Nervi scoperti

Saltate il titolo e leggete il libro di Sergio Segio, aiuta a capire cosa ci è successo negli anni 70

L’irritazione per un titolo poco felice ha suscitato il sarcasmo e lo sdegno del Foglio: e, soprattutto, ha rivelato un nervo scoperto, riproponendo, ancora una volta, un tema di grande interesse per la società italiana e le sue istituzioni. Il titolo contestato è quel “Una vita in Prima Linea”, dato al libro di memorie di Sergio Segio (Rizzoli); ma – nell’argomentare la sua critica – il Foglio si spinge ben oltre. E arriva a scrivere: “Uno potrebbe fare lo sforzo generoso di dimenticarli, gli assassini; gli assassini, però, avrebbero il dovere di far di tutto per farsi dimenticare. Invece si danno alla letteratura, alla memorialistica, al sermone generazionale”. Si tratta, a mio avviso, di un grave errore, che merita una discussione pubblica, dal momento che – per limitarci agli ultimi mesi – ha prodotto il “caso D’Elia” e quello “Del Bello” (collaboratore di un sottosegretario agli Interni).

Qui posso accennarvi solo sinteticamente e velocemente, sapendo quanto – su questo tema – sinteticità e velocità rischino di produrre equivoci. Ma è un rischio da correre, augurandomi che il Foglio (chi meglio di lui?) voglia affrontare la questione con lo spazio dovuto.

Dunque, ellitticamente: la classe politica e quella intellettuale non hanno voluto o saputo sviluppare, nell’ultimo quindicennio, un’adeguata iniziativa, capace di comunicare il senso di una “ricostruzione” di quel pezzo di storia nazionale, corrivamente definito “anni di piombo”.

Tanto meno hanno voluto o saputo immaginare un’opera di ricomposizione della frattura che ha attraversato la comunità nazionale – in particolare, nel corso degli anni 70 – e di una riscrittura del “patto sociale” con quelle parti di società e di generazione (parti, certo, assai minoritarie, ma non insignificanti), dalla quale il terrorismo è nato. Questo avrebbe richiesto, innanzitutto, come condizione ineludibile, il riconoscimento di quanto accaduto.

Solo una coraggiosa operazione di verità sul passato avrebbe potuto creare le condizioni per avviare un’iniziativa di “riconciliazione” con quello stesso passato, e con i suoi attori.  Ciò non è accaduto in alcun modo. E’ mancato, in sostanza, un progetto di ricostruzione storico-politica e di riflessione collettiva sul fenomeno del terrorismo. Progetto indispensabile: e non certo (spero di essere chiaro) per ridimensionare la portata di quel fenomeno, attenuarne l’orrore, relativizzarne gli effetti sul quadro politico e sull’intera collettività nazionale. Al contrario: per dare un senso condiviso – al di là delle differenze, anche profonde – a quella che è stata una tragedia nazionale. Indubitabilmente, già questa definizione fa problema: è contestabile, ma rappresenta un buon punto di partenza per la discussione. Se, infatti, il terrorismo è stato una tragedia nazionale o, all’opposto, una vicenda criminale come altre, le conseguenze sono – evidentemente – assai diverse.

Nel secondo caso, la strategia della repressione è l’unica da prendere in considerazione e il criterio dell’efficacia tecnica è il solo valido. Ma se il terrorismo è stato anche altro, la sua sconfitta militare non chiude il discorso. Gli ex terroristi non sono solo criminali messi nelle condizioni di non nuocere: sono anche gli sconfitti di quella “guerra civile simulata”. Attenzione: ho scritto simulata. So bene che fu tale: e dichiarata da una parte sola (non riprenderò in questa sede, per evitare equivoci, il ragionamento su ciò che, parallelamente, combinavano pezzi di apparati dello stato).

Questo ha fatto del terrorismo un soggetto criminale e, insieme, politico, in quanto capace di influenzare le scelte degli attori tradizionali, di interloquire con essi e di condizionare l’agenda politica. E, poi, di dividere in profondità la classe politica e quella intellettuale a proposito dell’analisi delle “cause” e dei “rimedi”; e di introdurre in una parte della società (ancora una volta minoritaria, ma non insignificante) un atteggiamento di sfiducia nei confronti dello stato o, addirittura, di “equidistanza” tra esso e i suoi nemici; e di ispirare in settori della società (decisamente assai esili) un atteggiamento di adesione o, comunque, di interesse e una qualche forma di attesa nei confronti della lotta armata.

Tutto ciò impedisce di classificare il terrorismo come un fenomeno criminale tra gli altri: e se non ha avuto, evidentemente, la portata dei rivolgimenti rivoluzionari, delle crisi di sistema e dei cambi di regime, a cui erroneamente qualcuno li accosta, ha rappresentato tuttavia una lacerazione acuta in quel “patto sociale”, e fra le generazioni, su cui poggia il consenso e la legittimazione del sistema democratico. Tutto ciò avrebbe richiesto – una volta vinta la battaglia sul piano della repressione – un’iniziativa altrettanto forte sul piano politico e sociale. Che è appunto mancata.

Non si è ricostruito, pertanto, quel legame tra le istituzioni e un segmento (un segmento) della società, che il terrorismo aveva, se non rotto definitivamente, allentato; non si è andati alla radice dei processi di delegittimazione che avevano investito lo stato, per superarli. A quella ricostruzione necessaria, Segio, col suo libro (che sa parziale), porta un contributo significativo.  Saltate il titolo e qualche caduta letteraria (ma chi è senza peccato…) e leggete il resto.

Luigi Manconi

manconi – foglio 11 06

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