Memorie viventi della Resistenza

Una florida pubblicazione di diari, ricordi, biografie e romanzi sull’esperienza partigiana. Mentre la storiografia continua a riproporre chiavi di letture consolidate su una vicenda spartiacque nella storia repubblicana

A più di un mese dal 70esimo anni­ver­sa­rio della Libe­ra­zione dal nazi­fa­sci­smo è curioso vedere come alcune case edi­trici con­ti­nuano a dare alle stampe saggi, romanzi o anto­lo­gie sulla Resi­stenza e la guerra par­ti­giana. Non si tratta di una curio­sità che vede nel 25 aprile uno ste­rile fetic­cio da omag­giare o un sem­plice eser­ci­zio memo­ria­li­stico, da rin­no­vare di anno in anno. È più un’impressione posi­tiva che sem­bra andare con­tro­cor­rente rispetto a quanto acca­duto negli anni pas­sati, quando la set­ti­mana del 25 aprile risul­tava essere lo spa­zio pre­di­letto da chi è impe­gnato sta­bil­mente sul fronte revi­sio­ni­sta della rilet­tura sto­rica e sto­rio­gra­fica della Resistenza.

Tut­ta­via, all’interno di que­sta varie­gata pro­du­zione edi­to­riale si è avuta la pos­si­bi­lità di riscon­trare la ten­denza a sovraf­fol­lare gli scaf­fali delle libre­rie con testi di respiro sto­rico che dif­fi­cil­mente rie­scono ad aggiun­gere ele­menti inno­va­tivi di rifles­sione a quelli già trac­ciati nel corso dei decenni suc­ces­sivi alla libe­ra­zione. Da diverso tempo sem­bra che la sto­rio­gra­fia accre­di­tata non abbia più niente da dire in merito alla guerra par­ti­giana. Le ultime novità di un certo rilievo si devono ancora a Clau­dio Pavone e al suo discorso sulla guerra civile, e non è un caso che il dia­logo tra Noberto Bob­bio e lo stesso Pavone edito da Bol­lati Borin­ghieri – un insieme di scritti che datano trenta o qua­ranta anni fa – venga salu­tato come oppor­tuno rispetto al revi­sio­ni­smo dell’ultimo ven­ten­nio. Ine­vi­ta­bil­mente, la ste­ri­lità sto­rio­gra­fica ha con­tri­buito a pro­durre il discorso oppo­sto, quello di una cri­tica alla Resi­stenza, di un ridi­men­sio­na­mento politico.

Per tali ragioni, pub­bli­ca­zioni che si pre­fig­gono di dare voce ai pro­ta­go­ni­sti che hanno vis­suto quella lotta di civiltà sono oggi il valore aggiunto di una vicenda che neces­sita di essere difesa, fatta pro­pria. Così come rive­stono un ruolo fon­da­men­tale le rac­colte e le testi­mo­nianze di tante voci, di uomini e donne, che hanno dato un con­tri­buto deter­mi­nante alla vit­to­ria con­tro il fasci­smo pur non essendo oggi anno­ve­rati nell’olimpo degli eroi. All’interno di que­sto qua­dro dovremmo quindi leg­gere tre lavori che repu­tiamo aggiun­gano qual­cosa all’imponente genea­lo­gia edi­to­riale sulla Resi­stenza; si tratta di pub­bli­ca­zioni in cui gli autori hanno deciso di rico­struire sto­rie meno note ma non per que­sto meno impor­tanti della lotta par­ti­giana. Abban­do­nata la memo­ria­li­stica, si apre il ter­reno alla sto­ria sociale, in scala ridotta, delle memo­rie per­so­nali più che dei grandi ideali.

