Cresce la mobilitazione per i giovani arrestati da oltre due mesi Accusati di tentata violenza, ma le “prove sono inconsistenti”
BERLINO. Fine custodia cautelare: mai. È barbarico, ma è la legge tedesca. Ne stanno facendo le spese cinque ragazzi italiani arrestati oltre due mesi fa, nei giorni del G20 di Amburgo, a margine degli scontri tra polizia e manifestanti. Nessuno di loro è stato colto in flagrante, ma sono accusati di “tentata violenza” o “disturbo della quiete pubblica” in base a prove a dir poco inconsistenti. E rischiano pene micidiali, come fa pensare la sentenza inflitta il 28 agosto a un ragazzo olandese, Peike S., il primo condannato del G20 di Amburgo. I giudici gli hanno dato due anni e sette mesi per aver tirato due bottiglie vuote contro un poliziotto. Una risposta zelante dei magistrati alla richiesta del sindaco della città anseatica, Olaf Scholz, di usare la “linea dura” contro i manifestanti, formulata all’indomani del disastroso vertice. Un summit gestito in maniera dilettantistica anzitutto dalle autorità cittadine. Jamila Baroni è la madre di uno dei cinque italiani, Fabio Vettorel. È appena andata a trovare il figlio diciottenne nel carcere giovanile di Hahnofersand. «Sta abbastanza bene ma è stanco di questa situazione. Fabio non sa ancora spiegarsi perché lo hanno arrestato », ci racconta al telefono. Da Belluno, Jamila si è trasferita praticamente ad Amburgo da due mesi. «Certo, lui era convinto che andare al summit di Amburgo fosse la cosa giusta da fare, ma era la sua prima grande manifestazione, il suo primo viaggio importante all’estero». I media tedeschi parlano di un arresto avvenuto mentre Fabio prestava soccorso a una ragazza che si era fratturata una gamba e cercava di evitare che venisse travolta dalla folla. Persino per la conservatrice Welt sono prove ridicole contro di lui. E dal 3 agosto, dopo un’intervista in tv, Fabio ha subito una restrizione della custodia cautelare: per tre settimane non ha potuto vedere nessuno.
Dal 7 luglio scorso lui, Riccardo Lupano, Emiliano Puleo, Alessandro Rapisarda e Orazio Sciuto sono rinchiusi a Billwerder o a Hahnofersand, quasi tutti per fumose accuse. Che stiano in carcere da allora è frutto di un’altra norma discutibile. I giudici hanno rifiutato a tutti il rilascio perché ritengono ci sia «il pericolo di fuga ». I tedeschi, invece, sono tutti fuori. Il console italiano a Hannover, Flavio Rodilosso, interpellato al telefono, sottolinea che «hanno rilasciato i tedeschi perché hanno la residenza in Germania. Che possano comunque fuggire, è un altro discorso». Ma la logica astrusa è che chi non ha la residenza in Germania, è rimasto dietro le sbarre. E nella sua interrogazione parlamentare sul caso, Laura Puppato (Pd) ha ricordato che al livello internazionale il Paese di Merkel è famoso per una carcerazione preventiva «particolarmente afflittiva e discriminatoria nei confronti dei cittadini stranieri».
Peraltro, c’è attesa che il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, risponda alle tre interrogazioni parlamentari che sono state già presentate sul caso. Nei prossimi giorni anche il senatore Luigi Manconi ne deporrà una. Intanto, gli avvocati sono inferociti: Gabriele Heinecke parla, nel caso di Fabio, di un impianto accusatorio in cui gli starebbe cercando di buttare addosso «tutto quello che è accaduto durante il summit di Amburgo». Martin Dolzer, deputato della Linke che sta seguendo il caso dall’inizio, sospetta di un «segnale forte che il governo e parte della giustizia tedeschi vogliono dare a tutti coloro che in futuro vorranno protestare in Germania».
Lo pensa anche la madre di Emiliano Puleo, trentenne di Partinico, militante di Rifondazione: «Mio figlio non c’entra assolutamente nulla con i black bloc», ci dice al telefono dalla Sicilia. Fina Fontana racconta che «non c’è uno straccio di prova, né fotografica, né video» a carico del figlio; c’è un poliziotto che sostiene di averlo visto lanciare due bottiglie. «Pensi che si ricordava le marche delle bottiglie, ma non il fatto che Emiliano porti la barba o che zoppicasse per una storta del giorno prima». Secondo la procura, si sarebbe macchiato di “tentate lesioni”. A Fina viene una risata amara: «Mio figlio, in 30 anni, non ha mai fatto male a una mosca».
Fonte: TONIA MASTROBUONI, LA REPUBBLICA
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