Il protagonista del nuovo libro di Sepúlveda è un cane-eroe nel sud del Cile
«La favola riflette la realtà in uno specchio strano, poco convenzionale, e offre una immagine che permette di capire meglio la realtà». Luis Sepúlveda consegna la sua visione del mondo a una nuova favola: “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà”. E non è certo una scelta casuale: è dal 1996 che il cileno “rosso” utilizza gli animali per arrivare al cuore dell’esistenza e combattere, con armi leggere ma non per questo meno efficaci, le sue battaglie di sempre. Con “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare”, due milioni di lettori solo in Italia, Sepúlveda aveva comunicato a tutti, anche ai bambini, il suo amore per la natura e il disprezzo per gli uomini che la insudiciano e feriscono. Nelle successive due favole che compongono la Trilogia dell’amicizia era tornato a parlarci dei legami d’affetto che il tempo non può spezzare, ma diventando via via più filosofico, fino a trasformare una lumaca in una rivoluzionaria che indaga le ragioni della lentezza e si oppone a conformismo e omologazione.
Moderno La Fontaine, questa volta Sepúlveda ci porta nel sud del Cile, e ci racconta la storia di un cane cresciuto insieme ai mapuche, la Gente della Terra da cui lui stesso discende, prima decimata e poi costretta dai latifondisti a emigrare in zone isolate e improduttive. Diventato bottino di guerra di un manipolo di uomini violenti e spregevoli, che imbracciano armi per uccidere e che manovrano “grandi bestie di metallo” per radere al suolo il bosco, separato dal suo compagno Aukamañ, il bambino indio per cui era stato come un fratello, il cane è costretto a dare la caccia a un misterioso fuggitivo. Alla fine della sua corsa, tra fiumi e felci, con il sangue che sgorga dal petto, renderà onore al suo nome, un nome importante, che significa fedeltà. Nessuna sorpresa. La natura che viene oltraggiata ha sempre fatto infuriare Sepúlveda, la negazione dei diritti umani anche. Quello che gli sta a cuore, quello che vuole dire al mondo lo affida a parole dolci e concrete. Parole adatte ai bambini, ma anche agli adulti. Parole che sono un ponte tra Esopo e l’America latina, e che non saranno mai neutrali. È lui a dirlo, a spiegare perché le fiabe, come la letteratura, sono un altro modo per fare politica.
Sepúlveda, tutti i suoi libri nascono da qualcosa che ha visto, vissuto, sentito e che l’ha emozionata, dall’incontro con gli indios jibaros nella foresta Amazzonica o da una domanda dei suoi nipotini. Questa favola da cosa nasce?
«A febbraio del 2013 ero nel sud del Cile per visitare la regione di Araucanía, la Wallmapu, il paese dei mapuche. Parlai e ascoltai molte persone, una di queste era un bambino, credo che avesse sette anni ed era molto triste perché aveva smarrito il suo cane. Un’anziana mapuche lo consolava, dicendogli che il suo cane sarebbe tornato perché era un cane fedele, un amico leale. Mi piacque come parlava al bambino e così nacque questa storia».
Quando ha scritto “Storia di un gatto e del topo che diventò suo amico”, sostiene che nel dare forma al libro ha pesato l’immagine di un vecchio cieco, un narratore orale conosciuto nei campi di Tinduf in Algeria. In questo caso, invece, nella prefazione parla di un prozio che al tramonto raccontava storie ai bambini mapuche. Che cosa l’affascina della tradizione orale dei cantastorie?
«La tradizione orale è antica quanto l’umanità e siamo esseri umani per quella stessa capacità di raccontarci cose, di raccontare come è stato il giorno. Non sono solo io ad essere affascinato dalla tradizione orale, dall’arte di raccontare storie. In una regione del nord dell’Argentina, El Chaco, lo scrittore Mempo Giardinelli organizza ogni anno un incontro letterario nel quale le grandi figure sono le nonne “cuenta-cuentos” (letteralmente racconta storie). Durante un fine settimana si riuniscono migliaia di persone di tutte le età, a godere della narrazione orale, delle nonne che raccontano storie e che con le loro parole raccontano l’universo ».
La favola è un genere narrativo universale, eppure riesce a riflettere la cultura e la specificità di ogni popolo. Quanto pesano le sue origini nelle favole che scrive? E invece la tradizione occidentale, legata a Fedro ed Esopo?
«Tanto le mie origini come la tradizione occidentale e orientale della favola hanno un significato quando scrivo. Io sono quello che ho letto, ascoltato, amato, apprezzato, per cui ho pianto e riso. Io sono la somma di tutto questo».
Si è spesso definito uno scrittore realista. Eppure continua a scrivere favole e tutta la sua opera è attraversata da una vena favolistica. È forse la favola un mezzo per raccontare la realtà?
«Credo che tutte le favole raccontino la realtà e il nesso tra realtà e atteggiamenti umani. La favola riflette la realtà in uno specchio strano, poco convenzionale, e fornisce un’immagine che permette una migliore comprensione della realtà».
Come nella “Trilogia dell’amicizia ” anche in “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà” è narrata l’importanza dell’incontro con l’altro, con il diverso in una situazione di emergenza. Mi riferisco al cucciolo di cane, riscaldato e nutrito dal giaguaro. Che valore ha la diversità nella vita?
«La diversità è un valore straordinario che rende possibile la vita. È impossibile immaginare la vita senza che questa sia un catalogo infinito della diversità. Le faccio un esempio: nel 1519 Cortés arrivò in Messico con l’intenzione di saccheggiare e distruggere tutto ciò che era altro, che era diverso. Ma con lui c’era un uomo di nome Gonzalo Guerrero che capì l’importanza della diversità del mondo Maya, si rese conto che questa diversità doveva essere difesa e lo fece. Guerrero morì come generale Maya, sacrificò la sua vita per l’altro, per il diverso ».
Questa sua favola sembra molto segnata dall’impegno sociale e politico. Non c’è solo l’apologo dell’amicizia, dell’empatia e della lealtà, ma affiora anche il desiderio di libertà e la storia delle umiliazioni e delle violenze subite dai mapuche… «In tutti i miei racconti è presente la realtà, quello che mi piace e quello che credo debba essere cambiato: non sono neutrale perché nella mia idea di confrontarsi con la realtà, la neutralità non esiste. La neutralità è il rifugio del vigliacco e io non sono, né sono stato e né sarò mai neutrale ».
Paco Ignacio Taibo II sostiene che la letteratura è un altro modo di fare politica. Condivide questa affermazione?
«Sí, perché la letteratura è seminata di memoria. La letteratura dice quello che la storia ufficiale nega o nasconde».
Sembra considerare la semplicità della scrittura più che uno stile, un valore. In una favola conta più l’etica o l’estetica?
« Le due cose sono ugualmente importanti. Io mantengo in letteratura lo stesso carico etico che osservo nella vita, e cerco di dare alla vita la stessa intensità estetica che consegno alla letteratura».
Lei racconta una scena toccante, l’ultimo saluto: «Dieci volte vinceremo fratello, perché è così che si saluta la Gente della Terra, senza mai dirsi addio ». Cos’è per lei la morte?
«La morte è uno dei due estremi entro cui trascorre l’esistenza. Si nasce e si muore. È un ciclo che si apre e si chiude. Credo nella frase di Petrarca: un bel morir tutta una vita onora».
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IL LIBRO
Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà di Luis Sepúlveda (Guanda, pagg.98, euro 10). L’autore il 24 e 25 ottobre sarà a BookcityMilano , a Vicenza il 26, a Prato il 27
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