Storie di Potere Operaio

Il racconto di Cecco Bellosi, dal libro “La generazione degli anni perduti”, di Aldo Grandi

Sono nato e cresciuto in un paese sul lago di Como, Colonno.

Negli anni Sessanta era la piccola capitale di un faticoso lavoro di contrabbando di sigarette con la Svizzera. Molta gente viveva di quello. Quando andavo in giro e mi chiedevano di dove ero, e io rispondevo che ero di Colonno, il commento scontato diventava: “Ah, il paese dei contrabbandieri”. Trent’anni dopo, sarebbe diventato il titolo di un racconto che ho dedicato a quella gente. Mi sentivo in qualche modo in dovere. Quando ero piccolo, e nelle sere d’estate giocavamo sulla riva del lago, a una certa ora, e non faceva ancora buio, venivamo richiamati in casa. Noi, in quel momento, eravamo sempre bambini ubbidienti. Iniziava il rito del carico delle barche piene di bricolle verso l’altra parte del lago. Tutto il paese era all’erta, per segnalare la presenza di qualche burlanda, il nemico che vestiva la divisa della finanza. Da noi il gioco a guardie e ladri non poteva esistere perché nessuno, ma proprio nessuno, avrebbe mai fatto la guardia. Quasi vent’anni dopo, due sbirri vestiti da pescatori ebbero la ventura di tampinare due ragazze del paese. In realtà , cercavano notizie su di me, che ero ricercato e latitante. Chiesero alle due ragazze se conoscevano il figlio del sindaco. E quelle: “Perché, il sindaco ha un figlio?”. In realtà  i figli erano due, in un paese che non ha mai superato i mille abitanti.

Di Colonno mio padre è stato sindaco per oltre vent’anni, e ha abbandonato solo perché stanco e malato: era stato il padre nobile di quel paese un poà malandrino. Del resto, a ogni mia disavventura giudiziaria, i voti nei suoi confronti, invece di diminuire, aumentavano. Della sinistra socialista lombardiana, aveva la passione politica nel sangue. Mia madre era la segretaria della cooperativa, la casa del popolo, che ogni anno distribuiva i dividendi in vino e salamelle di maiale appena ucciso.

Quasi tutte le sere venivano in casa il prete, don Biagio, un uomo di spessore e cultura, irrimediabilmente di destra, e il presidente della cooperativa, il Domenico, un falegname comunista di quelli che non ne nascono più. Tanto è vero che non era iscritto al PCI, ma allo PSIUP. E ogni volta la discussione politica era accanita. Io stavo ad ascoltarli appassionato.

A sedici anni, per prendere un poà le distanze, mi iscrissi alla FGCI, ma non facevo vita di partito. Anche se ogni tanto mi esibivano come il ragazzo studioso e per bene.

A 18 anni giocavo in una squadra di amici di scuola e di paesi. Alcuni di noi, come il Dino, che era stato una precoce promessa della Primavera del Como, o il Bebola, che aveva il calcio nel DNA, o il Tullio, le cui finte ubriacavano gli avversari, erano molto bravi. Altri, come me, meno. Ma eravamo un gruppo, prima che una squadra di calcio. E questa cosa la sentivano gli altri, quelli che giocavano per dovere o per soldi, e quelli che come folle da piccolo stadio venivano a vedere le partite. Eravamo diventati, malgrado noi, un piccolo mito. Dal nome provocatorio: ci chiamavamo Corea, come la squadra che aveva abbattuto la nazionale degli abatini azzurri, e dallo charme inatteso. Non lo sapevamo, ma eravamo diversi. E la diversità , in quel periodo, colpiva bene. Anche in provincia. Mi chiamavano affettuosamente Ho Chi Min.

Il luogo di ritrovo era la piazza di Bolvedro, una frazione di Tremezzo. Una piazza vivace con presenze interessanti: i comunisti della sezione che stava in un buco d’angolo; i tifosi del Toro, che avevano proprio lì un nucleo duro; i figli dell’architetto Lingeri, uno dei padri del razionalismo; vecchi partigiani come Michele Moretti, il commissario Pietro della 52° Brigata Garibaldi che aveva partecipato alla fucilazione di Benito Mussolini; artisti decoratori come il Titti o il Barba, che sarebbe andato anche a Cuba a restaurare chiese; e noi, giovani curiosi. Poi, quando non mi perdevo fino a notte fonda nelle discussioni sui destini del mondo, càera qualche ragazza con cui approdare a qualche fugace pastrugno.

Dopo l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, entrai nella sezione del PCI strapiena per vedere come buttava il dibattito. I dirigenti provinciali volevano imporre la linea del partito. Ma loro, i tremezzini, non mollavano. Volevano costruire un muro attorno a tutta la Cecoslovacchia. Quella era la vera base del Partito: assolutamente passionale e intollerante.

A scuola facevo il liceo scientifico Paolo Giovio, in quegli anni la scuola in, frequentata da molti ragazzi e poche ragazze della Como bene. In buona parte iscritti alla Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Ero quindi una mosca bianca. Ma non esistevano problemi: anche a quelli di destra piaceva Fabrizio De Andrè.

La storia cominciò a cambiare a novembre del 1966, dopo l’alluvione di Firenze. Ci sono dei momenti in cui la spinta al volontariato è un dovere, altri in cui diventa naturale. Quando è così, vuol dire che nella società  càè fermento. A Firenze, nelle caldaie della stazione, pulimmo per un mese i volumi a stampa del à500 e del à600. A scuola ci diedero per dispersi, accelerando di brutto il programma. Al ritorno i professori ci trattarono come degli irresponsabili. E questo provocò la nostra ribellione.

Da lì in poi, i tempi, che anche a noi giovani, tradizionalmente abituati alla velocità , sembravano fisiologici, sono precipitati in una dimensione vorticosa.

Nell’inverno del à67, mi iscrissi all’università  Statale di Milano. A febbraio del à68 ci fu la prima occupazione. Era di Carnevale, votammo in mille, ma di notte rimanemmo in cinquanta.

Nei mesi successivi, mi avvicinai a un gruppo emmeelle che spopolava in Statale: il PCDI (ML)-linea rossa. Ohibò. Entrai nell’Unione della gioventù e fui assegnato al glorioso nucleo vietcong, zona San Siro. Eravamo un bel gruppo di matti. A una manifestazione al consolato americano per protestare contro la guerra in Vietnam, dopo le prime cariche della polizia, cominciammo a tirare sassi, rimediati in un cantiere, contro i celerini. E furono scontri.

Nei giorni successivi, il partito ci mise sotto inchiesta per deviazione avventurista e militarista. Di lì a qualche mese, alla fine di una manifestazione sindacale, su decisione del partito, andammo all’Assolombarda. Ci venne dietro un sacco di gente. E, davanti all’Assolombarda, partirono delle cariche violentissime da parte della polizia. La mia ragazza venne arrestata, io presi un bel poà di botte e altri compagni si ritrovarono decisamente malconci.

Eravamo neri di rabbia.

Noi saremo stati anche dei militaristi, ma loro erano delle emerite teste di cazzo. L’Unione della gioventù, e poco dopo il PCDI, implosero sciogliendosi. Non ne sentimmo proprio la mancanza.

Nell’estate del 1969, con alcuni compagni reduci da quella poco esemplare esperienza, andai in Calabria. Eravamo mossi dalla curiosità  e dalla voglia di capire. Ci avevano detto che l’Unione dei Comunisti (marxisti leninisti), fondata da Aldo Brandirali, stava radicandosi con un lavoro efficace tra i contadini. Brandirali era un personaggio interessante, a fronte dei grigi burocrati che animavano i cadaveri degli altri gruppi m-l. Di rude origine operaia, era stato vicesegretario nazionale della FGCI, ai tempi di Achille Occhetto. Non era difficile credere a chi diceva che avesse molto più fascino. Tanto che sconfinò nel culto della personalità .

A Vibo Valentia non trovammo i quadri dell’Unione nelle campagne con i contadini, ma rinchiusi in alcuni tuguri ammuffiti di sedi di partito. Ci fecero le solite prediche sulla linea giusta, salutammo con cortesia e ce ne andammo. Meglio il mare. Prima di congedarci però il giovane burocrate di cento anni ci aveva detto: “Noi siamo dei militanti comunisti, non dei banditi come quelli del movimento studentesco romano, Scalzone, Piperno…”. Quel termine, banditi, mi suonò decisamente attraente. E così, quando un compagno di Como trovato da quelle parti (nel 1969 tutto il movimento sembrava raccolto in Calabria) mi disse che càerano dei seminari interessanti sulle lotte autonome di primavera alla FIAT, trovai un buon motivo di curiosità  da soddisfare.

Conobbi così Oreste, e la mia vita cambiò. Tra noi fu simpatia immediata, frequentazione intensa, arrivederci a settembre a Milano.

Avevano infatti deciso di fondare Potere Operaio e di aprire l’intervento nella città  della nebbia e dei panettoni, dove la presenza degli operaisti era decisamente scarsa, ridotta a una piccola aristocratica cerchia di intellettuali.

A Milano dominava il movimento studentesco di Capanna e Cafiero, una paccottiglia di stalinismo reale e di maoismo di maniera, mentre i loro antagonisti, quelli di Avanguardia operaia, affondavano le radici nella tradizione trotzkista.

