Saggi. «I confini della poesia» di Franco Fortini per Castelvecchi: nuovamente proposte due conferenze sulla natura «non letteraria della letteratura»
Due conferenze di Franco Fortini tenute nel 1978 presso l’Università del Sussex e nel 1980 presso quella di Ginevra sono riproposte, con la cura di Luca Lenzini, da Castelvecchi con il titolo I confini della poesia (pp. 79, euro 9). Filo rosso dei due interventi è la poesia nella sua dialettica e contraddittoria relazione con la dimensione storico-sociale e con quella linguistica. Come scrive in premessa Luca Lenzini, studioso fortiniano e motore del Centro e dell’Archivio Fortini di Siena, «meditare sui confini, sull’aspirazione alla totalità e all’integrità dell’esistenza, sugli accenti di un verso o le pause di un racconto, … tutto questo era per Fortini un compito inesauribile e al tempo stesso irrinunciabile».
Nel primo dei due scritti, intitolato Dei confini della poesia, Fortini si confronta con alcune tendenze della teoria letteraria entro il quadro più ampio dell’antimarxismo di sinistra che in Italia portò progressivamente, a partire dalla metà degli Settanta, alla perdita di memoria storica e all’assenza di «finalità e di mete»: «memoria storica – scrive Fortini – e senso di possibili mutamenti orientati ad un fine erano state preziosa caratteristica d’avanguardia dei ceti proletari e intellettuali italiani e l’insegnamento di Gramsci era stato, di quella caratteristica, un esempio».
E così l’antistoricismo strutturalista e neosurrealista cancella criteri di valore, tradizioni, scelte, priorità e contesti extraletterari. La poesia diventa «testo» e tutta la dimensione di potente insegnamento morale, estetico, filosofico, politico, storico dell’arte e della letteratura viene meno. «Ne risulta – scrive l’autore richiamando una pagina del filosofo ungherese marxista György Lukács – una progressiva scomparsa (…) della loro capacità di alludere ad un fondamentale ’problema della vita’».
Un mondo senza cuore
La perdita della dimensione non letteraria della letteratura, il venir meno del conflitto delle interpretazioni come allegoria del conflitto delle classi, l’assenza dell’opposizione ordine-disordine, portano la poesia a trasformarsi, come ebbe a scrivere lo stesso Fortini, in «vino di servi». E ancora un volta sulla scorta di Lukács, l’autore sostiene che la poesia è anche portatrice di conservazione «proprio in quanto forma che si oppone al mutamento». Essa è una rosa sull’abisso, un fiore sulla catene che ci legano alle ragioni del capitale. Alla centralità dell’arte come liberazione, dal romanticismo in poi corrisponde la reificazione delle attività umane. «Come la religione per Marx, l’arte e la letteratura sono ‘il cuore di un mondo senza cuore’».
Un altro punto rilevante del pensiero fortiniano è quello relativo all’«uso letterario della lingua», cioè, nel caso della poesia, alle sue caratteristiche formali, al fatto che essa, secondo lo scrittore fiorentino, allude all’«uso formale della vita che è il fine e la fine del comunismo». Se la poesia è «vino di servi» essa è quindi anche, dialetticamente, forma del futuro, figura che anticipa dantescamente un mondo diverso. Dar forma alla propria esistenza, autoeducarsi, progettare per un fine, darsi una norma (per poi eventualmente contestarla in nome di un’altra norma), sono le dimensioni essenziali per il soggetto di fronte alle ormai secolari ideologie del nichilismo, dell’eterno presente, dell’ottimismo tecnocratico, che si oppongono ad ogni liberazione dell’uomo. È, questa, una dimensione che si avvicina molto al processo educativo fatto essenzialmente di un faticoso e contraddittorio cammino di conquiste conoscitive, di esperienze intellettuali e umane a volte estreme e imprevedibili, in una prospettiva di progressiva «formalizzazione», cioè acquisto di coscienza, della persona di fronte alla vita nel mondo. «E la capacità di ’formare’ non più solo opere d’arte ma la vita medesima, — scrive Fortini — di determinarla insomma, è direttamente in rapporto con la capacità di andar oltre l’uso della vita cui ci costringe il lavoro alienato».
Il secondo scritto del volumetto è intitolato Metrica e biografia e alterna argomentazioni di carattere generale a riflessioni autobiografiche sulla propria esperienza di poeta. Il titolo richiama una poesia dello stesso Fortini del 1956 che svela in alcune strofe — distici di prevalenti endecasillabi, rimati solo nelle due ultime strofe — la dicotomia bruciante, pur nella rivendicata interezza dell’io, che accompagna l’opera e la vita di Fortini: «In alto, all’aria erta, ai fili d’erba/ ai voli esili e ripidi dei rami/ nelle grotte più chiuse dove cupa/ molto contro le mura, onda, tu suoni,/ dentro l’afa di calce media e merce/ dove l’ossido si disfà/ una ho portato costante figura,/ storia e natura, mia e non mia, che insiste,/ derisa impresa, ironia che resiste,/- e contesa che dura».
Aroma spirituale
Anche nel testo in prosa è forte la consapevolezza di questa dicotomia che segna l’esperienza poetica. Una consapevolezza nata del fatto che «una poesia – scrive l’autore – che si disgiunga dalla coscienza costante di tutto quello che poesia non è, si degrada ad ’aroma spirituale’, a ipocrita ’cuore di un mondo senza cuore’ o, come una volta m’accorse di dire, a ’vino di servi’».
Il fascino per la metrica, come misura e valore ordinatore, deriva a Fortini dai sui studi classici e dalla consapevolezza che senza una lingua costruita e durevole certe verità rivoluzionarie non possono essere dette. «Metrica come misura, mezura ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là… Certi campioni di misura, in meccanica fine, si chiamano giudici. Metrica, giudizio».
Fu proprio Fortini a ricordarci che l’uso degli antichi modelli della poesia classica cinese servivano a Mao Zedong a distanziare la bruciante attualità e crudeltà della rivoluzione in corso in Cina tra Lunga Marcia, invasione giapponese, signori della guerra. Metrica vuol dire riuso, ripresa, durata. Il contrario di ogni vitalismo avanguardistico (che tuttavia nei suoi risultati poetici migliori ha contribuito anch’esso a creare un’«altra» metrica, quella del cosiddetto «verso libero»).
Abitare la frontiera
Di questa metrica, sempre più sostituita o affiancata, scrive l’autore, da figurae elocutionis (ripetizioni, accumulazioni, allitterazioni ecc.), ci sono tracce e lacerti anche nella poesia contemporanea di cui Fortini ci fornisce un campione che spazia dai suoi stessi versi a quelli di Montale, Sereni, Giudici, Zanzotto e tanti altri.
Mettere in tensione metrica e storia significa per Fortini abitare i confini. Questi confini alludono ai confini dei saperi e dell’esistenza, a spazi da vivere con la felicità di tendere ad una riunificazione del genere umano, mortificato e alienato dalla divisione del lavoro imposta dal capitale ormai da tre secoli: «Nel linguaggio delle diplomazie le ’questioni di frontiera’ non sono che le contestazioni per la linea di confine tra due stati. La modesta metafora allude ad aree infradisciplinari, a punti di contatto o di frizione fra conoscenze, intenzioni, finalità diverse. È l’area dove vorrei fosse impossibile distinguere fra giudizi letterari, considerazioni di costume, critica della cultura, valutazioni politiche».
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