Il valore d’uso del meridionalismo

Vi è la necessità di sciogliere i nodi di una «politica popolare», che non può limitarsi all’angusto orizzonte dei diritti. Per affermare la centralità dell’autogoverno e della democrazia diretta

Tempi presenti. Un’inchiesta sulle lotte dei braccianti in Campania e in Andalusia pone con forza la necessità di sciogliere i nodi di una «politica popolare», che non può limitarsi all’angusto orizzonte dei diritti. Per affermare la centralità dell’autogoverno e della democrazia diretta

Fran­ce­sco Caruso — mili­tante dei Cen­tri sociali, por­ta­voce degli invi­si­bili, poi depu­tato indi­pen­dente di Rifon­da­zione Comu­ni­sta, e oggi docente uni­ver­si­ta­rio di socio­lo­gia — si ripro­pone nel suo ultimo libro (La poli­tica dei subal­terni, Derive Approdi, pp. 192, euro 17) una opera buona: ripor­tare a casa Anto­nio Gram­sci, dopo che gli intel­let­tuali post-colonial ne ave­vano tra­fu­gata la salma tra­spor­tan­dola nei mari del Sud fino alla Ame­rica Latina e all’India lontana.

L’impresa pre­senta aspetti teme­rari dal momento che la rifles­sione gram­sciana si svolge, a detta dello stesso Gram­sci, al modo di uno adat­ta­mento del pen­siero di Marx alle cir­co­stanze spe­ci­fi­che della vita morale e civile dell’Italia nei primi decenni del secolo appena tra­scorso, una sorta di «tra­du­zione con­cet­tuale» dal tede­sco all’italiano, ad imi­ta­zione di quanto Gen­tile e Croce erano venuti facendo con l’idealismo di Hegel.

Risulta poco pro­ba­bile che lo sforzo di pen­siero di Gram­sci, quasi del tutto sce­vro di gene­ri­cità e astra­zioni inde­ter­mi­nate, così legato alla sto­ria sin­go­lare del nostro paese, possa quindi costi­tuire una gri­glia effi­cace per inter­pre­tare le rivolte, i tumulti, le lotte delle mol­ti­tu­dini indiane o sud americane.

Ed ancora più impro­ba­bile appare la per­ti­nenza di que­sto «Gram­sci di ritorno», fil­trato dalle cate­go­rie etico-politiche post-colonial, alla feno­me­no­lo­gia sociale dell’Italia odierna.

Ma, come qual­che volta accade, si è veri­fi­cato l’improbabile. L’impresa di Caruso, ripor­tare Gram­sci a casa, si può dire riu­scita; almeno par­zial­mente e, qual­che volta, biso­gna pur dirlo, a dispetto del suo stesso autore.

Una comune sentimentalità

Il libro ha il suo punto di con­ver­genza nel raf­fronto tra i risul­tati di due inchie­ste, svolte con lo sguardo dell’osservatore par­te­ci­pante, sui moti brac­cian­tili nell’Europa medi­ter­ra­nea, pre­ci­sa­mente in Cam­pa­nia a Castel Vol­turno e in Anda­lu­sia ad Alme­ría — detto per inciso, que­sta parte del libro è quella più ricca d’informazioni, almeno per il let­tore italiano.

Il pro­getto dell’autore è ten­tare di rin­trac­ciare que­gli ele­menti di una sen­ti­men­ta­lità comune, di natura ad un tempo con­cet­tuale ed emo­tiva, ragione e cuore, che con­cor­rono a fon­dare una sorta di auto­no­mia sociale e cul­tu­rale del movi­mento brac­cian­tile nell’Europa mediterranea.

All’esposizione delle sue ricer­che sul campo, ai casi stu­dio cam­pano ed anda­luso, l’autore pre­mette due capi­toli intro­dut­tivi. Il primo rico­strui­sce, tra­mite un robu­sto appa­rato biblio­gra­fico, le tra­ver­sie della cate­go­ria di subal­ter­nità» ela­bo­rata in ori­gine da Gram­sci, rat­trap­pita fino ad este­nuarla a mero arnese cul­tu­rale da Pal­miro Togliatti, e ripresa poi nella sua pie­nezza seman­tica pro­prio dagli intel­let­tuali degli «studi post coloniali».

Il secondo capi­tolo intro­dut­tivo è un pro­logo sto­rico nel senso che viene posta a fronte della lotta brac­cian­tile odierna nell’Europa medi­ter­ra­nea, con quel suo carat­tere ibrido tra movi­mento e sin­da­cato, una espe­rienza sociale in qual­che misura simile a quella mitica degli Iww ame­ri­cani, all’inizio del ven­te­simo secolo.
Que­sta irru­zione della sto­ria in una inchie­sta sull’attualità nel corso del suo farsi testi­mo­nia la distanza tra il pen­siero cri­tico — del quale par­te­cipa Caruso — e l’ordinaria ricerca socio­lo­gica, affo­gata nei numeri e spe­cia­liz­zata fino all’idiozia.

