Le prime vittime della guerra

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La verità è sempre la prima vittima di ogni guerra. La seconda sono i diritti umani e le libertà civili

La verità è sempre la prima vittima di ogni guerra. La seconda sono i diritti umani e le libertà civili. La Francia di François Hollande conferma questa regola, già inequivocabilmente dimostrata dagli Stati Uniti del Patriot act, di Guantánamo, di Abu Ghraib, delle extraordinary renditions.

Divieto di dissenso

Lo Stato d’emergenza, instaurato dopo la strage a Parigi del 13 novembre operata da Daesh, assieme al varo di modifiche alla Costituzione e alla sospensione di parti della Convenzione europea sui diritti umani, viene utilizzato per reprimere il dissenso, prima che il terrorismo. Il terrorismo non viene ovviamente scalfito, ad esempio, dal divieto di manifestare. Alla vigilia della Conferenza mondiale sul clima, invece, 24 militanti ambientalisti sono finiti agli arresti domiciliari. Vi sono state centinaia e centinaia di perquisizioni e a migliaia di persone è stato impedito di entrare nel Paese.

Una forma di repressione preventiva degli oppositori che in Italia chi ha una certa età ricorda bene, perché veniva utilizzata dal fascismo a ridosso degli eventi del regime. Anche allora il patriottismo era di rigore, essendo il primo ingrediente necessario di ogni guerra. Naturalmente, i paralleli storici sono suggestivi ma anche scivolosi.

Fatto sta che in Francia si sono levate voci da parte di autorevoli intellettuali (l’erba del vicino è sempre più verde, viene da dire, ascoltando il rumoroso silenzio italiano) contro la chiamata alle armi del loro governo: «Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche?».

 

I genitori di Daesh

Si tratta di verità certo non nuove, ma che non provocano nessun effetto politico, tanto è forte il condizionamento da parte delle lobby degli armamenti, la miopia o la viltà di molta parte delle classi politiche e dei governi occidentali, cointeressate in quei cinici business, la debolezza dei movimenti globali e, ancor più, europei. L’Arabia Saudita, oltre che una capitale della violazione dei diritti umani e uno dei principali artefici e favoreggiatori dello Stato islamico, è il quarto Paese mondiale per livello della spesa militare (80,5 miliardi di dollari nel 2014), dopo Stati Uniti, Cina e Russia; armi e sistemi d’arma che vedono Francia e Italia tra i principali venditori. Come ha scritto su “la Repubblica” Kamel Daoud, intellettuale e giornalista algerino, ricordando il ruolo del wahabismo, «Daesh ha una madre: l’invasione dell’Iraq. Ma anche un padre: l’Arabia Saudita e il suo apparato religioso-industriale […] L’Arabia Saudita è un Daesh riuscito».

L’appello francese si conclude in questo modo: «Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome».

 

Il doppiopesismo sulle vittime

Uno dei primi firmatari di quel testo, il filosofo Etienne Balibar, all’indomani della strage di Parigi, aveva espresso su “Open Democracy” un’altra considerazione importante, a ulteriore dimostrazione che, in questi tempi cupi, le uniche voci capaci di profondità e verità stanno arrivando da poeti e filosofi, oltre che dal Papa: «Siamo in guerra. O meglio, ormai siamo tutti dentro la guerra. Diamo colpi e ne riceviamo. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, ne paghiamo il prezzo e ne portiamo il lutto. Perché ogni morto è insostituibile».

Ogni vita è unica, a prescindere da origini, etnie, convinzioni politiche e religiose, o condizioni sociali. Ma evidentemente non la pensano così le retoriche mediatiche e patriottarde che sembrano aver fatto propria la massima maoista, secondo la quale vi sono morti pesanti come montagne e altre leggere come piume.

Quelle pesanti e memorabili sono solo quelle occidentali, a loro volta suddivise in quelle degne di nota in quanto appartenenti a ceti abbienti e quelle da ignorare poiché miserabili. Per rimanere alle ultime vicende, le vittime dell’aereo russo sul Sinai il 31 ottobre, quelle della strage di Beirut del 12 novembre, quelle di Bamako del 20 novembre o quelle dell’attentato a Tunisi del 24 novembre sono anonime e ininfluenti, a malapena se ne conosce il numero.

