L’ultimo covo delle Brigate rosse nascosto tra i muri di un ospedale

Scoperto a Milano durante i lavori al Policlinico Dentro, le carte originali di una cellula attiva nel 1975

MILANO  È solo un pannello, ma per i carabinieri funziona come una macchina del tempo. Policlinico di Milano, alcuni giorni fa. Sono, questi, lunghi anni di lavori di ristrutturazione dentro l’ospedale e, padiglione dopo padiglione, si è arrivati al Granelli. Due operai salgono in cima a una scala, che porta ai sottotetti. Basta un colpo di martello e si accorgono che qualche cosa non va. Sembra venire giù tutto. Chiamano il titolare della ditta. Provano insieme a capire che cosa succede e cade per terra un fascicolo: sull’intestazione, la stella a cinque punte delle Brigate Rosse, la formazione terroristica comunista, tra i protagonisti degli anni di piombo.

Siamo dunque di fronte al primo caso in Italia di «covo» organizzato dentro un ospedale pubblico e, per di più, scoperto dopo fiumi di processi e parole di pentiti a quarant’anni di distanza. Difficile che si possano riaprire chissà quali indagini, ma – risulta a Repubblica – il materiale è assolutamente «originale ». Non ci sono solo fotocopie. Forse per questo, la notizia è stata tenuta segreta.

Andò molto diversamente nell’ottobre 1990, in un altro caso di ritrovamento, del tutto simile. Il proprietario di un bilocale in via Monte Nevoso decide di ristrutturare. E là, dove, nel 1978, c’erano state un’irruzione dei carabinieri e la cattura di alcuni brigatisti, un muratore scopre una struttura di cartongesso. Protegge centinaia di fotocopie, tra cui non poche pagine del memoriale scritto dal presidente democristiano Aldo Moro prigioniero a Roma. Più 60 milioni in vecchie banconote e varie armi funzionanti. In un pomeriggio di sole, la Digos di Achille Serra porta le cineprese: «Non si sa mai con i dietrologi italiani, il materiale è ancora dentro il muro, noi filmiamo, se inventano storie gli mostriamo i fotogrammi».

Con i progressi scientifici fatti grazie al Dna per l’identificazione delle persone, in quest’estate del 2016 si sta procedendo in un’altra maniera. Anzi, se l’«operazione Policlinico» non è passata del tutto inosservata, dipende dalle unità cinofile: i cani che fiutano esplosivi e gli olii delle armi sono stati mandati, per ordine della procura, lungo il piano. «Un’esercitazione », è stato spiegato ai curiosi.

Il materiale raccolto è da giorni sotto esame e si possono dire soltanto due cose. La prima è che non ci sono armi e non ci sono collegamenti, stando a indiscrezioni, con quello che resta dei più gravi omicidi firmati dalle Br milanesi, «colonna Walter Alasia, brigata Fabrizio Pelli», e cioè l’agguato mortale contro il medico Luigi Marangoni, il più giovane direttore sanitario italiano. Semplicemente uno che non s’era voltato dall’altra parte durante gli atti di sabotaggio di alcuni infermieri contro la banca del sangue: li aveva denunciati. Tre capoinfermieri, ritenuti d’accordo con Marangoni, poco dopo vengono azzoppati a colpi di 7.65. «Gambizzati», come si diceva allora. Lui rifiuta la scorta: «Non voglio vedere morire poliziotti al posto mio». Il 17 febbraio 1981, mentre il direttore sanitario del Policlinico Marangoni esce dal garage di casa, al volante della sua auto, incontra quattro terroristi, armati di mitra e di bastoni acuminati. Oggi portano il suo nome a Milano i nuovi giardini e l’ala del Policlinico dedicata ai trapianti.

A indicare Marangoni come bersaglio era stata un’infermiera del Policlinico condannata all’ergastolo nel primo processo milanese: uscita dal carcere, è diventata una collaboratrice di don Gino Rigoldi nei progetti di recupero sociale. Un percorso simile a quello di altri brigatisti, ma contestato – nonostante i numerosi e vibranti incontri in nome della «giustizia riparativa», basata sul dialogo tra autori e vittime del reato – dalle associazioni dei familiari delle vittime (e non solo): «Come possiamo perdonare se non spiegate com’è andata?». Argomento che sembra sottindere l’altro dettaglio emerso. Riguarda – ripetiamo, sono indiscrezioni attendibili, ma non c’è l’ufficialità – alcuni elementi del tutto inediti su un attentato milanese non mortale, avvenuto nella primavera del lontano 1975. Un gruppo di brigatisti entra nello studio di Massimo De Carolis, avvocato, democristiano, leader della cosiddetta «maggioranza silenziosa »: blocca lui e i suoi assistenti, lo sottopone a un breve «processo del popolo» e gli spara alle gambe. Con una 7.65 con silenziatore. Quella pistola non aveva sparato solo a Milano, ma anche a Padova, il 17 giugno dell’anno prima: un commando, con una scusa, era entrato nella sede del Movimento sociale, ma i due militanti che c’erano, il carabiniere in congedo Giuseppe Mazzola e l’agente di commercio Graziano Giralucci, avevano reagito, finendo ammazzati. Viene considerato il primo omicidio commesso e rivendicato dalle Brigate rosse.

Quando De Carolis venne «condannato», i suoi «giudici» si appropriarono del tesserino di riconoscimento da deputato. Ma nessuno, allora, aveva messo in relazione De Carolis e la cosiddetta «brigata ospedaliera». Oggi lo si può fare perché, insieme con le rivendicazioni e i lunghi documenti inneggianti alla lotta armata, il tesserino è riemerso dal muro del più antico ospedale milanese. Sembra un reperto archeologico? Eppure, il sangue sulle nostre strade scorreva davvero.

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