ll film censurato sulla fine del Duce

Cinema. Al Torino Film Festival 33 tra archivi e sorprese spicca «Tragica alba a Dongo», girato nel 1950 dal giornalista Vittorio Crucilà che racconta la cattura di Mussolini

TORINO. Tragica alba a Dongo era un film perduto prima ancora di esistere, nel senso che non era mai stato proiettato. Girato nel 1950 dal giornalista Vittorio Crucillà e restaurato ora dal Museo del Cinema di Torino, racconta la cattura di Mussolini (e di Claretta Petacci) a Dongo e la notte da loro trascorsa nella casa dei De Maria prima della fucilazione.

Questa «pagina di storia visiva» come dice la didascalia iniziale, è una docu-fiction rigorosa nella cronologia e nella messa in scena, visto che utilizza alcuni partigiani che avevano partecipato all’azione e gli stessi coniugi De Maria nella loro la casa. Sgradito sia alla famiglia di Mussolini poiché la donna accanto al Duce nell’ora fatale era la sua amante, che ai paesani di Dongo, in quanto la fucilazione era opera di partigiani venuti di fuori (per non parlare della sparizione del bottino che il duce si portava dietro, l’«oro di Dongo») il film, dalla strana durata di 38 minuti, non fu mai proiettato in sala.

La censura di Andreotti gli negò persino il visto per l’esportazione, con la motivazione che avrebbe portato disdoro alla patria. Così si era ridotto infatti in guerra fredda il ricordo della Resistenza, qui proposta senza retorica garibaldina (nella colonna sonora citazioni di canti risorgimentali) e con la scelta di mostrare Mussolini e Petacci solo di spalle o come ombre, per preservare la qualità documentaristica del film — un neorealismo alla De Santis, con monumentalizzanti primi piani sovietici, dal basso, dei partigiani, contrasti di luce e ombra e il dramma sentimentale della Petacci aggrappata al suo uomo (quando lo storico Giovanni De Luna ha ricordato invece come la pubblicazione del suo epistolario la riveli lucida compagna di strada.)

Prima che la vita cambi noi di Felice Pesoli racconta il cosmopolitismo del movimento hippy milanese prima degli anni di piombo, con materiali di repertorio, filmini amatoriali e interviste: il salotto alternativo di Pivano, le reazioni della stampa borghese ai «capelloni», la musica, le droghe, le comuni, i viaggi in India e soprattutto le attività di «Re Nudo», la rivista perno del movimento — una cultura che ha inciso sulla storia sociale molto più della «lotta armata» con cui ha finito per essere sussunta.

Per quel che concerne il concorso Torino 33, per ora niente di eccezionale, ma neppure da lamentare; fresco e ben scritto il messicano Sopladora de Hojas, in cui tre ragazzini (il grasso, il bello e il buono) cercano in un mucchio di foglie secche un mazzo di chiavi, svelando la loro inadeguatezza generazionale e il distacco emotivo dai «grandi»; e d’altro canto il cinema messicano ben figura al festival con Te prometo anarquia, già apprezzato a Locarno, o dovremmo dire il cinema latinoamericano, perché si distingue in concorso anche La patota Paulina che affronta con sensibilità nuova e provocatoria la violenza sulle donne.

L’americano God Bless the Child segue cinque bambini dall’infante alla teenager (strepitosi interpreti) lasciati a casa da soli da una mamma depressa, nelle loro esplosioni di violenza e in momenti di commovente tenerezza.

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