Per non dire dei dodici morti, di cui cinque bambini, uccisi dal raid che il 26 novembre ha colpito la scuola Heten, a Raqqa, città siriana considerata il cuore del Califfato. Vittime che si aggiungono alle centinaia di civili uccisi dai bombardamenti in quella zona; uccisioni ammesse dagli stessi responsabili, i quali assicurano che «la coalizione spende molto tempo per individuare i target, assicurare la massima efficacia e minimizzare le potenziali vittime civili», come ha dichiarato il portavoce del comando militare USA. Come a dire che ogni volta che un aereo sgancia missili sul territorio siriano (o iracheno, o afghano…) sa per certo che ucciderà civili e persone innocenti, anziani e bambini, ma lo fa ugualmente, se pur cercando di limitarne il numero (ma, ad esempio, l’ospedale di Kunduz gestito in Afghanistan dalla ONG Medici senza frontiere è stato bombardato volutamente dai caccia statunitensi il 3 ottobre scorso, provocando 22 vittime).

 

La comoda coperta del terrorismo

Di nuovo, non si può che convenire con Papa Francesco quando ha maledetto chi promuove e lucra sulle guerre. Aggiungeremmo anche coloro che le votano, naturalmente democraticamente.

Per una volta, tocca simpatizzare con Matteo Renzi, quando nei giorni scorsi ha evitato di arruolare l’Italia nella “santa alleanza” richiesta da Hollande per intensificare i raid e la guerra: «La posizione italiana è la più forte in prospettiva, le grandi crisi non si risolvono con qualche dichiarazione muscolare, ci vuole la diplomazia». E speriamo che questa dichiarazione del premier corrisponda a una ritrovata fedeltà al tanto bistrattato articolo 11 della Costituzione e non a calcoli contingenti.

 

Banche e borse armate

Vero è che il terrorismo si dimostra, come sempre, una comoda coperta a disposizione di chiunque voglia usarlo per qualsiasi calcolo di bottega: da Hollande per recuperare consensi, reprimere dissensi e competere con il Front National sul suo stesso terreno; al ministro dell’Economia italiano, per mettere la mani avanti rispetto alle previsioni della crescita. Ma, soprattutto, guerre e terrorismo sono una manna per chi produce e commercia in armamenti o in cosiddetta sicurezza e anche per chi in quei settori investe, senza neppure doversi confrontare con scrupoli di coscienza. Vale a dire le “banche armate” (italiane comprese) e gli investitori che evitano di domandarsi dove vadano a finire i propri soldi, bastandogli che tornino aumentati. La prima reazione agli attentati di Parigi del 13 novembre, infatti, è stata quella delle Borse: l’indice Bloomberg che traccia le aziende del settore aerospaziale e della difesa in tutto il mondo è immediatamente partito al rialzo. François Hollande e Manuel Valls hanno semplicemente seguito l’indicazione di marcia, e la promessa di lauti profitti, che gli è stata prontamente mostrata dai mercati finanziari.

 

System change

Maledire politici con l’elmetto e profittatori di guerra , però, non basta. Occorre provare a contrastarli, con tutti i mezzi che questa post-democrazia strisciante per il momento ancora consente. Innanzitutto con l’informazione, la presa di coscienza e la mobilitazione.

Sapendo, come ci ribadisce in questi giorni il movimento ambientalista mondiale, che i piccoli correttivi non sono sufficienti: system change not climate change. Ciò è tanto più vero e urgente di fronte alle guerre e alle stragi che tutti i giorni vengono fatte in nostro nome o in nome di un Dio.

Non si può limitarsi a condannarle. Occorre, davvero, buttarle finalmente fuori dalla Storia, con la determinazione e la radicalità necessarie.

Occorre tornare umani, per cambiare un sistema profondamente disumano.

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