Cominciai una dura e affascinante educazione sentimentale davanti alle fabbriche. Autobianchi, Alfa Romeo, Pirelli Bicocca, Farmitalia, Face Standard, nomi in parte ancora vivi, in parte scomparsi con l’avvento del postfordismo. Si cominciava prima delle sei del mattino, per finire alle dieci di sera. Discussioni con gli operai in entrata e in uscita, volantini, capannelli. D’inverno, spesso accanto a dei fuochi accesi con le cassette della frutta.

Neanche fossimo delle puttane.

Si parlava di ritmi e di tempi di lavoro, di organizzazione delle lotte, di salario, di aumenti uguali per tutti. E, anche, di violenza operaia. I miei compagni valorizzavano le lotte autonome, insistevano sul concetto di operaio massa, affermavano il senso politico delle lotte. Mentre buona parte degli altri gruppi erano fermi ai contadini cinesi.

Capivo che Toni Negri e gli altri avevano ragione, erano gli unici capaci di leggere quanto stava succedendo. Ma parlavano difficile e scrivevano come filosofi tedeschi. Feci non poca fatica per tradurre dentro di me quei linguaggi. A Como càera un gruppo di intellettuali, anche operai intellettuali: più grandi di me, avevano seguito e partecipato a tutta l’evoluzione dell’operaismo, dai Quaderni Rossi a Classe Operaia. Mi rifornirono di tutto quel materiale teorico, su cui passavo intere giornate. E, finalmente, la nebbia si diradò. Cazzo, la storia, la voglia di comunismo erano lì, nelle lotte per l’autonomia dell’operaio massa nella grande fabbrica e, poi, nella fabbrica diffusa.

Quasi tutti fino ad allora avevano visto il comunismo come invidia di classe, i ricchi che dovevano diventare poveri; e i poveri che dovevano produrre trattori per altri poveri. Ad ascoltarli, gli emmeelle, il movimento studentesco, ma, poi, anche le Brigate Rosse avrebbero riempito l’Italia di trattori. Per coltivare anche il Cervino. Invece quelli di Potere Operaio e, in modo meno sfrontato, quelli di Lotta Continua, dicevano che gli operai dovevano avere salari alti, sempre più alti, la macchina per poter inquinare impunemente, la casa con l’affitto autoridotto. Tutta un’altra storia.

La mia vita in quel periodo si divideva nella militanza tra la sede di Milano e quella di Como, l’università  solo per dare gli esami, qualche ritorno a casa a trovare i miei, a rivedere i vecchi amici, a uscire con qualche ragazza. Chissà  cosa pensavano di quella mia vita. Sempre di corsa, sempre con lo stesso eskimo poco innocente, qualche veloce panino. Perché la vita era ormai nelle lotte. E nelle manifestazioni, sempre più violente. Nel corso dell’autunno del 1969 presi tre denunce, tutte per gli stessi reati: violazione di domicilio, danneggiamento, oltraggio e resistenza. Era la dura legge dei picchetti, degli scontri di piazza e della caccia ai crumiri. Poi sarebbe arrivata l’amnistia.

No, i nostri eskimo non erano innocenti prima di Piazza Fontana. Troppo facile e autoassolutorio attribuire alla strage la nostra torsione verso la violenza e le armi. La ricerca era già  in atto. Piazza Fontana fu però il corto circuito che accelerò la corsa in maniera vorticosa.

Dandoci maledettamente ragione.

Il 12 dicembre 1969 non fu tutto subito chiaro. Era come se ci fossimo allenati per il campionato di boxe dei pesi leggeri e ci fossimo trovati di fronte Mike Tyson. Vedemmo le stelle e per un poà fu notte fonda. Alla prima manifestazione per Pino Pinelli eravamo neanche in mille, nulla rispetto alle manifestazioni di solo qualche settimana prima. Lo choc era stato tremendo, per tutti. Nell’ombra agiva un drago. La verità  cominciò ad affiorare poco a poco, grazie alle campagne di controinformazione, anche quella di Lotta continua: la sua campagna non fu solo maniacalità  contro il commissario Calabresi, ma rivelò capacità  e tenacia nella ricerca delle cause e delle origini della strage.

Quelle trame, più che nere, sembravano bianche, quindi più pericolose. “Agli italiani non far sapere quanto sono bianche le trame nere”, era uno slogan coniato dagli stessi fascisti. Non troppo infondato.

O volevano fare un colpo di Stato o volevano cacciarci in clandestinità ; il che, per molti aspetti, era la stessa cosa.

Nei giorni successivi a Piazza Fontana venni convocato dai vertici di Potere Operaio. Dicevano della possibilità  di spostare in Svizzera redazione e stampa del giornale: sapendo delle mie conoscenze nel mondo dei contrabbandieri, non volevano trovarsi impreparati di fronte alla necessità  dell’espatrio. Questo era il clima, per nulla paranoico. Unàunica marea nera lambiva le coste di Portogallo, Spagna e Grecia; in Francia la svolta gollista si presentava come autoritaria; in Turchia càera un regime militare. Nello scacchiere mediterraneo, solo l’Italia non era ancora allineata a quell’aria pesante. Ma sembrava solo questione di tempo.

Le indagini su Piazza Fontana puntarono dritte verso gli anarchici, cercando però di coinvolgere altri ambienti della sinistra rivoluzionaria. In particolare, una persona che con la produzione di libri e pamphlet antimperialisti e filoguerriglieri, dava particolarmente fastidio: Gian Giacomo Feltrinelli. Lo volevano prendere a tutti i costi, anche se non vi era alcun indizio contro di lui. La sua foto campeggiava maliziosamente allusiva sui giornali.

Il 30 dicembre mi chiamarono: càera un compagno da portare in Svizzera, ma non immaginavo minimamente chi potesse essere. La cosa si fece il primo dell’anno, di pomeriggio. Arrivarono al cimitero di Muronico, il primo paesino della Val d’Intelvi, alcuni dirigenti di Potere Operaio con un personaggio bardato come uno sciatore d’epoca e il passamontagna calato sulla fronte. Mi sembravano tutti nervosi. Noi eravamo in tre: io, il Cinto, un capo contrabbandiere mio amico che conosceva bene tutti i passaggi in Svizzera, e un altro compagno. Nei giorni precedenti avevamo deciso per un tragitto piuttosto facile, ma la neve caduta proprio in quelle ore ci costringeva a cambiare percorso. Saremmo passati da Lanzo, aggirando la dogana e scendendo in Val Mara. Lì avremmo trovato gli altri, che sarebbero entrati senza problemi da Chiasso. In Val Mara, oltre alla dogana svizzera, càerano soltanto un benzinaio e un’osteria. Dentro il locale, ormai al sicuro, davanti a una buona grappa ticinese, la persona che avevamo accompagnato si tolse il passamontagna.

Ci salutammo alla stazione di Mendrisio, dove prese un treno per Zurigo. Sorridendomi, mi disse: “Ci rivedremo presto”.

Era Gian Giacomo Feltrinelli.

In realtà  il primo appuntamento con lui clandestino, militante dei GAP, fu dopo l’estate del 1970. Da allora, la frequentazione divenne intensa. Quando, dopo la sua morte, venne ritrovata la sua agenda, magistrati e poliziotti furono incuriositi da un nome che tornava spesso negli appuntamenti: Cocco Bill. Me lo aveva attribuito lui, con l’ironia di cui era capace: suonava come un anagramma del mio nome e cognome. Cocco Bill. Cecco Bellosi.

Ma non arrivarono a me.

Per tutta la prima parte del 1970 continuò la mia educazione politica ai cancelli delle fabbriche, ai coinvolgenti seminari su Marx tenuti alla Casa dello studente da Ferruccio Gambino e Giairo Daghini, persino con gli esami alla facoltà  di Filosofia, dove il programma un poà fuori dalle righe andava dai Manoscritti del 1844 fino ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica. Lungo tutta la traccia di sviluppo dell’eresia operaista. Cominciai però anche a occuparmi in maniera stabile del servizio d’ordine alle manifestazioni, il cui nucleo più consistente e affidabile era costituito dai compagni di Como. Nell’estate venne a Milano Valerio Morucci, per tenerci un breve corso intensivo sulla confezione delle bottiglie molotov a innesco chimico. Diventai un bravo allievo. Valerio era già  allora, di fatto, il capo militare di Potere Operaio, anche se non era stata ancora formalizzata la costituzione di Lavoro Illegale.

Nel 1970 ci fu anche un tentativo demenziale di unificazione con il Manifesto, nel corso di un convegno tenuto non a caso in un circo. Non ho mai capito che cosa centrassimo noi con quei puristi comunisti snob, che non solo non si sarebbero mai sporcati le mani, ma non si sarebbero nemmeno mai macchiati l’abito bianco. Quel matrimonio innaturale durò lo spazio di un mattino, forse anche meno.

Durante l’inverno si intensificarono i rapporti con i GAP e la corsa verso l’armamento: Gian Giacomo veniva spesso nella casa in cui abitavo, in via Buschi. Lo stesso stabile dove, anni dopo, venne trovata la tipografia milanese delle BR. L’appartamento era di un compagno ritenuto da tutti affidabile, intellettualmente preparato, anche se piuttosto pasticcione sul piano pratico: Carlo Fioroni. Alcune sue stranezze, come andare al lavoro con una vecchia Glisenti scarica nella borsa, ci sembravano soltanto come una forma esasperata di militanza. In realtà  gli anni successivi ci dissero che si trattava di una persona mentalmente disturbata. E infame. Per la sua responsabilità  nel sequestro e nella morte di un amico, Carlo Saronio, prima ancora che per il suo “pentimento”, che ha portato in carcere decine di persone. Spesso innocenti, anche se non è il mio caso.

