo stesso tempo, strutturano l’economia secondo i criteri che producono il loro trattamento. Compongono tecnologie del sapere per favorire processi decisionali. Un asse nuovo, materiale e digitale, dalle conseguenze, nell’economia come nella politica, potenti e ancora tutte da esplorare. Dove il politico non regola ma appare regolato. Anche nelle scelte sul futuro dell’analisi del comportamento dei movimenti. Scelte, prima ancora che politiche, regolate dal business puro, magari travestito da Ppp (Partnership Pubblico-Privata) che è la veste con cui il privato prende il posto del pubblico su questo terreno. Nel quale, se guardiamo ai progetti in gestazione, pare però che il maggiore interesse sul piano continentale sia quello di mettere a prova la redditività dei big data in materia di radicalismo islamico. Perché oggi la divinazione prima interroga le traiettorie degli hedge fund poi decide se tutto questo ha una ricaduta sul piano della politica. E il mercato sembra aver detto, e domani chissà, che al momento è possibile una maggiore estrazione di valore guardando ai seguaci del califfo piuttosto che ai movimenti dal basso. Nuovi tools di analisi dei dati – magari ispirati dal lavoro di Bastos, Mercea e Charpentier – sono quindi sicuramente a venire.
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