Il pen­siero cri­tico infatti si eser­cita a par­tire da inva­rianze, come accade nei saperi scien­ti­fici. Un feno­meno sociale signi­fi­ca­tivo è com­pren­si­bile nella misura in cui non è mai il total­mente nuovo, l’inedito asso­luto. Per dirla con Wal­ter Ben­ja­min: se qual­cosa di uma­na­mente impor­tante accade oggi, allora è già acca­duta almeno una altra volta. Per capire il feno­meno nella sua essenza occorre dun­que rin­trac­ciare nella sto­ria, nella memo­ria col­let­tiva, la forma con la quale si è già pre­ce­den­te­mente manifestata.

Per­corsi mediterranei

Nel libro di Caruso, il richiamo sto­rico a quei wob­blies ita­liani negli Usa lascia affio­rare gli ele­menti costanti delle lotte dei subal­terni quando esse assu­mono dimen­sioni di massa, ele­menti che si ritro­vano in buona sostanza nei movi­menti brac­cian­tili in Anda­lu­sia o in Campania.

Il nostro autore sot­to­li­nea minu­zio­sa­mente ed in modo con­vin­cente que­ste ana­lo­gie che vanno dalla ter­ri­to­ria­liz­za­zione dei movi­menti al loro adat­ta­mento ai luo­ghi; dalla strut­tura per assem­blee e dele­gati con man­dato vin­co­lante alle «con­dotte clien­te­lari», cioè all’impiego astuto e disin­can­tato dei difetti siste­mici delle isti­tu­zioni; da una prassi di diritto ine­guale impo­sto con­tro voglia alla demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva alla pro­du­zione di «pre­senza totale» — uomini, donne, bam­bini — capace d’ipotecare seria­mente l’ordine pubblico.

Un appunto che si può muo­vere all’esposizione nel libro di que­ste ana­lo­gie forti è l’assenza di con­si­de­ra­zioni in paral­lelo sulle dif­fe­renze spe­ci­fi­che; manca del tutto, ad esem­pio, il con­fronto tra la ripro­du­zione allar­gata del mer­cato ame­ri­cano all’inizio del secolo scorso — ripro­du­zione che com­por­tava un rigon­fia­mento smi­su­rato della domanda di lavoro sala­riato — con l’attuale fase di uni­fi­ca­zione del mer­cato glo­bale, una fase di accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria che nel set­tore agri­colo si svolge con le tec­no­lo­gie dell’automazione; e che ha quindi una ten­denza seco­lare ed irre­ver­si­bile a con­trarre dra­sti­ca­mente il lavoro sala­riato. In breve i wob­blies ame­ri­cani gode­vano di un van­tag­gio stra­te­gico di cui risul­tano del tutto privi i migranti di Castel Vol­turno o di Almería.

Nell’ultima parte del libro, Caruso affronta due que­stioni cru­ciali per com­pren­dere la fase che attra­versa il feno­meno delle migra­zioni in Occi­dente.
La prima è il dile­guarsi del sin­da­cato in quanto gestore della ven­dita a livello nazio­nale della forza-lavoro; e quindi della per­dita di auto­no­mia, dei legami di classe, e non solo di quelli ideo­lo­gici ma anche di quelli sola­mente siste­mici e spesso inconsapevoli.

Il sin­da­cato tra­di­zio­nale, quello di tipo con­fe­de­rale, ha mutato defi­ni­ti­va­mente la sua natura, si è tra­sfor­mato in una sorta d’agenzia che for­ni­sce ser­vizi al pub­blico per conto e a spese dello Stato — il luogo che solo ieri era fre­quen­tato da mili­tanti si ritrova oggi affol­lato da clienti. Quando va bene è un punto d’incontro e di ristoro per pen­sio­nati in dif­fi­coltà, che avver­tono un certo impac­cio nel com­pi­lare i moduli fiscali.

Caruso, dopo aver con­sta­tato la morte del sin­da­cato ne for­ni­sce una rico­gni­zione cri­tica, o meglio una recen­sione esau­riente, del cada­vere; e passa a chie­dersi come possa darsi un pro­cesso di sog­get­ti­va­zione che dia la parola alle mol­ti­tu­dini di subal­terni — sulla mobi­lità dei quali, occorre ricor­darlo, si strut­tura la nuova accu­mu­la­zione pri­mi­tiva del mer­cato glo­bale; per ripro­porre infine, a mó di solu­zione, una cate­go­ria con­cet­tuale ela­bo­rata all’interno degli studi post-coloniali, cate­go­ria che prende il nome di «poli­tica popolare».

Ras­si­cu­ranti ideologie

Qui l’autore sgom­bra subito il campo da un equi­voco ingom­brante che il filone degli studi post­co­lo­niali pro­duce e ripro­duce nell’immaginario col­let­tivo degli anta­go­ni­sti a vario titolo: l’idea inge­nua secondo la quale una sog­get­ti­va­zione libe­ra­to­ria, un nuovo sog­getto eman­ci­pa­tivo è in corso d’affioramento in Occi­dente; e que­sto sog­getto si iden­ti­fica con la massa dei migranti e più in gene­rale dei subal­terni che popo­lano le peri­fe­rie spet­trali delle grandi Babi­lo­nie, le mega­lo­poli dei nostri tempi. Si tratta di pura ideo­lo­gia, spe­ranze senza fondamento.