Carlo Saronio era un ragazzo di una dolcezza e di una timidezza inaudite. Alto e magro, lo chiamavamo con affetto “il salice piangente”, per la sua tendenza a incurvarsi e la tristezza che attraversava il suo sorriso. Ingegnere, apprezzato ricercatore dell’Istituto Mario Negri, apparteneva a una delle famiglie più ricche di Milano. Arrivato a Potere Operaio attraverso un suo vecchio compagno, aveva subito costruito un rapporto di amicizia con alcuni di noi. La sua ingenuità  appariva disarmante e strepitosa. L’unico vezzo alto borghese, in una semplicità  spartana, erano le automobili. Aveva una Porsche e un Giulia 1600 super. Una volta dovevo andare di fretta a Torino con la mia 500 per portare dei volantini a una manifestazione, ma mi lasciò a piedi. Lo chiamai, per chiedergli in prestito la macchina. Mi disse: “Se hai fretta, ti conviene prendere la Porsche, va più forte”. Gli chiesi se avesse idea di che cosa voleva dire presentarmi a una manifestazione di comunisti incazzati con un’auto del genere: una brutta fine per la macchina e per chi ci stava dentro. Andai così con il Giulia, che non era comunque il massimo per l’occasione, provando l’ebbrezza di una velocità  folle con la scusa di arrivare in tempo. Al ritorno, feci una strada provinciale: provando una ripresa, sbandai sulla ghiaia ai lati, andando a finire in mezzo ai tavoli di una trattoria imbandita per un matrimonio.

Per fortuna, senza danni per nessuno.

Una sera d’inverno, con Oreste, vedemmo prima Gian Giacomo e poi Carlo Saronio. Terminate le due riunioni, dovevamo prendere l’ultimo tram. Il biglietto costava 75 lire. Frugando nelle tasche, riuscimmo a mettere insieme 120 lire: non avevamo nemmeno i soldi per salire. Oreste mi guardò e disse: “Ti rendi conto? Siamo stati finora con due delle persone più ricche di Milano, forse d’Italia, e dobbiamo fare la colletta per il biglietto del tram. Ma non mi cambierei con nessuno dei due: sono troppo tristi”. Già , l’infelicità  di una ricchezza vissuta come un macigno da portare sulle spalle. E un prezzo pesantissimo da pagare, con una morte drammatica. Così diversi, così uguali.

Con i GAP il rapporto stava diventando sempre più intenso, forse troppo. Portammo dalla Svizzera gli apparecchi tedeschi che avrebbero permesso le trasmissioni di Radio GAP, una nuova, grande intuizione di Feltrinelli. Sei anni prima delle radio libere. Dieci anni prima di Silvio Berlusconi: per la rivoluzione, non per le proprie tasche. Diffondevamo i volantini degli attacchi ai cantieri del lavoro nero. Poi Gian Giacomo mi chiese di portar fuori due fucili mitragliatori. A questi livelli non potevo più ragionare con il Cinto. Sicuramente un amico, ma non potevo coinvolgerlo in queste storie.

In quel periodo avevo conosciuto un personaggio interessante, Silvano: frequentava lo PSIUP, ma non perdeva occasione per chiedermi di rendersi attivo. In quel periodo càera un silenzio che parlava.

Nella sua vita aveva fatto, in modo molto personale e riservato, il contrabbandiere. Poi aveva aperto uno studio di disegni per tessuti. Silvano, che da allora sarebbe diventato Siro, conosceva una precisione maniacale. Acquistò, e fece acquistare ad altri compagni, la NSU Prinz (con me non ci riuscì, era troppo brutta), funzionale ai nostri scopi. Smontando i fanali posteriori, ci stava un fucile.

Ma non un M16. Erano i fucili mitragliatori usati dagli americani in Vietnam: troppo lunghi, e non riuscivamo a smontarli. Alla fine, facemmo l’unica cosa che non andava fatta. Uscire con i due M16 sotto il sedile. Ci andò bene. Non potevamo deludere Gian Giacomo, che ci aspettava in viale Sarca, a Milano. Arrivammo disinvolti: il sudore del passaggio ce lo eravamo tolto lungo la strada.

Nell’estate del 1971 andammo a Saint Vincent: prima un gruppo di romani, poi noi di Milano. Gian Giacomo ci aveva affidato un’inchiesta per studiare la possibilità  di una rapina al Casinò. Ai romani toccò ovviamente la ricognizione interna, con divertimento annesso; a noi quella esterna con levatacce prima dell’alba e ore e ore passate con i binocoli su una collina per cogliere i momenti di passaggio del denaro. Capimmo tempi e modi dei movimenti, preparai una relazione dettagliata. Al ritorno a Milano dopo l’estate, incontrai di nuovo Gian Giacomo. Venne all’appuntamento con due libri sui Tupamaros, il gruppo guerrigliero uruguagio, e una bottiglia di grande rum cubano. Apprezzò la meticolosità  della relazione (compreso il rendiconto delle spese), mostrando scetticismo sulla fattibilità  dell’azione. Ma questo si sapeva anche prima: la valle d’Aosta ha una sola entrata e una sola uscita. Come sempre in questi casi, il problema è la via di fuga. Ebbi netta l’impressione che ci aveva solo voluto sperimentare.

Quella sera andammo avanti a parlare (e a bere rum) fino a notte inoltrata: Gian Giacomo mi raccontò della sua vita, dei suoi desideri, dei suoi affetti, delle sue speranze. Eà il ricordo più bello che ho di lui.

In autunno ci fu anche il convegno nazionale di Potere Operaio a Roma, che definì in modo esagerato e ridondante il tema dell’insurrezione. Fu una battaglia contro la destra di Potere Operaio, gli operaisti classici, messi in netta minoranza. Ma profetici; sia chi se ne andò: Franco Piro disse che saremmo diventati clandestini alle masse e noti alla polizia; sia chi non se ne andò: Alberto Magnaghi ci prospettò un futuro di galera. Cosa che sarebbe toccata anche a lui, nonostante fosse il più innocente di tutti, sempre impegnato a combattere ogni forma di militarizzazione della politica. Potenza dei pentiti e dei loro burattinai.

Quando lo trovai in carcere, mi venne spontanea la battuta : “Ma tu che cosa ci fai qui?”.

Noi, nel 1971, eravamo già  oltre. Ogni intervento di minoranza veniva sommerso dal grido “Tupa, tupa, tupa, Tupamaros”. Al di là  del folclore, nei sotterranei del convegno, venne formalizzata la nascita di Lavoro Illegale. Segretario nazionale di Potere Operaio venne eletto (più che eletto, proclamato) Franco Piperno. A capo di Lavoro Illegale venne messo ovviamente Valerio Morucci. I romani avevano quindi in mano tutta l’organizzazione. E questo a Toni e ai veneti non poteva piacere più di tanto. In particolare, cominciò quasi subito ad andare in fibrillazione la sede di Milano, dove erano presenti Scalzone e il nostro gruppo allineato con la segreteria nazionale da una parte e Toni Negri e un gruppo di rete operaia e di militanti padovani dall’altra.

A Siro e a me venne affidato il compito di costruire LI sull’asse Milano-Como-Svizzera. La rete dei compagni svizzeri, fino ad allora più che altro tifosi delle lotte in Italia, assunse un valore importante, per il reperimento e il passaggio delle armi e l’accoglienza dei ricercati.

Ma all’inizio facemmo da soli.

Nel principato del Liechtenstein le armi di tutti i tipi e, posto unico in Europa, anche pistole e revolver, erano in libera vendita. All’ingresso di Vaduz, un cartello con la scritta “Waffen und munitionen” e un’armeria accoglievano strani turisti: arrivavano tutti i brutti ceffi d’Europa, soprattutto il sabato. Noi andavamo ovviamente in altri giorni. La prima volta, a bordo di due NSU Prinz. C’era anche Valerio: comprammo delle Walther Ppk. La vendita era libera, ma solo per un’arma a testa al giorno e dietro presentazione di un documento di identità .

Ovviamente falso.

Le carte di identità  che avevamo erano di due tipi: rubate o comprate alla Bersagliera, un’osteria in piazza Tirana a Milano, al Giambellino. La Bersagliera era frequentata dai compagni del Luglio à60, un consistente gruppo di quartiere uscito dal PCI su posizioni decisamente di sinistra, ma anche da altri personaggi interessanti. Una Milano trasversale in cui convivevano senza problemi compagni, vecchi pensionati, giovani estremisti, giocatori di bocce, giocatori di dadi, malavita di popolo. Proprio come il Cerutti Gino di Giorgio Gaber. Uno che stazionava sempre lì, quando non stava a San Vittore, veniva chiamato il “Bumba”: vendeva di tutto, con un prezziario fisso e, a suo modo, onesto. Cinquantamila lire per una carta di identità  (ma duecentomila per dieci), un milione per un passaporto, centomila lire per un motorino senza libretto, centocinquantamila per un motorino con libretto. Tutte cose che a noi interessavano. Ma ci volevano soldi. E un conto era fare la rivoluzione, un conto diventare dei ladri. Quella fu la prima linea di discrimine tra chi riusciva a forzare il proprio super-io, e chi si fermava sulla soglia. Molti compagni del servizio d’ordine si arrestarono lì, senza passare a LI. Dopo, a lavarci le coscienze, in molti abbiamo detto che da un certo punto in avanti la lotta armata è stata una scelta obbligata.

No, è sempre stata, sin dagli inizi, una libera scelta: semplicemente càè chi si è fermato dopo una molotov, e chi non si è fermato neanche con in mano un bazooka.

