In piazza Duomo l’ultimo atto di un grande artista felice di non essere un moderato

Milano. Il figlio Jacopo: «Era ateo e comunista, eppure non ha mai smesso di parlare con mia madre e di chiederle consiglio»

MILANO. Fine. La commedia è stata strepitosa, l’ultimo atto mette tristezza. Qualcuno si consola dicendo che c’entra la pioggia che bagna tutte le cose e tutte le persone. Non ci voleva. Invece è un tempo perfetto. Jacopo Fo prima di allontanarsi verso il cimitero Monumentale saluta piazza Duomo con un gesto antico, il pugno chiuso: “Grazie compagni, grazie”. Dice compagni. Fine dello spettacolo. La cosa ci riguarda. Il figlio ha pianto durante il discorso ma c’è stato un momento, uno solo, dove ha cercato anche di rincuorarci facendoci sorridere. Come Dario Fo. “Noi siamo comunisti e atei però mio padre non ha mai smesso di parlare con mia madre e chiederle consiglio. Siamo anche un po’ animisti, perché non è possibile morire veramente, dai! Sono sicuro che adesso sono insieme e si fanno delle gran risate”. Comunisti e atei. Un’altra cosa che ci riguarda. La facciata del Duomo, gonfia di pioggia, sembra più grande di quella che è.

Migliaia di persone nascoste sotto gli ombrelli hanno salutato Dario Fo per l’ultima volta. Non troppe. La piazza non era piena come avrebbe potuto. O dovuto. Molti altri si sono nascosti rimanendo a casa. Il premio Nobel anche da morto continua a dividere e provocare, sia la destra che la sinistra. Un segno di vitalità, una ferita aperta con cui bisognerà fare i conti. Le occasioni non mancheranno, a Milano è già arrivato il tempo dei monumenti al ricordo di un genio. Postumi.

L’amico di una vita, Carlo Petrini, ha ricordato ai presenti e agli assenti che nessuno può permettersi di separare l’artista dall’uomo politico. Nemmeno le persone in buona fede. “E ben lo sapevano quei sovversivi dell’Accademia svedese che motivarono il suo Nobel con una sintesi perfetta: seguendo la tradizione dei giullari medievali dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi. E noi dobbiamo riaffermare con forza questa simbiosi strettissima tra la sua arte e il suo impegno politico. Pensare a Dario senza la politica è come dalle mie parti se dovessimo pensare a un buon vino fatto senza uva”. Per non piangersi addosso, il fondatore di Slow Food invita la piazza a fare quello che avrebbe suggerito il suo amico: “Noi stapperemo le bottiglie, canteremo, balleremo, faremo l’amore, ritroveremo la gioia straordinaria di chiamarci compagni e compagne non solo perché condividiamo il pane, ma anche la gioia, la fraternità e questo nostro amore reciproco, senza cattiverie”. La piazza ascolta in silenzio.

Le guance di tutti sono bagnate, ma scende qualche lacrima quando prende la parola Jacopo Fo. Lui per primo si commuove. Per suo padre che quando era piccolo, mentre si faceva la barba, gli ha raccontato la storia di un popolo che ha avuto un’idea geniale per battere i potenti asserragliati nella fortezza inespugnabile: riempiamola di merda! Si arrenderanno. Ecco, come si fa. Bisogna trovare un’idea. Ritrovarla. “Può succedere che la gente senza potere, che non ha nulla da perdere, il potere possa prenderlo” – questo l’insegnamento sul bordo della vasca da bagno.

La Banda degli Ottoni è un’eco che ogni tanto rilascia nell’aria le note di Bella Ciao, ma la canzone dell’ultimo atto è un’altra: Stringimi forte i polsi. Una canzone d’amore. L’ha scritta Dario per Franca nel 1962. In un giorno così la parte del figlio deve essere la più difficile da sostenere: “Nonostante quello che è stato fatto loro, non hanno mai piegato la testa. In scena c’era la loro vita, non era la semplice capacità istrionica. La gente amava Dario e Franca per questo, non perché erano bravi attori, ma perché hanno visto qualcuno che c’era veramente”.

L’applauso è un solo fremito perché scende qualche lacrima, piange la generazione rimasta folgorata ai tempi della Palazzina Liberty occupata. Oggi hanno tra sessanta e settanta anni. Sono maggioranza in questa piazza. Ancora non mollano. Non smette mai di piovere, arrivano e se ne vanno via da soli.

I giovani, per quello che significa dire “giovani” al funerale di un novantenne che non ha smesso di agitarsi e fare casino nemmeno da moribondo, questa volta hanno perso un’occasione. Un premio Nobel è morto, c’era pure la scusa della letteratura. Le scuole non ci sono, sarebbe stato un sabato perfetto per un’occasione unica e non rituale.

Non c’è rumore né festa, a Dario Fo sarebbe dispiaciuto. Il centro sociale Cantiere si presenta con l’insegna dell’unica presenza organizzata, con lo striscione Io non sono un moderato. Era il manifesto di Dario Fo quando nel 2006 presentò la sua folle candidatura a sindaco di Milano.

Sul palco, vicini a Jacopo Fo col pugno chiuso, ci sono i nuovi sindaci di una nuova stagione politica difficile da digerire per questa piazza. Beppe Sala, Chiara Appendino, Virginia Raggi. C’è anche Beppe Grillo. “Ora facciamo un po’ di silenzio su Dario”, ha detto il capo dei Cinque Stelle.

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