Una protesta che interroga l’Italia

loi travail

La rinuncia ad estendere il terreno del conflitto rischia di ledere ulteriormente la credibilità del sindacato, cedendo ad una mediazione al ribasso con il governo

Si rimane ad osservare la Francia in questi mesi di mobilitazione contro la Loi Travail – il Jobs Act à la francese. Ci si interroga su cosa stia accadendo e quali saranno gli sbocchi delle proteste che attraversano le piazze della Nuit Debout e degli otto scioperi generali, apparsi in appena due mesi. Conflitti che interrogano da vicino il sindacato italiano, la sua strategia politica, il suo farsi soggetto pubblico, la sua capacità di unire il paese dentro una idea di società. L’attualità italiana ci consegna un quadro segnato da scioperi di categoria, come nel caso del pubblico impiego. Mobilitazioni che rivendicano lo sblocco dei contratti, chiedendo al governo l’adeguamento dei salari dopo anni di blocco delle retribuzioni. Si assiste ad una mobilitazione corporativa, che individua il terreno di scontro negli interstizi del contratto di categoria, senza mai porre in discussione l’organizzazione dello Stato, la direzione degli investimenti e la definizione delle funzioni. Una strategia destinata a scontrarsi con misure di riassorbimento della spesa pubblica e di recupero degli aumenti contrattuali nei processi di privatizzazione o esternalizzazione dei servizi.

Sul piano programmatico, appare insufficiente una rivendicazione che punti agli aumenti contrattuali e solo in separata sede si interessa allo sblocco del turnover, all’espansione dei servizi dell’infanzia, alla tutela dei lavoratori costretti a lavorare per pochi euro l’ora come soci (fittizi) di cooperative, a quell’ area di lavoro intermittente privo di diritti e tutele, vittima di un ventennale processo di razionalizzazione degli organi e delle funzioni dello Stato.

La rinuncia ad estendere il terreno del conflitto rischia di ledere ulteriormente la credibilità del sindacato, cedendo ad una mediazione al ribasso con il governo, sempre pronto a sfruttare a proprio vantaggio le condizioni economiche dei propri cittadini. Come nel caso delle pensioni dove, ad accompagnare l’annuncio di possibili 80 euro per le pensioni più basse, si decide di riaprire la concertazione a venti giorni dalle tornata elettorale. Bisognerebbe rifiutare la strategia del governo nel merito, e rilanciare il dibattito attorno alle pensioni nella sua complessità. La questione previdenziale non può scindere le pensioni dal lavoro e dalla sempre minore capacità contributiva dei lavoratori, sempre più precari, sempre più poveri, sempre più intermittenti. I rinnovi dei contratti di categoria come l’aumento delle pensioni minime sono condizioni necessarie ma non sufficienti per garantire al sindacato uno spazio di agibilità che consenta di muoversi in un terreno più solido di difesa del mondo del lavoro, in un contesto di attacco trasversale che dai luoghi di lavoro si estende agli spazi della cittadinanza democratica. Un quadro che richiede un cambio di passo, prendendo parte lì dove il conflitto emerge e prova a recuperare una sponda più ampia.

Come nel caso delle città che si affacciano alle amministrative e in cui, non senza difficoltà, esistono tentativi di creare un’alternativa politica di governo. Tentativi che dovrebbero raccogliere il pieno consenso delle organizzazioni sindacali che invece nel concreto dell’arena politica preferiscono prestare il fianco allo status quo. Fondamentale è poi la sfida democratica che investe il Referendum Costituzionale.
La decisione con cui Confindustria dichiara il proprio sostegno alla riforma Costituzionale del governo è un segnale evidente di come lo scontro non stia oggi sul terreno rivendicativo, ma investa nel complesso la questione sociale, dentro un processo di ristrutturazione dell’ordinamento democratico, funzionale al rafforzamento degli organi esecutivi a discapito della dialettica democratica e della centralità del Parlamento. Non cogliere la portata di questo processo, per l’esistenza di un soggetto che difende la parte debole della società, significa accettare una lenta e inesorabile sconfitta. Mai come in questa fase il nesso tra democrazia e lavoro raccoglie la sfida che un grande sindacato deve rimettere al centro della sua strategia politica.

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