Trovammo i nuovi compagni per il Lavoro Illegale: alcuni ex studenti di un Istituto tecnico industriale di Como, alcuni operai incazzati, tre compagne, un giovane ladro anarchico. Che ci insegnò i trucchi del mestiere, dall’uso degli spadini al modo per entrare nelle ville abbandonate. Eravamo in piena fase di addestramento. A sparare andavamo in una miniera abbandonata in Val di Scalve, nella Bergamasca, in Valsassina, in una grotta sopra Tremezzo.

A dire come erano i tempi, quando in fila indiana salivamo in quella grotta, i ragazzi del posto che incontravamo ci schiacciavano l’occhio complici. A mantenere i rapporti con il centro, io e Siro. In particolare, gestivo carte di identità  e patenti: negli anni successivi, sarebbero emigrate anche verso la RAF e l’ETA.

Una volta mi trovai di fronte a una ben strana richiesta: Oreste voleva una patente falsa, ma suo nome. Ero molto avaro nell’erogazione, ma quando Oreste si fissava su una cosa, diventava difficile non accontentarlo. Anche perché si faceva ossessivo. Cedetti quindi alle sue insistenze. Dopo un poà di tempo venne fermato dai vigili perché, naturalmente, era passato a un semaforo rosso. I vigili si insospettirono: Oreste ha sempre portato degli occhiali da piccola talpa, e sulla patente non risultava l’obbligo di lenti durante la guida. Semplicemente, mi ero dimenticato di mettere quel timbro. Fermato, venne processato e rilasciato. Non avevano mai visto nessuno con una patente falsa a suo nome. La cosa sembrava demenziale. Sembrava, perché Scalzone avrebbe dovuto presentarsi una decina di volte all’esame per la patente e non l’aveva mai fatto.

Non poteva più raccontare bugie in famiglia.

In quel periodo ci imbattemmo anche in due grane politiche, una fastidiosa e una piuttosto grave. Quella fastidiosa riguardava la sede di Como. Con oltre cento militanti, era una sede grossa, relativamente alle dimensioni della città . Aveva diritto quindi a un segretario di sezione. Alcuni compagni della “destra” storica candidarono uno di loro, con l’idea di metterci sotto controllo: non amavano i nostri strani movimenti e non sapevano che erano legittimati dall’alto. A quel punto, consapevole comunque di avere la maggioranza con me, proposi come candidato un compagno che proveniva dal vecchio gruppo operaista, ma che ci guardava con simpatia. Cesare venne quindi eletto, e non ci chiese mai nulla. Soprattutto da dove venissero i soldi per pagare l’affitto della sede. Però, da uomo navigato comàera, con noi si divertiva.

La seconda grana era decisamente più insidiosa. I nostri rapporti con i GAP, e in particolare con Gian Giacomo, diventarono sempre più stretti e intensi, al punto che anche noi non capivamo più bene se eravamo militanti di LI, dei GAP, o di una federazione tra le due strutture. A Milano, nella zona di Porta Romana, provammo una trasmissione di radio GAP, vista in pochi isolati per un difetto dell’antenna montata su una macchina che girava per il quartiere. Il telegiornale veniva interrotto dal suono dell’Internazionale e poi dalla voce di una nostra compagna che raccontava degli atti di sabotaggio contro il lavoro nero condotti dalla brigata Valentino Canossi, un operaio morto in cantiere in un incidente sul lavoro.

Rispetto alle nostre prime timide azioni di esproprio, Gian Giacomo si mostrava critico, preferendo dare un piccolo salario ad alcuni di noi; anche questo, oltre all’ospitalità  in alcune sue basi, finiva per caratterizzarci come militanti dei GAP.

Un giorno decise di mandare Siro a Praga. Doveva presentarsi al consolato cecoslovacco di Zurigo con un passaporto falso per il visto: poi sarebbe andato in aereo nella capitale cecoslovacca, dove un compagno lo avrebbe accolto per discutere di una fornitura di armi. Siro, oltre a essere meticoloso, era anche molto sospettoso. Aveva esaminato il passaporto a lungo, senza trovare nulla di strano; non solo, al passaggio di frontiera, lo mostrò ai doganieri svizzeri: anche loro non obiettarono nulla. Il passaporto sembrava proprio privo di difetti. Sembrava. Perché al consolato ceco gli fecero notare che era falso. Non aggiunsero altro e lo lasciarono andare, ma non gli misero il visto. Questo a dire che i rapporti con i Paesi dell’Est erano molto più deboli e fragili dei ricami che vi sono stati costruiti sopra. E, molto probabilmente, di tipo informale. Al ritorno di Siro, Gian Giacomo abbozzò, dicendo che la cosa era solo rinviata. Ma non se ne fece più nulla.

Questi, e altri episodi, portarono il compagno Saetta a rispondere con una dura lettera di chiarificazione su chi era militante di chi a Gian Giacomo, che gli aveva scritto proponendo un’unità  su tutti i fronti tra le due organizzazioni.

Le cose continuarono come prima.

Il 12 dicembre 1971 a Milano doveva essere una giornata tosta. La sede di PO di Milano intendeva radicalizzare le forme di lotta metropolitana, in accordo con altri gruppi della sinistra extraparlamentare. Guerriglia voleva dire allora l’uso di bottiglie incendiarie, di tante molotov: l’ordine era di prepararne 250, più un certo numero di Lilly, le molotov a tempo da disseminare sotto le auto del nemico. I nuclei di Lavoro Illegale dovevano chiamarsi fuori, tenersi al riparo: movimento clandestino e movimento di massa cominciavano a separarsi. Me ne andai quindi qualche giorno sul lago. Ma il 10 dicembre mi chiamarono per dirmi di rientrare. A Milano non c’era nessuno dei nostri capace di costruire le molotov a innesco chimico. Questa fu la giustificazione ufficiale. Non ho mai capito se fosse vera o una versione di copertura a un dissidio interno che cominciava a prendere corpo: la linea di Toni e dei padovani che si muoveva verso la guerriglia diffusa a bassa intensità  contro la linea di Piperno, Scalzone e dei romani che si era formalizzata nel doppio livello di partito, quello politico e quello militare. Io ero ormai saldamente dentro il livello militare, ma quella volta venni messo in mezzo. E Franco, dopo, si incazzò di brutto.

Scesi a Milano con quattro compagni del servizio d’ordine. Ci fermammo in una farmacia industriale a comprare una damigiana di acido solforico, dieci taniche di benzina a un distributore, una ventina di chili di zucchero e uno scaffale di barattoli di diserbante in un consorzio agrario. Il furgone su cui viaggiavamo era diventato una specie di autobomba, fortunatamente senza innesco. Prima di salire nell’appartamento che ci era stato messo a disposizione in via Galilei, dovevamo fare l’ultima sosta per l’acquisto meno amato.

I preservativi.

Provavamo tutti una maledetta vergogna, anche perché avevamo deciso di acquistarne uno stock consistente, da conservare per azioni future. Una brutta figura, pur corposa, era pur sempre meglio di dieci brutte figure, sia pure minori.

L’innesco delle molotov chimiche sta nell’incontro tra la miscela di clorato (contenuto nel diserbante) e zucchero da una parte e l’acido dall’altra, che dà  fuoco alla benzina; ma, nel caso delle Lilly, è necessario che l’acido solforico, racchiuso in un preservativo, abbia alcuni minuti per corroderlo prima di incontrare il clorato e lo zucchero.

Dopo una lunga discussione in cui ognuno di noi aveva accampato dei validi motivi per sottrarsi al compito, toccò a me entrare in una farmacia del centro di Milano. “Sei tu il capo”, fu la bieca giustificazione. La farmacia era piena di gente, mi lasciai gentilmente superare anche da chi era arrivato dopo di me. Probabilmente sarei rimasto fino alla chiusura: fu il farmacista, forse preoccupato, a chiedermi che cosa volevo. Con un tono di voce bassissimo e tra alcuni mugugni, mi uscì un confuso: “Vorrei cento preservativi”. “Cosa?”, disse il farmacista tra il sordo e l’incredulo. Al che, come scosso da un riflesso condizionato, dissi veloce, ma forte: “Sì, cento preservativi”. “La madonna, vuole scopare tutta Milano?” fu l’inevitabile battuta del farmacista. La gente rise di gusto. Completamente disorientato, aggravai la situazione con un demenziale: “Mica mi servono per scopare”. “E allora scusi, per fare che cosa, le bolle?”. “Sì, mi servono per fare le bolle”, risposi incazzato. Pagai e uscii.

Inutile dire che da allora non ho più acquistato un preservativo, e non perché quelli ci sono avanzati.

Lavorammo come matti tutto il giorno, respirando benzina a pieni polmoni. A darci una mano era arrivato un compagno di Roma. Per le sei di sera, era sabato 11 dicembre, tutto doveva trovarsi pronto per essere caricato sulle macchine dei compagni che arrivavano da fuori Milano. La manifestazione infatti era nazionale. Alle otto di sera non si era visto ancora nessuno. Sintonizzati sulle radio della polizia, sapevamo che i controlli all’uscita dell’autostrada si stavano rivelando lunghi e minuziosi. Ma più passava il tempo, più il trasbordo diventava un azzardo e noi nervosi: se qualcuno ti vedeva caricare degli scatoloni in piena notte, non pensava a un trasloco, ma a dei ladri. A un certo punto mi passò per la testa di rinviare tutto alla mattina, ma la zona attorno a piazzale Loreto, da dove doveva partire la manifestazione, sarebbe già  stata piena di carabinieri e poliziotti. Si aspettavano il casino.