Il docente antifascista

Il romanzo Il tempo migliore della nostra vita (Bom­piani, euro 18) di Anto­nio Scu­rati è un calo­roso omag­gio alla figura di Leone Ginz­burg, libero docente e let­te­rato anti­fa­sci­sta, che l’8 gen­naio 1934 si rifiutò di pre­stare giu­ra­mento al regime fasci­sta dando così ini­zio alla sua tra­va­gliata para­bola che lo por­terà ad essere incar­ce­rato il 13 marzo dello stesso anno. L’omaggio a Ginz­burg rap­pre­senta un’ode a quella ristretta schiera di let­te­rati e docenti ordi­nari di uni­ver­sità sta­tali (13 su quasi 1300) che rifiu­tando le dispo­si­zioni con­te­nute nel «Testo Unico delle leggi sull’Istruzione Supe­riore» sacri­fi­ca­rono cat­te­dra, sti­pendi e pen­sione in nome di uno spas­sio­nato credo nella libertà. Nella prima pagina Scu­rati riporta le parole scritte dal pugno di Ginz­burg al Ret­tore dell’Università di Torino: «Ho rinun­ciato da un certo tempo, come Ella ben sa, a per­cor­rere la car­riera uni­ver­si­ta­ria, e desi­dero che al mio disin­te­res­sato inse­gna­mento non siano poste con­di­zioni, se non tec­ni­che o scien­ti­fi­che. Non intendo per­ciò pre­stare giu­ra­mento». Parole che pro­iet­te­ranno Ginz­burg in una dimen­sione di impe­gno poli­tico e let­te­ra­rio dif­fe­rente, ani­ma­tore del gruppo di intel­let­tuali che diede vita alla casa edi­trice Einaudi (tra i quali ricor­diamo Cesare Pavese, Elio Vit­to­rini, Nor­berto Bob­bio, Luigi Sal­va­to­relli), che gli costerà una feroce per­se­cu­zione e lo por­terà al con­fino sulle mon­ta­gne di Pizzoli.

Nel dise­gnare la vicenda di Ginz­burg, Scu­rati trat­teg­gia anche le vicende umane e poli­ti­che di intere fami­glie i cui rac­conti si intrec­ciano nella nar­ra­zione della sua vita: i Fer­rieri, i Gua­rino ma soprat­tutto gli Scu­rati, la sua stessa fami­glia. Genea­lo­gie che si richia­mano in un romanzo che alterna nar­ra­zioni delle saghe fami­liari a rifles­sioni sull’«Italia Fasci­sta»: da Milano a Napoli, le sto­rie di que­sti per­so­naggi, delle loro fami­glie, sono la sce­no­gra­fia di sfondo della vicenda del docente di russo adot­tato dalla città di Torino.

Tenore e militante

Per i tipi di Ale­gre e la col­lana Quinto Tipo, diretta da Wu Ming 1, è invece uscito un agile libro che rico­strui­sce la vicenda di Nicola «Ugo» Stame, morto nell’eccidio delle Fosse Ardea­tine il 24 marzo 1944. Il tenore par­ti­giano (Edi­zioni Ale­gre, euro 15), un libro di Lello Sara­cino, gior­na­li­sta fog­giano e con­cit­ta­dino di Stame, è un modo inu­suale e ori­gi­nale di par­lare di Resi­stenza. È la sto­ria di un can­tante lirico, osan­nato da cri­tica e stampa, rico­struita con saga­cia attra­verso sbalzi spazio-temporali tra Roma e Fog­gia, tra primo Nove­cento e con­tem­po­ra­neità. La vicenda di Stame diventa la sto­ria tota­liz­zante di un mili­tante anti­fa­sci­sta dopo l’armistizio dell’8 set­tem­bre 1943, la sto­ria di chi ha com­bat­tuto a Porta San Paolo e nelle for­ma­zioni clan­de­stine. Ma sono forse le pagine suc­ces­sive, quelle che par­lano della sua mili­tanza in Ban­diera Rossa e del suo arre­sto che ci danno il senso di una sto­ria sui gene­ris, quella cioè del mili­tante che aveva can­tato nei Tea­tri dell’Opera più impor­tanti e che alle­viava le pene dei suoi com­pa­gni dete­nuti con il canto forte, calo­roso di cui era straor­di­na­rio inter­prete. «Stame dopo l’arresto viene por­tato al com­mis­sa­riato di via Goito. Fini­sce in cella con un ragazzo che ha da poco com­piuto 18anni. Si chiama Clau­dio Pica (…) ha la pas­sione per il canto melo­dico e una voce di stampo teno­rile. Nella pic­cola cella di via Goito si incon­trano un pezzo di sto­ria pas­sata e futura della musica ita­liana. Clau­dio Pica dopo la guerra coro­nerà il suo sogno di diven­tare un can­tante pro­fes­sio­ni­sta. Scri­verà brani come Bina­rioGra­nada, diven­tando noto al pub­blico col nome d’arte di Clau­dio Villa, il “reuc­cio” della canzone».

