Vite mai domate

Giovanna Marturano

La Resistenza delle donne: il periodo clandestino, le nozze a Ventotene, un uovo diviso in tre, un’intervista a Giovanna Marturano. I canti antifascisti proibiti e pericolosi. Anticipazioni dal lavoro (libro + 2cd) a cura di Alessandro Portelli con Antonio Parisella

«Questa città ribelle e mai domata…». Il verso della canzone dei partigiani romani dà il titolo a un lavoro – due cd e un libro – che raccoglie un secolo di storie e canti antifascisti dall’archivio del Circolo Gianni Bosio, con la collaborazione del Museo della Liberazione di via Tasso. I cd documentano un antifascismo cantato che non appartiene solo alla stagione della Resistenza, ma comincia prima dell’avvento del regime e continua oggi; e non appartiene solo all’Italia sopra la linea gotica, ma anche a Roma e al Lazio, all’Umbria, all’Abruzzo, alla Campania, alla Sardegna.
E i testi del libro raccontano una Resistenza tutta al femminile: dodici storie di donne che hanno combattuto il fascismo in tutti i modi, dalla lotta armata alla resistenza senza armi, hanno conosciuto il carcere e il confino, hanno trasmesso la memoria (alcuni canti dei cd li ascoltiamo dalle voci di alcune di loro). Il genere femminile del titolo «mai domata» ribadisce che non si tratta di «contributo delle donne alla Resistenza», ma di una Resistenza delle donne, protagoniste. Ribelle e mai domata. Canti e racconti di antifascismo e resistenza, a cura di Alessandro Portelli con Antonio Parisella, Squilibri editore, verrà presentato il 25 aprile a partire dalle 17 al Museo della Liberazione, via Tasso 145, Roma.

Dall’intervista con la partigiana Giovanna Marturano

Voi forse non sapete, come stavano i parenti, soprattutto la moglie, anche fresca sposa, a Ventotene. Allora: il confinato che riceveva dei parenti, lui doveva affittare una camera. Questa camera doveva essere esterna, doveva avere una finestra, con le grate. Perché la chiudevano a chiave la notte. Poi a intervalli regolari venivano con un bastone, (battevano) così su queste cancellate, ran dan dan dan. Poi avevano il diritto, il dovere, di vedere che facevano questi qua. Certo, per due sposi non era… Poi vedevano se le finestre, le barre, erano tagliate; a noi ci chiusero senza gabinetto, allora ‘n ci avevamo manco il gabinetto. Però quello che ci affittava la casa quando ci ritiravamo ci teneva aperta la porta per andare al gabinetto. Contenti e imbrogliati. Questa è la cosa. Poi il giorno dopo le nozze Adele Bei ci fece gli gnocchi, non so come ha trovato la farina, perché non c’era niente, era in tempo di guerra. Ci fece degli gnocchi – così, tanto così. Dico: «Adele tu sei esagerata, che credi che siamo l’orco e la moglie dell’orco?». Ce li siamo mangiati tutti. Una fame tremenda, ma lo sai che a un certo punto sparirono i gatti delle compagne; gatti a Ventotene non c’erano più. Lepre in salmì. Anche i topi si mangiavano.
Le fave col baco. La seconda volta che andai, dopo sposata. Allora, ti piacciono le fave? Primo piatto: fave a minestra con due cannolicchi. Secondo piatto, fave col sugo. Terzo piatto, c’era il dolce – ci mettevano un po’ di cioccolato, quello che trovavano, e facevano un dolce. Solo fave, ed era una preparazione per quando la guerra noi abbiamo mangiato il prosciutto badogliano coi vermi. Ogni giorno, ogni volta che prendevo il prosciutto, levavo tutti i vermi, cuocevo la parte che dovevamo mangiare, e chiudendo gli occhi ce la mangiavamo. E, com’era buono, per carità. Naturalmente mio marito non li voleva vedere i vermi; la compagna dove eravamo nascosti neanche lei. Io ero più coraggiosa evidentemente, in questo senso, e allora mi chiudevo a chiave perché se no sbirciavano e non mangiavano più niente. Dico: «Ahò, volete spreca’?».
Durante la Resistenza, durante il periodo clandestino, facevamo una vita terribile perché non avevamo il tempo di cucinare e c’era poco da mangiare. Allora si metteva in una stufa, si metteva questo pentolone, si gettava tutto quello che avevamo da mangiare per la giornata.. Una volta mi ricordo che dividemmo un uovo in tre; io lo sbattei forte per farlo gonfiare e poi lo misi a cuocere, senza olio perché l’olio non si trovava, e gridavo: «Venite, venite a tavola, se no si sgonfia». Se avevamo un uovo era tanto, e anche un uovo in tre era tanto.

