Lo spirito di un’utopia

VENEZIA  Ogni lettore del manifesto che è uno dei pochi luoghi di resistenza ancora presenti nella nostra società, avrà una diversa lettura del film Assalto al cielo di Francesco Munzi (fuori concorso) a seconda della sua personale esperienza di quegli anni, e così sarà per tutti gli altri compagni che hanno fatto politica dal ’68 al ’77, dalle manifestazioni per il Vietnam a Parco Lambro

Questo è il periodo scelto dal regista di Saimir e Anime nere (nato nel ’69, da bambini dice, giocavamo a poliziotti e brigatisti) «non volevo cadere nel film storico, è un periodo pieno di contraddizioni, ci dice, dove è impossibile toccare tutti gli argomenti. Volevo raccontare il sentimento di quegli anni».

Non ci sarà mai un film che possa veramente raccontare lo spirito di quegli anni che non sia il cinema underground: il racconto televisivo, la narrazione con personaggi e intrecci appartengono a un’altra epoca, quella precedente o quella molto successiva che ha cercato di catturarne qualche elemento. Una società come questa dalle immagini tanto frammentate ci sembra in sintonia il film di Munzi che è andato alla ricerca dei materiali meno manipolati dai commenti, il più possibile girati dagli stessi cineasti (pochi e ben conosciuti) che partecipavano al movimento.

Utilizza senza voce fuori campo, materiali spesso inediti del Movimento operaio e democratico, Luce, Cineteca di Bologna o della Fondazione Alberto Grifi per il Parco Lambro (girati in videotape mentre i tre rulli in pellicola dovrebbero essere presto restaurati) e delle teche Rai che lì aveva i suoi operatori.

Potrebbe sembrare impossibile raccontare dieci anni di movimento in un’ora di montaggio, ma i diversi spettatori ne faranno un uso differente, dal ricordare i volti conosciuti o quelli scomparsi, a collegare le scene mancanti a stupirsi di fronte a tanto fervore oggi che domina il disgusto per la politica. Erano anni più di parole che azioni, oltre al fatto che nell’ottica di un operatore il lancio di una pietra vale più di un discorso (e dove saranno finiti quei fiumi di parole?).

Il regista ci dice: «Ho voluto seguire il tema dell’utopia dell’assalto al cielo, lo slancio vitale che in seguito si frantumerà in mille rivoli e poi arriva al ’77, quelli della lotta armata. Non volevo che questo tema prendesse il sopravvento. Il film segue la cronologia, si permette di lasciare buchi, prova a guardare con il ritmo di quel tempo. Manca la voce narrante, l’abbiamo trovata nel ritmo del montaggio».

Gli chiediamo se crede che possa arrivare agli spettatori più giovani: «Ho voluto mettere un ponte con l’oggi, nel senso che vorrei fosse trasmessa quell’utopia oggi che la politica significa corruzione. C’è attenzione da parte dei giovani che lo hanno visto, è come se avessero visto per la prima volta piazza Fontana o Brescia. Questo significa che siamo a corto di memoria. Ho avuto bisogno di tornare alla fonte, di tornare ai documenti».

Pensiamo alla maniera con cui all’epoca vedevamo passare in televisione spezzoni di riprese, in cui i fatti venivano stravolti, ridotti in seguito a frammenti inutili (ed è il motivo per cui Grifi aveva sempre avuto il controllo totale del suo materiale). In questo caso Munzi dà un’impronta autoriale che individua momenti chiave, discorsi non interrotti: «Mi sembra uno strumento che serve a riportare all’attenzione questa materia, ho avuto bisogno di tornare alla fonte, tornare ai documenti. Ho scelto il materiale più forte cercando di farlo respirare».

Nel corso del film, diviso idealmente in tre parti, ci sono cartelli che suggeriscono di fermare la proiezione e aprire il dibattito: «Li abbiamo trovati nei filmati e sono stati montati lì non a caso: uno è stato posizionato dopo Piazza Fontana, l’altro dopo il forte intervento dei genitori di Walter Alasia».

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