I conti con la storiografia. Celebrare il 24 aprile contro il revisionismo

Irlanda. Forse i tempi sono maturi per superare la falsa alternativa fra l’agiografia nazionalista e la rimozione revisionista del passato e presente coloniali

Nel centenario della Rivolta di Pasqua (Easter Rising) contro il dominio inglese e nel proliferare di commemorazioni ufficiali, spicca l’invito del presidente irlandese Michael D. Higgins a non tradire le aspirazioni sociali che animarono i protagonisti dell’insurrezione: la redistribuzione delle ricchezze e la rivendicazione di diritti da parte delle donne. Ma servono alcuni riferimenti storici per meglio comprendere la portata culturale e politica del discorso presidenziale qui tradotto e le modalità inedite con cui Higgins, laburista vecchio stampo e fortemente critico del New Labour blairiano, interroga la memoria nazionalista enfatizzandone i connotati classisti e la filiazione dal grande sciopero (lock-out) del 1913.

dublino

Innanzitutto si tenga presente che nonostante l’incontestata valenza del Rising come evento fondativo par excellence dello stato d’Irlanda e della successiva Repubblica, da decenni eravamo abituati a celebrazioni stanche, dove la ritualità e la retorica più vuota prevalevano sulla riflessione critica e chiudevano a ogni volontà di riattualizzarne lo slancio ideale e i contenuti: qualcosa di altrettanto narcotico, ahimè, quanto le cerimonie istituzionali in occasione del 25 aprile nostrano. Questo atteggiamento è figlio dei tempi e in Irlanda, parallelamente all’erosione dei valori ispiratori della Repubblica, segnala la temibile sinergia fra un revisionismo malinteso e la realpolitik affarista in salsa global. Infatti, durante gli anni Novanta e Duemila, fra l’ascesa e il tracollo dell’effimero miracolo economico noto come celtic tiger, è invalso un atteggiamento liberal che bolla automaticamente come ‘ideologico’ ogni tentativo di sviscerare la questione spinosa dell’identità nazionale e dell’eredità del Rising.Una parabola sorprendente se si pensa che il revisionismo nasce in seno all’accademia irlandese con l’obbiettivo opposto di sottrarre lo studio della decolonizzazione alla mitologia acritica e smussata di ogni asperità sociale che si è sviluppata intorno agli “eroi” dell’indipendenza. Negli anni Sessanta, tuttavia, di fronte al settarismo e alla guerra civile che infiammano le sei contee nord-irlandesi ancora annesse al Regno Unito, l’impresa revisionista viene strumentalizzata da chi intende neutralizzare aprioristicamente ogni considerazione che chiami in causa l’esperienza coloniale e il suo corollario di conseguenze.

È questa una risposta alla stagione tragica dei Troubles, insanguinata da attentati dinamitardi e scontri fra gruppi paramilitari repubblicani/nazionalisti e lealisti/unionisti (la declinazione religiosa dei due schieramenti, cattolico e protestante, è in voga nelle narrazioni commerciali e in certe letture semplicistiche, ma manca totalmente di spiegare il reale contesto del conflitto, sebbene crei alibi e simboli con cui attrarre i meno critici, irlandesi e non solo). Di fatto, però, con i revisionisti l’imperialismo esce di scena e diviene poco più che un fantasma nelle analisi della fisionomia culturale e politica del paese. Ma oggi… chissà?

Forse è presto per parlare di inversione di tendenza e Higgins resterà voce isolata. O forse i tempi sono maturi per superare la falsa alternativa fra l’agiografia nazionalista e la rimozione revisionista del passato e presente coloniali. In tal caso sarebbero indicativi i balbettamenti livorosi della leadership unionista, in preda al panico di fronte all’iniziativa del presidente. E d’altro canto ci sono da segnalare le bacchettate a Higgins da parte della frangia socialista dell’Ira, cui non è andata giù, si legge in un comunicato di queste ore, la mancata menzione delle sei contee, proprio in un discorso di condanna dell’amnesia riguardo agli obbiettivi degli insorgenti. Bè, in effetti, la proclamazione della Repubblica letta quel lunedì di Pasqua a Dublino era rivolta a tutti gli irlandesi, non a una parte di loro.

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