I compagni arrivarono a mezzanotte. Dopo averli riforniti, uscii per ultimo dall’appartamento con uno del gruppo di Como per spostare una macchina già  carica di bottiglie. Mentre scendevamo le scale, un nugolo di poliziotti, salendo di corsa, quasi ci travolse. Incredibilmente, non ci fermarono. D’accordo, avevamo tutti e due l’aria da bravi ragazzi e cercammo di mantenerci calmi. Appena in strada, vedemmo dei compagni che scappavano. Spostai la macchina; poi, con l’altro compagno, andammo in sede. Nella notte ci fu una riunione piuttosto burrascosa, gli avvocati sostenevano che gli arrestati rischiavano di rimanere in galera vent’anni. Nell’appartamento, oltre ai nostri, c’erano due o tre persone che avevano come unica colpa di essere amici del padrone di casa. Tutti davano per scontato che se la sarebbero cantata, per cui ci fu imposto di darci alla latitanza. Invece quei ragazzi si comportarono in modo esemplare: nessuno di loro disse nulla. E, dopo due mesi, uscirono tutti.

Ma qualche traccia di me in giro era rimasta. Vicino alla casa avevano trovato la mia macchina: non potevo spostarne due, avevo preso quella più pericolosa. Sulla mia non c’era nulla, tranne qualche innocente volantino di Potere Operaio. Per cui fui inquisito. E prosciolto. Ma anche un poà bruciato. Noi del Lavoro Illegale avremmo dovuto mimetizzarci, non esporci.

Riparai in Svizzera per qualche settimana. Vennero i compagni a trovarmi. Un giorno arrivò Gian Giacomo. Non era incazzato, ma non aveva gradito. Mi portò, come regalo di Natale, il Manuale del piccolo chimico. “Così avrai la possibilità  di esercitarti”: una palese presa per il culo. Decidemmo di comune accordo che, al ritorno in Italia, avrei continuato per qualche mese a occuparmi di servizi d’ordine, anche per vedere in azione dei compagni in grado di passare al lavoro coperto, attivandomi però in una inchiesta che avrebbe dovuto portare al sequestro di un dirigente di fabbrica. Una volta rientrato, ripresi a essere attivo. Anche se, per precauzione, dormivo un poà qui e un po’ là , salvo la sera settimanale dell’incontro con Gian Giacomo: allora tornavo in via Buschi. Il personaggio da sequestrare era un alto dirigente dell’Autobianchi di Desio, una fabbrica in cui all’epoca un consistente numero di operai agiva scioperi a gatto selvaggio contro le ristrutturazioni in atto e dove avevamo un intervento aperto; cominciammo a progettare inoltre delle azioni di sabotaggio all’Alfa Romeo, dove pure erano in corso delle lotte autonome. Furono portate a termine due azioni di sabotaggio all’Alfa, con il sigillo dei binari per i treni in uscita e l’incendio di alcune auto in partenza per i mercati. La logica appariva ineccepibile nella sua semplicità : se càè un problema di sovrapproduzione, basta distruggere il prodotto finito.

Il feticcio della merce, come avrebbe detto quel vecchio neoluddista di Gianfranco Faina.

Il sequestro invece richiedeva un’organizzazione più complessa. Gian Giacomo acquistò un pulmino Volkswagen da attrezzare come piccola casa viaggiante: non esistevano ancora i camper. Ma doveva avere anche un doppiofondo che consentisse di trasportare un uomo rannicchiato su se stesso. Con Siro, portammo il pulmino in una carrozzeria vicino a Como che trasformava le macchine per i contrabbandieri: fecero un buon lavoro. Nessuna modifica visibile, ma un lavoro di fino, che portò come unica conseguenza una forte diminuzione delle capacità  del serbatoio: bisognava continuamente fare benzina. Strano che nessuno, dopo, se ne sia mai accorto. Il pulmino era quello abbandonato a Segrate dopo la morte di Gian Giacomo. I due compagni che lo avevano accompagnato lasciarono lì non solo il pulmino, ma anche ogni idea futura di lotta armata: l’esplosione era stata devastante anche per loro.

Le carte ritrovate portarono tuttavia all’identificazione di parte della struttura. Incredibilmente, Carlo Fioroni aveva stipulato il contratto di assicurazione attraverso un suo collega di lavoro. Il bollo invece, risultò pagato alle Poste di Como: il lavoro di modifica in carrozzeria aveva richiesto più tempo del previsto, per cui, al momento del ritiro, il bollo risultava scaduto. Ma chi aveva compilato il modulo aveva firmato con un nome falso. Per cui le indagini finirono lì.

Il tardo inverno del 1972 fu particolarmente movimentato. Le Brigate Rosse fecero il primo sequestro volante, quello del dirigente della Sit Siemens Hidalgo Macchiarini. L’11 marzo ci fu la manifestazione per la quale, oltre dieci anni dopo, venni condannato al processo 7 aprile. Quel giorno Giorgio Almirante venne a parlare a Milano in Largo Cairoli e, a tutta la sinistra extraparlamentare, parve una provocazione. Ormai era diventato fin troppo chiaro il coinvolgimento dei neofascisti, anche se non quelli ufficiali del MSI, nella strage di Piazza Fontana.

Per cui decidemmo di attaccare il comizio. Ma, dato che per noi l’antifascismo militante era una battaglia necessaria ma di retroguardia, mettemmo in agenda anche un assalto con le molotov al Corriere della Sera, che, sotto la direzione di Spadolini, aveva assunto una posizione particolarmente favorevole alla repressione delle lotte, e a una concessionaria della Renault come azione di protesta contro l’uccisione di un operaio, Pierre Overnay, a opera di un guardiano della fabbrica. A evitare la ripetizione dell’11 dicembre, ciascuno dei militanti del servizio d’ordine (una cinquantina) arrivò alla manifestazione con almeno due bottiglie addosso: da responsabile, ed esagerato, ne avevo quattro. Due compagni vestiti elegantemente, muovendosi per la città  in taxi, avrebbero dovuto portarci altre due borse durante il percorso, ma non ci riuscirono. Ci attardammo negli scontri con la polizia in via Cusani: Oreste, che si era fatto prendere dalla situazione, voleva rimanere lì. Io, temendo una manovra a tenaglia della polizia, volevo invece portare a termine il programma. Gli dovetti dare uno schiaffo, e finalmente ubbidì. Era il mio capo politico, ma quel giorno la responsabilità  toccava a me. Andammo verso via Solferino, seguiti dal servizio d’ordine di Lotta Continua. C’erano rimaste poche bottiglie. Le tirammo, salvo una, contro il Corriere, dove i poliziotti di guardia erano scappati. Il giorno dopo, quando vidi le foto impressionanti della facciata del giornale in fiamme, fui attraversato da un sentimento ambivalente: di orgoglio e di disgusto. Volevamo più libertà , ma allo stesso tempo volevamo distruggere quella degli altri. Sensazione di un attimo, perché allora non càera tempo per ragionamenti che potevano apparire chiacchiere da sofisti. Andammo quindi alla Renault dove, non so per quale ragione, càera in esposizione una Ferrari. Con Mimmo, ci litigammo l’ultima molotov.

A quel punto, insieme ai dirigenti di piazza di LC, prendemmo una decisione avventata: rientrare verso Largo Cairoli, per continuare a partecipare agli scontri. Arrivati in piazza San Simpliciano, rimanemmo imbottigliati. Chi di bottiglia ferisce…

C’era una sola possibilità  per uscire dalla morsa: sfondare con una controcarica il gruppo di celerini che aveva occupato la piazza sul lato di corso Garibaldi. Non avevamo però idea di quanti fossero. Una buona parte di quelli di Lotta Continua cominciò a sperare in Dio. In senso letterale. Entrarono in chiesa, convinti che fosse un luogo inviolabile come nel Medio Evo. Li arrestarono tutti.

Noi, mossi dalla forza della disperazione, ci avventammo contro il cordone dei poliziotti che, colti di sorpresa, aprirono un varco. In corso Garibaldi c’era il cantiere del Teatro Fossati in lenta ristrutturazione: lo attraversammo, arrivando in via Legnano. Completamente sgombra.

Nessuno dei nostri era stato preso.

Prima di scioglierci ci trovammo in un giardinetto, vicino alla FIAT di Corso Sempione. Giunsero anche i due compagni che avevano cercato di riunirsi a noi per tutto il pomeriggio, con una borsa di molotov residue. La tentazione era forte, la FIAT era lì, a due passi. Ma la giornata era finita. Con un morto, Giuseppe Tavecchio, un pensionato ucciso da un candelotto lacrimogeno della polizia, decine di feriti, centinaia di arresti. Per noi era stata comunque una grande giornata di lotta.

Presi la borsa e, con alcuni compagni, tornai a Como. Nel tragitto, rovesciammo il contenuto delle bottiglie in una roggia. Tanto non avremmo aumentato l’inquinamento: di pesci non ce n’erano già  più da un pezzo. Arrivati in città , andammo in trattoria, al Gerbett, finalmente rilassati. Tutto sembrava a posto: avevamo portato a termine il programma di lotta della giornata, nessuno di noi era stato preso, i compagni che avevo contattato per LI si erano mossi decisamente bene, in assoluta sintonia.

Mi rimaneva il dubbio sulla fine della seconda borsa, ma il ragazzo che se l’era scarrozzata per mezza Milano, mi aveva assicurato di averla svuotata in un canale. Invece.