Da “Note sul canto antifascista”
«I coniugi Ortenzi Giuseppe fu Bernardino e Cenci Maria Angela fu Tommaso, entrambi da Monterotondo ed ivi residenti, riferirono il 20 u.s. mese a quell’Arma come più volte e per ultimo durante tutta la giornata dal 18 – lavorando in una loro vigna – avessero udito la proprietaria di altro fondo attiguo Salvatelli Florinda fu Domenico e fu Sensi Carolina, nata anch’essa a Monterotondo il 18 marzo 1890 ed ivi residente cantare a squarciagola canzoni da essa improvvisate e adattate su motivi popolari contenenti invettive e minacce a S. E. il Primo Ministro (Benito Mussolini). L’Arma esperì le indagini del caso e la Salvatelli – ricercata dai militari e trovata la sera del 21 u.s. – confermò, con cinismo, il fatto attribuitole, dichiarando anche per iscritto che simili canzoni – da essa stessa inventate – ha cantato in passato quasi tutti i giorni ed è disposta a cantare sempre, in qualsiasi tempo e luogo».

Luciana Romoli, antifascista romana, canta una popolare parodia comunista di Spartacus Picenus (T’amo con tutto il cuore/ O rossa mia santissima bandiera)1, e racconta:
«Mia madre, quando eravamo piccole, io sono la terza di dieci figli, mia madre cantava questa e cantava Addio Lugano bella, poi diceva: ‘adesso che l’avete imparate non l’andate a canta’ de fori se no ce fate arresta’ a tutti’. Questa quando ci addormentava – t’amo con tutto il cuore… – questa poi si canta lentamente, proprio lentamente. Mia madre la cantava lentamente».
Durante il fascismo, come sappiamo da moltissimi esempi, questi canti sono proibiti e pericolosi. Ancora Luciana Romoli: «Mio zio Angelo (…) andava nelle osterie e quando andava all’osteria si metteva a canta’ le canzoni antifasciste. Cantava ’e parodie contro Mussolini; e quindi l’arrestarono». Nel 1939, cinque contadini di Monterotondo, sorpresi da un vicino a cantare l’Internazionale, furono spediti per due anni al confino. Se si canta, dunque, è bene non farsi sentire, cantare a voce bassa (l’errore dei cinque di Monterotondo e di Florinda Salvatorelli è che cantavano «a voce piena», «a squarciagola»), in casa («non l’andate a canta’ de fòri», ammoniva la madre di Luciana Romoli alle figlie che la tradizione del canto sovversivo la succhiavano praticamente col latte materno), in luoghi rinchiusi come il carcere o il confino (dove Anna Menichetti impara dal padre le canzoni antifasciste e Mastrobbio si perfeziona nell’arte del violino), o che si credono protetti, come l’osteria o le scampagnate del Primo Maggio («cantavano Bandiera rossa in campagna, andavano in campagna e cantavano Bandiera rossa contro il fascio», ricorda Carolina Zancolla). È solo in queste circostanze eccezionali, fra l’altro, che è possibile cantare insieme e non da soli. Cantare da soli significa, infine, cantare per se stessi – ed è quello che fa Florinda Salvatorelli, inventando canzoni, strofette e parodie che nessuno deve sentire.

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