Scuola di classe. A proposito della ministra Valeria Fedeli

Il dibattito su Valeria Fedeli è segno del regresso civile e politico del nostro paese, purtroppo anche di qualche pezzo della sua sinistra

Io non so come siano andate le cose per quanto riguarda i titoli di studio di Valeria Fedeli. Penso si sia probabilmente trattato di definizioni imprecise che spesso vengono date ai diplomi da scuole o corsi anomali come quello che Valeria ha frequentato a suo tempo a Milano.

E che dunque non ci sia stato, da parte sua, alcun dolo nel recepire quel documento.

Valeria Fedeli non appartiene a quella generazione e dunque immagino che di scuole ne abbia frequentate ben più di Riccardo. Ma è scandaloso che si sia sviluppata una campagna come quella che infuria ora sui giornali, col contributo anche di qualcuno che così pensa di attaccare il governo.Sono però scandalizzata per il dibattito che ne è seguito, segno – questo sì davvero – del regresso civile e politico del nostro paese, purtroppo anche di qualche pezzo della sua sinistra. Ma come sarebbe: parlamentari e ministri devono essere tutti laureati? E cioè la rappresentanza politica dovrebbe esser circoscritta ai ceti che per tradizione (e generalmente non per merito) hanno completato il curriculum degli studi fino all’ultimo grado? Ma vi rendete conto di cosa c’è dietro questa orrenda polemica? Uno dei vanti dei comunisti, che tutt’ora rivendico, è di aver avuto parlamentari operai e braccianti, che spesso non avevano neppure completato le elementari. Ne ricordo molti. Con rimpianto. In particolare l’ultimo con cui ho parlato (per via di un libro che stavo scrivendo), solo un paio di anni fa, scomparso ormai come quasi tutti: Riccardo Di Corato, senatore e bracciante, protagonista di storiche lotte pugliesi.

Ma  Fedeli – immagino l’obiezione – non è solo parlamentare, è Ministro proprio dell’Istruzione, che ha dunque competenza sull’Università di cui non può occuparsi visto che non l’ha frequentata. Ebbene, proprio questo a me pare un dato positivo: mi piace pensare che sulla formazione universitaria venga rivolto finalmente lo sguardo di chi ne è stato escluso. In un tempo in cui il valore della competitività a tutti i costi sta diventando il valore centrale del nostro sistema, e si vorrebbero trasformare ovunque le università – secondo l’orribile modello britannico – in macchine per selezionare una élite prestigiosa (e privilegiata), lasciando che gli altri si arrangino e vengano via via marginalizzati, ben venga chi per propria storia terrà conto che quel che serve è l’inclusione. Che, cioè, un buon sistema educativo è quello che tiene conto dell’ultimo e non solo del primo.

(La mia, sia chiaro, non è la difesa di questo governo, né delle posizioni politiche di Valeria Fedeli, compagna con cui in passato ho persino condiviso un partito, ma da cui oggi sono politicamente assai distante. La mia è rabbia per il tipo di posizioni che sono emerse attorno alla vicenda dei suoi titoli di studio).

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