Invece l’aveva portata a casa di due compagni ignari del contenuto. Voleva, con altri, utilizzare le bottiglie il giorno dopo contro alcune sedi del MSI. In completa e sconsiderata autonomia.

Sembra strano, ma allora c’era la corsa per entrare nelle strutture di Lavoro Illegale. I loro adepti apparivano ad altri giovani militanti come una élite. E questo scatenava tentativi di emulazione. A Roma questa inquieta, a volte inquietante, dinamica portò al dramma della famiglia Mattei, con due fratelli morti nell’incendio appiccato al loro appartamento da un piccolo gruppo di apprendisti stregoni. A Milano non fu una tragedia, ma saltò per aria un appartamento, a causa di una crepa in una bottiglia. E due persone senza alcuna colpa finirono in carcere. Certo, gli apprendisti impropri ci avevano messo del loro, in termini di stupidità  e di avventurismo: ma loro erano i drogati. E noi i pusher. Perché noi eravamo comunque contenti dell’ampiezza della domanda.

Nei giorni immediatamente successivi all’11 marzo si sparse la voce dell’emissione di numerosi mandati di cattura nei confronti di esponenti della sinistra extraparlamentare. Per Potere Operaio si parlava a mezza voce di Oreste e di me.

Andammo, per modo di dire, latitanti.

Stavamo in una casa in via Solferino, a cento metri dalla casa di Oreste. Il mattino del 16 marzo uscimmo a prendere il giornale. Il “Corriere della Sera” titolava su un terrorista trovato morto accanto a un traliccio. Accanto, una foto un po’ sbiadita da carta di identità , con il nome di Vincenzo Maggioni.

Ci voltammo, girando l’angolo senza dire una parola. Appena dentro casa, cominciammo a piangere un pianto di dolore e spaesamento. Non potevano esserci dubbi: era Gian Giacomo.

Senza di lui, niente sarebbe rimasto uguale.

Ma, da quasi subito, dovevamo muoverci. Prima di tutto per capire cosa fosse realmente successo, anche se sapevamo che era in azione. Poi per tenere botta. Poi per rivendicare l’identità  rivoluzionaria del compagno Osvaldo. Poi, per contrastare i soliti avvoltoi che già  gridavano al complotto. Infine, per valutare le ripercussioni che potevano esserci su di noi. Ma questo era proprio l’ultimo dei nostri pensieri.

Facemmo tutto con una fretta frenetica. Trovammo subito alcuni compagni dei GAP e delle BR, che confermarono l’accaduto nei termini in cui l’avevamo pensato. Un maledetto timer difettoso. I due compagni con lui nell’azione erano rimasti uno ferito e l’altro stordito dall’esplosione: poi erano riusciti, prendendo un mezzo pubblico, a raggiungere una base e a farsi curare.

Il loro trauma fu irreversibile: era stata la loro prima, ma anche ultima azione. Assolutamente comprensibile.

La loro mancata identificazione ha fatto girare per molti anni molte voci sulla loro identità . Una di queste, raccolta nel tempo dagli investigatori, era arrivata con una certa insistenza ad attribuire la presenza sotto il traliccio di Segrate a me e a Enzo Fontana. Quando, quasi otto anni dopo sono stato arrestato, mi hanno chiesto se avessi una cicatrice su una coscia: non contenti della mia risposta negativa, hanno voluto vedere le mie gambe.

Con i nostri compagni decidemmo di rimanere uniti e di partecipare al funerale. Ci presentammo in una cinquantina davanti al cimitero Monumentale, con le bandiere di Potere Operaio. Il vicequestore Vittoria ci chiamò per nome, dicendoci che non era possibile entrare nel cimitero con le bandiere. Non avevamo mai trattato con lui, a differenza di molti altri gruppi della sinistra extraparlamentare. Ma ci conosceva tutti. La polizia sapeva allo stesso tempo di più e di meno di quanto noi immaginavamo. Lasciammo fuori le bandiere, ma ne lacerammo alcune per fare dei nastri rossi da metterci al braccio in segno di lutto: una volta dentro, li deponemmo sulla bara, a comporre di nuovo una bandiera rossa. Poi, la decisione politica. Volai a Roma, da Franco Piperno, e il giornale “Potere Operaio”, non senza alcuni contrasti interni, uscì con il titolo “Un rivoluzionario è caduto”, a rivendicare la figura e il ruolo di Gian Giacomo. Per il suo onore. Per il nostro impegno. Per la verità . E contro quella sinistra per bene e forcaiola, ancora oggi viva e vegeta, che ha sempre pescato con voluttà  nel torbido.

Le ripercussioni ci furono quasi subito, anche se limitate.

Individuarono Carlo Fioroni per via dell’assicurazione del pulmino. Ma si fermarono lì. Anche se si verificò qualche strano episodio. Ad esempio, la pubblicazione sul Corriere della foto di Oreste Scalzone con la didascalia Carlo Fioroni. Errore? Avvertimento? Di certo, al Corriere lavorava allora un noto agente del SID, Giorgio Zicari. Contro Fioroni, dopo un interrogatorio che lui aveva giudicato positivamente, venne emesso un mandato di cattura. Riuscimmo per un pelo a farlo espatriare, portandolo a Losanna, dove rimase alcuni mesi. Così, almeno in quel periodo, non fece altri disastri.

Ma dovevamo fare i conti con la quotidianità . Gian Giacomo non era solo un uomo affascinante, era anche una persona che dava sicurezza, in tutti i sensi. Quando occorreva qualcosa, non c’era problema di soldi. Adesso invece c’era anche un problema di soldi. E la rivoluzione, come la politica, ne ha un maledetto bisogno.

Avevamo ancora qualcosa, molto poco, ricavato dal furto di alcune opere d’arte di scarso valore. Qualcosa d’altro uscì dal recupero di parte della cifra che Fioroni aveva anticipato per l’acquisto di un altro pulmino: li usammo per acquistare armi in Svizzera. Venne Valerio, e ovviamente ne portò la maggior parte a Roma.

A quel punto ci trovammo con un latitante da mantenere, due altri ricercati dei GAP che non avevano voluto farsi colonizzare dalle BR, e qualche affitto da pagare. Dovevamo darci una mossa.

Siro, che aveva dei contatti con dei mercanti d’arte, studiò un colpo alla villa di Guttuso a Velate, sulle colline di Varese. A svolgere l’inchiesta mandammo una compagna, carina e disinvolta, che chiese al custode di poter vedere le opere del maestro, di cui era una grande ammiratrice. Dopo alcune resistenze, il custode la portò all’interno della villa, dove, alle pareti, c’erano numerosi quadri. Il maestro in quel periodo non c’era, quindi in teoria la villa era vuota, perché il custode abitava con la famiglia nella portineria d’ingresso. Si trattava soltanto di non entrare da quella parte. Ma, per arrivare dal retro, dovevamo attraversare i parchi di alcune altre ville. Per scendere dal muro, piuttosto alto, usammo una scaletta da alpinisti. Fuori, ci aspettavano Siro e una compagna.

Eravamo in tre, l’unico armato ero io, di una Walther Ppk. I due compagni entrarono con facilità , ormai ci eravamo fatti una certa esperienza nell’aprire le imposte e nel rompere i vetri senza fare rumore. Io dovevo controllare l’esterno. Il lavoro sarebbe durato quasi un’ora, perché i quadri andavano staccati dalle cornici e avvolti con delicatezza. Da una specie di oblò, vedevo ogni tanto le loro pile. D’improvviso, vidi accendersi le luci. Lì per lì pensai che i due compagni si fossero fatti prendere da un’eccessiva confidenza: invece vidi quasi subito un uomo con un fucile puntato verso l’alto, dove i compagni stavano lavorando. E li sentii saltare dalla finestra del primo piano. Per fortuna erano molto agili. Dovevo coprirli durante la fuga, per cui indietreggiai lentamente verso la scaletta, che loro risalirono velocemente. L’uomo intanto era uscito dalla casa con il fucile e me lo trovai di fronte. Alzai il cane della pistola e gli urlai di buttare lontano il fucile. Lo fece, per cui potei risalire anch’io la scaletta. Ce ne andammo di corsa. Su questo episodio, non è uscita una riga sui giornali dell’epoca. Forse per riservatezza, forse perché il fucile non era regolare.

A quel punto ci ritrovammo in braghe di tela: gli ultimi soldi li avevamo investiti nei mazzi di fiori che l’ammiratrice aveva portato per il maestro. E, intanto, avevamo con noi tre latitanti. Dopo una discussione durata alcuni giorni, decidemmo di assaltare una banca. La rapina a una banca ha qualcosa di politico in sé. Ma molto in sé. Bisogna prima vincere altri tabu, piccolo borghesi direbbe qualcuno, di buon senso direbbero altri. Ci aiutò l’idea che non avremmo comunque tenuto nulla per noi.

Dopo due settimane eravamo in banca. Con un piano ben studiato, soprattutto nella via di fuga. Prendemmo quasi venti milioni, una cifra all’epoca molto consistente. Ma non tutto filò liscio, neppure quella volta. Ci spararono addosso, mancando la macchina. Per fortuna, le Beretta 34 in dotazione alle forze di polizia non erano molto precise.