L’ultimo capi­tolo del libro — per altro il più debole, non già per impe­ri­zia dell’autore ma per il tita­ni­smo impli­cito nell’impresa — è dedi­cato ad uno sce­na­rio di un pos­si­bile rove­scia­mento della poli­tica, intesa fou­col­tia­na­mente come con­ti­nua­zione dei dispo­si­tivi di poli­zia, in «poli­tica popo­lare», defi­nita come la presa di parola dei subal­terni, degli ultimi, di coloro che tra­scor­rono la vita nei bas­si­fondi delle nostre peri­fe­rie, immersi nel rumore senza «logos» della sof­fe­renza.
Caruso sem­bra guar­dare con bene­vo­lenza la pro­spet­tiva che i subal­terni final­mente par­lino; ma se que­sto acca­desse, essi use­reb­bero ine­vi­ta­bil­mente il les­sico ed i nomi della lin­gua occi­den­tale. Detto altri­menti, quando i subal­terni del mondo par­lano non pos­sono che dire le stesse cose che vanno dicendo i poveri in Occi­dente: vogliamo più soldi per poter con­su­mare di più, vogliamo dive­nire ric­chi anche noi.

Opzioni sovra­na­zio­nali

A dirla senza ipo­cri­sia, la coscienza comune dei migranti, ancor prima che toc­chino il suolo euro­peo, è stata colo­niz­zata dalla sen­ti­men­ta­lità occi­den­tale, quella del capi­tale finan­zia­rio; una coscienza da con­sumo indotto, volta ad accre­scere il red­dito per con­su­mare e vice­versa; in breve una coscienza che non desi­dera l’uso di qual­cosa di cui avverta il biso­gno, bensì nutre una fidu­cia mal ripo­sta nel nuovo, desi­dera di desi­de­rare, pre­tende un meta-diritto ad aver diritti. In con­se­guenza, la poli­tica popo­lare non può che svol­gersi in ter­mini di riven­di­ca­zione sovra­na­zio­nale che con­ceda libertà di movi­mento ai migranti non­ché una più equa distri­bu­zione della ric­chezza, nel senso del pos­sesso di denaro.

Così, la «poli­tica popo­lare» sem­bra stin­gere verso la riven­di­ca­zione uni­ver­sale, il ten­ta­tivo di porre un fon­da­mento all’agire poli­tico a livello pla­ne­ta­rio; essa quindi diviene incon­ce­pi­bile se non inte­rio­rizza la geo­po­li­tica, ossia il porsi don­chi­sciot­te­sca­mente nel ruolo di faci­tori di costi­tu­zioni.
Va da sé che, per­fino se la «poli­tica popo­lare» risul­tasse essere solo la riven­di­ca­zione dei subal­terni di miglio­rare le loro con­di­zioni di libertà e di red­dito non solo sarebbe pie­na­mente legit­tima ma andrebbe appog­giata attivamente.

E tut­ta­via non verrà dai migranti la grande tra­sfor­ma­zione che l’Occidente attende da tempo; grande tra­sfor­ma­zione che non punta alla distri­bu­zione di que­sta ric­chezza, quella finan­zia­ria, del valore di scam­bio, tra­mite scam­bio di equi­va­lenti; essa tende, senza peral­tro riu­scirvi, a pro­durre un altro sen­ti­mento di ric­chezza, un sen­ti­mento in atto ma in stato di latenza: quello del valore d’uso, dove il biso­gno è auten­tico e non pove­ra­mente indotto, la diver­sità è una risorsa e non una disu­gua­glianza; e dove da ognuno si pre­tende ciò di cui è capace e a cia­scuno si dà quel che di cui abbisogna.

Per chiu­dere senza con­clu­dere: nel nostro paese sono le città a costi­tuire le inva­rianze della nostra sto­ria; e forse i migranti, chi sa, un giorno potreb­bero deci­dere di fon­dare nuove città secondo usi a loro pro­pri col solo vin­colo di com­pa­ti­bi­lità con i nostri. Forse que­ste nuove comu­nità potreb­bero col­lo­carsi in quei luo­ghi oggi abban­do­nati ma che per secoli hanno ospi­tato la vita urbana sulla base di una straor­di­na­ria sovra­nità ali­men­tare, ener­ge­tica, pae­sag­gi­stica. Forse, le città abban­do­nate dell’osso appen­ni­nico — Pen­ta­dat­tilo, Cit­ta­della del Capo e così via — aspet­tano pazien­te­mente i migranti per sot­trarli alla sorte di con­su­ma­tori e ridare loro la pos­si­bi­lità di un ritorno al pri­mi­tivo, la dimen­sione della comu­nità elettiva.

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