«Il nonno scese in cantina e ingurgitò mezza bottiglia di candeggina. Chiamarono l’ambulanza. Ricordo che mio padre mi venne a prendere a scuola con la macchina e ci dirigemmo in ospedale. Il nonno morì durante la notte. Chiese perdono a mio padre per non averlo aiutato a conservare la casa, per quei maledetti buoni del tesoro».
Cioè?
«Gli consigliarono di mettere i soldi in un investimento finanziario, piuttosto che aiutare il genero. Gli anni in cui dall’Argentina spediva regolarmente denaro alla famiglia lo avevano deluso e indurito. Invece di risparmiarli quei soldi venivano sperperati al gioco. Quando morì trovarono il materasso di una sorella imbottito di ricevute del lotto».
Il suo cinema temo non le abbia dato soddisfazioni economiche. Come ha campato?
«Ho avuto la fortuna di insegnare nelle scuole medie. Il cinema era il mio giardino segreto. La mia ossessione. Perfino patologica. In una certa fase della mia vita ero sempre con la macchina da presa in mano. Anche mentre mangiavo filmavo quello che avevo davanti».
Cosa ha voluto dire vivere ai margini del grande cinema?
«In Italia è difficile dire: voglio essere ai margini. Lo sei, fatalmente. E allora devi avere una grande forza spirituale per sopportare tutto questo. Diversamente dagli Stati Uniti, l’Italia non ha mai sostenuto o creduto nel cinema underground. Ha sempre pensato che fosse il frutto di quattro spostati. Oltre me metterei Pia Epremian, Antonio e Adamo Vergine, Gianfranco Brebbia, Alfredo Leonardi. Ma penso anche ai poeti Patrizia Vicinelli e Adriano Spatola. Tutto questo è sparito o è mutato profondamente ».
Per lasciare posto a cosa?
«Dovrei dire a una grande malinconia o forse frustrazione. Non lo so».
Cos’è per lei il fallimento?
«È una parola dura da attribuire a se stessi. Oltretutto, non avendo mai pensato al successo come a un obiettivo condivisibile, non ho mai subito un vero fallimento. A volte, però, se sono depresso, mi capita di dire: Tonino sei un fallito. Ma è solo un momento. Passa. Se devo immaginare una definizione nella quale riconoscermi, penso di essere un vinto non vinto».
In equilibrio tra due stadi.
«Mi piace il mondo dei vinti. Aiuta a riflettere, in una realtà che ha perso il senso della vita. Ho girato qualche tempo fa un lungo documentario sulla prostituzione che forse vedrà la luce nei prossimi mesi. Si chiama Libera vita, parla del modo in cui i vinti possono ritrovare la parola».
Perché ha scelto la prostituzione come tema?
«Per me l’immagine di chi vende il proprio corpo è anche l’immagine del rapporto col mondo. In fondo, noi tutti ci vendiamo e la prostituzione è solo il gesto estremo».
Le piacciono i gesti estremi?
«Ne subisco il fascino. Non avendo io coraggio, vivo il gesto estremo attraverso gli altri. Vorrei vivere tante vite e il cinema mi dà questa illusione».
Sono vite in prestito.
«Sono i debiti esistenziali che abbiamo verso le persone interessanti che quasi mai sono di successo. Poi, quando fai il cinema sai anche di essere tu, con la tua misura. Il giorno che mi accorgessi che non fossi più io non potrei più farlo».
È così forte l’identità con quello che fa?
«È la ragione per cui ho fatto del cinema fuori dalle produzioni, le quali sanno che non potrei mai farle guadagnare. Il mio è un cinema nel tempo. Il cinema delle produzioni limita il tempo a disposizione. Non fa per me».
Le fa così ribrezzo il denaro?
«No, so che il denaro, poco, mi permette di vivere. Ma non è la mia priorità. È come una discarica: serve ma non ci vivrei mai dentro».
Anche il cinema trash è una forma di estremo. Non l’ha mai interessata?
«Mi viene in mente il film di Paul Morissey, Trash, prodotto da Andy Warhol. Il solo a una certa altezza dello spirito. Per il resto sono solo cose dozzinali. È vero, il cinema trash è estremo, come il porno. Ma non me ne frega niente. C’è già tanto trash nella vita. Mi basta ».
Che cinema si sente di difendere?
«Mi piacciono le cose mobili che scorrono come fiumi d’acqua. Le racconto un piccolo episodio. Con la mia compagna Mariella facemmo una vacanza in Afghanistan. Era estate. Arrivammo prima in Grecia. Poi a Istanbul. E lì con i pullman di linea ci dirigemmo verso l’India. Mariella fu morsa da un gatto. Dovemmo più volte fermarci per fare l’antirabbica. Fu un viaggio estenuante. Finalmente entrammo a Kabul».
Che anno era?
«Il 1969, lo stesso anno in cui andò Bruce Chatwin. Ci recammo nella Valle dei Budda, filmai tutto. Le donne portavano già il burka e gli uomini malgrado un’aria truce erano gentili. Si tenevano spesso per mano. Un giorno per strada vidi dell’acqua scorrere ai lati. Di colpo mi assalì una visione e rividi il volto di mio nonno che sorrideva. Era un volto rimosso da anni. Feci qualche metro e svenni».
Che significato attribuì all’episodio?
«Per la prima volta stavo rivivendo intensamente qualcosa che apparteneva al passato. Il fluire di quell’acqua me lo aveva riportato alla mente. Ed era come se quel povero suicida avesse voluto dilatare la sua morte. Ogni volta che faccio cinema è come se dilatassi la mia morte. Ne rinviassi la presenza. Nel fluire delle cose ».
C’è sempre un modo per rimandarla?
«Non lo so, non ho fretta di morire. Il mio diritto alla vita, per non morire calpestato. Non ho fretta di essere vecchio. Come tutte le posizioni che difendono qualcosa, difendo il mio tempo. Non c’è più nessuno che ci insegna a stare nel tempo, con un inizio e una fine, con lentezza e memoria».
Il tempo cinematografico è diverso dal tempo della vita.
«Il tempo del cinema è un tempo costruito, come insegna il montaggio. L’altro è un tempo vissuto. È la stessa differenza tra leggere il proprio destino sul palmo della mano o all’interno del proprio cuore. Non è agevole parlare di vita, soprattutto oggi che la vita è irrimediabilmente offesa. Forse è di questa che il cinema deve occuparsi. Nel fango raggrumato della verità, l’offesa è la testimone indispensabile del nostro tempo».
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Tonino De Bernardi ( Chivasso, 1937) è un regista. underground e sperimentale.
I suoi film, raramente immessi nella distribuzione commerciale, hanno ottenuto riconoscimenti a livello nazionale e internazionale
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