Potevamo respirare: alla sera, davanti ai soldi ammucchiati, ci sentivamo come bambini davanti al gioco di Monopoli. Ma non durarono molto: gli affitti, i latitanti, nuove armi, una piccola base acquistata, qualche finanziamento improprio al giornale: oblazione di amici. E di lì a qualche mese eravamo di nuovo in banca. In certi periodi le rapine diventano la principale attività  politica: vissi di nuovo un momento simile quasi dieci anni dopo, quando, dopo essere sciaguratamente entrati nelle BR a Milano, ci toccò mantenere una quarantina di latitanti che non avevano la minima idea di come si entrasse in una banca. Neanche per pagare un assegno.

Il 1973 è stato un anno molto bello sul piano personale, decisamente brutto sul piano politico.

Mi era capitato, nell’anno precedente, di sentirmi molto innamorato, per la prima volta nella mia vita. Alcuni compagni lo ritenevano impossibile, visto che sostenevano che io provavo un grande amore per il prossimo, ma non per le persone in carne e ossa. Per l’astratto e non per il concreto. Invece mi è anche capitato di voler bene a delle persone. Ci sposammo, a maggio nacque Chiara. La nuova vita, un po’ meno da zingaro, mi piaceva. Ma, oltre agli altri impegni, dovevo anche lavorare otto ore in fabbrica. I ritmi di vita rimanevano frenetici.

Sul piano politico, conoscemmo le prime ferite. Dopo la morte di Gian Giacomo, eravamo cresciuti, in tutti i sensi. In Lavoro Illegale post GAP a Como-Milano eravamo ormai una ventina a tempo pieno, con una rete amica di un centinaio di persone. Che cosa intendo per rete amica? Ad esempio, il fatto che tenessimo le riunioni con le BR (venivano Moretti e Franceschini) in una villa di Como, proprio sul lago. I padroni non c’erano mai: in compenso il custode era un nostro compagno.

Una volta tornato in Italia, se ne era andato anche Carlo Fioroni: lo avevamo mantenuto per mesi e, appena rientrato, decise di emigrare nel gruppo di Negri. Fortunatamente per noi, meno per loro. Con lui andò anche, stranamente, Carlo Saronio, e questo ci dispiacque molto.

I militanti si divisero in tre cellule: una diretta da me, un’altra da Mimmo e la terza, la più grossa e centrale, da Siro. Nei primi mesi del ’73 eravamo tutti operativi. La mia cellula doveva portare a termine alcuni attentati significativi a delle sedi fasciste a Milano, la cellula di Siro aveva in programma una rapina a un’armeria svizzera, quella di Mimmo a una banca.

Il primo a essere operativo era il mio gruppo. E ci andò bene per caso; o per fortuna. Mentre scendevamo dalla mia cinquecento per salire sulla macchina che ci serviva per l’azione, il compagno seduto dietro, dalla parte opposta al guidatore, mise il colpo in canna alla sua pistola. Ma, mentre riaccompagnava il cane, gli partì un colpo. Il proiettile forò la carrozzeria della macchina venti centimetri dietro il mio sedile: un’angolazione di mezzo centimetro diversa mi avrebbe trapassato la schiena. Un colpo di pistola dentro una 500 ha molti decibel. Rimanemmo storditi per un attimo, poi decidemmo di andare comunque in azione.

Il nucleo operativo di Siro fu preso per l’eccessiva meticolosità  e lo spirito civico di un cittadino svizzero. Gli svizzeri, salvo i pochi e generosi sovversivi, erano tutti dei poliziotti senza divisa. Una volta ero andato in un bosco di Mendrisio a recuperare un pacco di munizioni, che avevamo sotterrato in attesa del passaggio in Italia. Stavo lavorando di vanga, quando sentii un brivido freddo lungo la schiena. Il fucile di un solerte cacciatore mi chiese che cosa stavo facendo. “Sigarette”, dissi, sapendo che il cartone era avvolto da un involucro Marlboro. Convinto dall’etichetta se ne andò senza dire nulla. Gli svizzeri sono fatti così: basta sciogliergli i dubbi. Quando puoi.

Quella volta invece i compagni stavano cambiando le targhe italiane di una macchina rubata con delle targhe svizzere, ugualmente rubate. Una preoccupazione di troppo: le targhe svizzere davano meno nell’occhio. Invece il solito cittadino dei boschi li vide, e chiamò la polizia. I quattro compagni, tra cui Giorgio, furono arrestati. Se la cavarono con qualche mese, ma per il momento erano bruciati. Siro cominciò a vacillare: li aveva fregati quell’accorgimento di troppo, voluto da lui.

Poi successe la storia di Mimmo. In banca, accerchiato, lanciò una bomba depontenziata per farsi largo. Rimbalzando, scoppiò portandogli via un piede. Fu un dramma reale per i due compagni arrestati e uno psicodramma collettivo. In sede, a Como, si respirava un’aria pesantissima. Molti ci guardavano come appestati. In più, Potere Operaio ci mise del suo. Sapevamo che la separazione tra livello politico e livello militare imponeva a chi di noi veniva arrestato di dichiararsi prigioniero comune. E i due compagni lo fecero senza alcun problema, nonostante le campagne di stampa che parlavano di militanti di Potere Operaio. Avevamo addosso tutti: gli sbirri, i partiti, i giornali, i compagni che non capivano. Aspettavamo che Piperno, pur con i necessari distinguo, rivendicasse la loro appartenenza a Potere Operaio. Invece, dopo un arguto pistolotto sociologico, li definì come banditi.

Ci incazzammo di brutto, e ci caddero le braccia. Ci fu una chiarificazione a muso duro, in cui Franco ammise di aver esagerato per proteggere l’organizzazione, ma ormai la frittata era fatta.

Sullo sfondo c’era ormai Rosolina, il convegno della resa dei conti. Piperno venne a Como per il congresso di sezione. Nonostante le lacerazioni e le ferite, vincemmo di brutto. Il partito del doppio livello sembrava ancora vivo e vegeto. Contro l’azione di Toni Negri, che con il consueto forte acume e la notevole capacità  di agire in modo politicamente scorretto, stava lavorando alacremente per lo scioglimento di Potere Operaio nel nascente movimento dell’Autonomia, sarebbe stata necessaria una forte volontà  di rilancio. Che sarebbe stata comunque di breve respiro, perché era la logica del doppio livello a essere ormai superata dai fatti: da una parte si andava verso il partito armato, le BR, dall’altra verso il movimento dell’autonomia di classe e della violenza diffusa, che avrebbe poi generato dall’interno altre organizzazioni armate.

Ma era stata per quattro lunghi, intensi anni, la nostra vita, e non era facile rinunciare. Per cui il rancore nei confronti di Negri era in quel momento molto forte.

Ebbi netta l’impressione che Piperno fosse stanco, ormai rassegnato a perdere la battaglia. Per cui, quando mi chiese di partecipare, con alcuni compagni di LI, a Rosolina, dissi di no. Non volevo assistere alla morte di Potere Operaio.

Andammo avanti ancora per un poà con Oreste e il suo tentativo di coniugare il passato con il presente delle nuove realtà  che si muovevano sulla scena, a partire dai compagni che stavano uscendo da Lotta Continua.

Diventammo un gruppo autonomo da tutti. Anche se con dei legami più forti con chi avrebbe fondato Senza Tregua. Le BR ci fecero il filo per un po’, ma ci sentivamo lontani da loro, per cui mantenemmo un rapporto fatto solo di scambi logistici. Dopo l’arresto di Curcio e Franceschini perdemmo ogni rapporto.

In quel periodo venne a trovarmi un giorno Carlo Fioroni: voleva dirmi che Carlo Saronio era stato sequestrato dal SID. Argomentava questa sua tesi suggestiva con il fatto che nella base brigatista di Robbiano di Mediglia erano stati trovati dei riferimenti che potevano portare a lui. I brigatisti avevano una ben strana e cinica usanza: i nomi dei loro militanti li scrivevano in codice, quelli degli altri con il nome, e a volte anche il cognome, vero. Per mia fortuna, il nome Cecco corrispondeva anche a un compagno lodigiano su cui si appuntarono i sospetti. Il nome Carlo Saronio invece portava a un indirizzo preciso: la sua casa di Bogliasco, dove si erano tenute delle riunioni. Ma quello di Fioroni era solo un misero tentativo di depistaggio. Di lì a poco lo arrestarono in Svizzera, mentre cercava di cambiare una parte dei soldi del riscatto.

Alcuni compagni se ne andarono verso altri lidi meno pericolosi: Siro verso una forma di ricerca new age. Rimaneva il nucleo duro, di cui fui per un po’ di tempo il responsabile. Poi, verso la fine del 1975, come spesso capita nei piccoli gruppi in crisi, venni messo in discussione.

Me ne andai anch’io. A riflettere, a vedere gente, a fare cose. A godermi, almeno per un po’, mia figlia.

Sul piano politico, mi limitavo a frequentare il gruppo di Autonomia che si era costituito a Como, dove abitavo ormai stabilmente, a fare attività  sindacale di base a scuola (nel frattempo mi ero laureato e avevo cominciato a insegnare), a mantenere pochi, privilegiati rapporti di amicizia.

Avevo probabilmente bisogno di disintossicarmi. Ma la normale vita di un giovane di sinistra non faceva per me.

Con alcuni dei nuovi compagni mettemmo su un nuovo gruppo, prendemmo rapporti soprattutto con Prima Linea (dove c’era un amico a me molto caro, Sergio Segio) di cui diventammo una struttura logistica di servizio, in particolare per l’acquisto di armi in Svizzera. Ma anche alcune azioni.