Il lavoro di Sara­cino esce dai para­me­tri clo­ro­for­miz­zati della nar­ra­zione della Resi­stenza, rega­lando una sto­ria di spes­sore sto­rico e arti­stico avva­lo­rata da un appen­dice che con­tiene docu­menti e imma­gini ine­dite che omag­giano la vita di quell’aviatore, poi dive­nuto can­tante lirico e morto da partigiano.

Sulla via del manicomio

Il testo curato da Mimmo Fran­zi­nelli e Nicola Gra­ziano, invece, riporta alla luce una sto­ria dimen­ti­cata e igno­rata dell’immediato periodo post-resistenziale.Un’odissea par­ti­giana. Dalla Resi­stenza al mani­co­mio (Fel­tri­nelli, euro 18 ) è un sag­gio in cui gli autori con­cen­trano le loro atten­zioni di ricerca sull’Ospedale Psi­chia­trico Giu­di­zia­rio di Aversa e sulle fonti ine­dite ivi ritro­vate. Con il paese libero dal nazi­fa­sci­smo, la magi­stra­tura ita­liana manda alla sbarra cen­ti­nai di ex-partigiani per gravi reati com­messi durante la lotta di resi­stenza e nell’immediato dopo­guerra: sono le famose accuse rivolte a chi s’è mac­chiato del delitto di «giu­sti­zia som­ma­ria» verso per­sone coin­volte diret­ta­mente con l’apparato fasci­sta. La stra­te­gia stu­diata per la difesa degli impu­tati e miti­gare le pene è quella del rico­no­sci­mento della semi-infermità men­tale, ma con l’amnistia Togliatti del 1946 il bene­fi­cio della fine della pri­gio­nia viene negato ai dete­nuti manicomiali.

Il dramma di que­sti «pazzi per la libertà» (secondo l’appropriata espres­sione coniata dagli autori) è riper­corso attra­verso docu­menti uffi­ciali, let­tere ai fami­liari e ai comi­tati di soli­da­rietà. Fran­zi­nelli e Gra­ziano rico­strui­scono le vite dei par­ti­giani dete­nuti a par­tire dagli affetti e dalle impres­sioni per­so­nali, inda­gando fonti ine­dite e ripor­tando alla luce una sto­ria che ha dell’incredibile, tor­nando al con­tempo con forza sul tema della man­cata defa­sci­stiz­za­zione delle ammi­ni­stra­zioni e la cri­tica tout court all’amnistia togliat­tiana che viene così richia­mata nel testo: «Il 30 giu­gno 1946, a otto giorni dall’emanazione, l’amnistia Togliatti è stata appli­cata a 7106 fasci­sti e a 153 par­ti­giani. La giu­sti­zia della neo­nata Repub­blica ita­liana, con una mano rialza i col­la­bo­ra­zio­ni­sti, con l’altra per­cuote i partigiani».

Sto­rie per­so­nali, come vediamo, che s’intrecciano con la grande sto­ria, la com­pon­gono, con­tri­bui­scono a den­si­fi­carla. Sto­rie che ci intro­du­cono a una visione mate­riale del movi­mento par­ti­giano, rifiu­tando reto­ri­che e nar­ra­zioni monu­men­tali. Dopo settant’anni di ricer­che, forse l’indagine dei risvolti per­so­nali e poli­tici insieme di chi com­pose il grande affre­sco della Resi­stenza pos­sono costi­tuire lo sbocco per una nuova sto­rio­gra­fia sociale.

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