Dopo l’epilogo del sequestro Moro, ci fu un nuovo fuggi fuggi verso il privato. Ero convinto, come molti ormai, che non càerano più prospettive, ma proprio per questo che bisognasse andare fino in fondo. Ristabilii i rapporti con i vecchi compagni rimasti: non era più tempo di fratture. Con Giorgio, decidemmo di aspettare l’uscita di Marietto e Vincenzo dal carcere francese (erano stati arrestati a Parigi con delle armi insieme a un esponente dell’OLP) per decidere di nuovo insieme cosa fare, soprattutto con chi sparare quelle che sapevamo essere le ultime cartucce.

Intanto però io fui arrestato per il processo 7 aprile, il 24 gennaio 1980. Molti gli indizi contro di me, secondo il pubblico ministero, sulle attività  recenti, ma non avevano in mano nulla. L’unica accusa concreta era decisamente antica, un passaggio del memoriale di Carlo Fioroni, in cui diceva che io avevo guidato gli scontri dell’11 marzo 1972 a Milano. Curiosa la scelta di Fioroni: aveva buttato addosso tutto il suo livore contro i negriani, mentre era andato molto soft con gli scalzoniani. In ogni caso, mi avvalsi della facoltà  di non rispondere. Mi tennero per qualche mese in carcere a Brescia in osservazione, poi mi spostarono negli speciali: Cuneo, Trani, G 7 di Rebibbia. Evidentemente l’osservazione aveva avuto un esito negativo. Ma continuavano a non avere in mano niente. A dicembre venni interrogato dal giudice istruttore Francesco Amato, che, in base all’inconsistenza degli elementi raccolti, non potè far altro che derubricare il capo d’accusa da organizzazione a partecipazione a banda armata. In carcere ormai da un anno, con la nuova formulazione del capo di accusa, ero ampiamente in credito di custodia cautelare. Per cui venni scarcerato.

Mi diedi subito latitante.

Dovevamo portare a termine l’impegno che ci eravamo presi dodici mesi prima. Sul tavolo, stavano due opzioni: entrare nelle BR (la colonna Walter Alasia di Milano), o costituire un gruppo sperimentato con i Nuclei di Sergio Segio, orientato in particolare a far evadere i compagni dal carcere. Una riedizione del “Mucchio selvaggio”. L’unico impegno era che, qualunque scelta avesse vinto, gli altri sarebbero rimasti: insieme avevamo cominciato, insieme dovevamo finire. Mario e Vincenzo erano nel frattempo usciti dalle prigioni francesi: decidemmo in nove. O meglio, decisero in otto. Una scelta sciagurata.

Io non partecipai alla riunione: dato il legame personale con Sergio, era a tutti evidente che avrei preferito la seconda soluzione. Finì quattro a quattro, con un compagno che per rompere un equilibrio senza vie di uscita, si spostò a favore della scelta brigatista. In particolare, fu Marietto a premere per questa decisione: negli oltre tre anni in cui era stato in carcere in Francia, non aveva sentito parlare che di Brigate Rosse.

Oggi Marietto si rimprovera quella scelta, e rimprovera a me l’astensione: esprimendomi, avrei fatto vincere l’altra opzione. Che oggi tutti riconosciamo sarebbe stata la più giusta e coerente con la nostra storia. Non c’entravamo niente con i leninisti-stalinisti.

Nelle BR trovammo subito un ambiente ostico e in difficoltà . Ci avevano promesso che ci avrebbero lasciato insieme, almeno il nucleo operativo, ma ci sparpagliarono nella varie brigate. Il potere ha sempre una sua logica: eravamo un gruppo efficiente e coeso, quindi pericoloso. Nella colonna milanese navigavano ormai tra i flutti molti latitanti: persone che, in buona parte, erano diventate clandestine per necessità  e non per scelta. Queste non avevano alcuna esperienza militare. Ma andavano sfamate. E nessuno dei compagni, neanche i dirigenti, neanche il gruppo di fuoco, aveva mai fatto una rapina. Erano sopravvissuti fino ad allora con la parte, destinata alla colonna milanese, dei soldi del sequestro dell’armatore Costa.

Per cui, ci trovammo in una situazione schizofrenica: dispersi nelle brigate, ma riuniti per rapinare banche. Senza poter parlare della vita delle situazioni in cui eravamo stati collocati. Ovviamente non andava così. Io avevo avuto qualche divieto aggiuntivo: non frequentare Segio, non vedere mia moglie e mia figlia, non andare alle partite dell’Inter. Ovviamente, facevo tutte e tre queste cose. Con molta cautela la seconda e la terza, in maniera smaccata la prima.

Nelle BR comunque ho conosciuto anche qualche bella persona. In particolare una, decisamente sopra la media per spessore umano e politico: Aurora, la comandante di colonna. Guarda caso, proveniva da Potere Operaio.

Quando, nel 1982, mi ripresero, ero decisamente stanco.

Mi dichiarai prigioniero politico, mi portarono a Fossombrone. La cosa mi rallegrò, perché sapevo che Sergio stava lavorando a un’ipotesi di liberazione da quel carcere e che il mio arrivo lì avrebbe accelerato la sua decisione. Infatti, fu così. Solo che il piano venne scoperto per la delazione del solito brigatista arrestato. Fui portato a Nuoro. Lì, tutti mi sembravano matti: guardie e detenuti. Cercai di sopravvivere con l’unica arma che avevo a disposizione: l’ironia. Fortunatamente non era capita dalle guardie, il che non mi stupiva, ma neanche dai detenuti. Mi guardavano come se fossero davanti alle battute surreali di Cochi e Renato.

Di lì a qualche mese mi trasferirono a Roma, per il processo 7 aprile. Mi misero di nuovo al G 7: in gabbia stavo con Rossano Cochis, della banda Vallanzasca, finito in quel processo per caso, e Silvana Marelli, una compagna che conoscevo dagli inizi di Potere Operaio, capace di un sarcasmo dolce e devastante. Eravamo considerati degli irriducibili, quindi ci tenevano separati dagli altri. Sì, cercavo di essere irriducibile, ma alla stupidità . Con gli altri coimputati, anche con quelli con cui non mi vedevo da più di dieci anni, i rapporti erano buoni. Avevamo fatto parte della stessa famiglia, anche se ci trovavamo su posizioni diverse. In particolare mi trovavo bene con Egidio Monferdin, Lauso Zagato e Oreste Strano, con cui càerano maggiori affinità . E con persone che trovavo molto simpatiche, come Franco Tommei e Paolo Virno. Ma anche con Toni i rapporti erano stati ampiamente ricuciti.

Un giorno mi arrivò una fibbia, in gergo carcerario l’ordine di uccidere qualcuno. Secondo i matti, e i matti in corsivo erano quelli del partito guerriglia che, alleandosi con la Nuova Camorra, avevano istituito un clima di terrore nelle carceri speciali, avrei dovuto compiere il grande gesto rivoluzionario di uccidere Toni Negri, capo dei controrivoluzionari della dissociazione. Rispedii la fibbia al mittente, e da quel giorno non ne volli più sapere. Pur rimanendo alla sezione speciale, chiesi di andare in cella con Rossano e altri detenuti comuni con cui almeno giocavo a scopa e a pallone, invece di passare il tempo a mandare al macero il cervello.

Mi interessava preparare il processo di Milano alla Walter Alasia. Avevo una fitta corrispondenza con alcuni compagni, in particolare con Aurora. Decidemmo la strategia: né irriducibilismo d’accatto, né dissociazione, nel tentativo di portare su una terza via di soluzione politica, attraverso la parola d’ordine dell’amnistia, anche i militanti più riottosi. Il processo di primo grado prese quella piega e fu, a suo modo, unico. Aurora, però, dopo un po’ si sottrasse. Sulla strada che avevamo intrapreso si erano messi di traverso alcuni ragazzi che avevano fatto dell’irriducibilismo di maniera la loro precaria identità . Erano però i suoi ragazzi, e lei non si sentì di lasciarli orfani. Ho sempre apprezzato questa sua, costosissima sul piano personale, scelta. Alcuni anni dopo alcuni dirigenti storici delle BR, tra cui Renato Curcio, ripresero in mano le bandiere dell’amnistia.

Ma ormai era troppo tardi.

Rimane il fatto che gli imputati del 7 aprile e di Prima Linea hanno fatto una scelta, quella della dissociazione, collettiva, che ha avuto delle ricadute positive anche su chi, come me, non si è dissociato. E che i loro generali, Toni Negri e Sergio Segio, concretamente e simbolicamente, sono stati gli ultimi a uscire di galera. Mentre nelle scelta soggettiva dei brigatisti, alcuni generali sono usciti prima di molti soldati. Alcuni dei quali sono ancora in galera.

Ho preso vent’anni dopo il primo giro di boa; in appello, con il meccanismo del cumulo, sono sceso a dodici anni e mezzo. Ne ho fatti una decina, per banda armata e rapine. Il buon pubblico ministero Armando Spataro, oggi icona dei girotondi, mi aveva chiesto l’ergastolo per un omicidio: sono stato assolto.

Uscito dal carcere definitivamente ne 1990, dopo aver usufruito dell’indulto per l’entrata in vigore del nuovo codice penale, ho cominciato a lavorare con persone con problemi di tossicodipendenza e con persone malate di AIDS. Ho iniziato a lavorare nelle comunità  per caso, poi mi sono fermato perché mi piaceva. Con le persone con cui lavoro all’Associazione comunità  Il Gabbiano, abbiamo cercato di inseguire una piccola utopia basagliana, secondo la quale la libertà  e non la costrizione, anche nelle dipendenze, è terapeutica.

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