Ricordo di un Guevara africano

il presidente del Burkina Faso Thomas Sankara, eliminato insieme alla sua rivoluzione il 15 ottobre di trent’anni fa

Muraglie verdi. Giustizia e ambiente, diritti delle donne e presunto «debito» dell’Africa, disarmo e cultura. Le politiche ante litteram del buen vivir nelle parole e nei fatti concreti di un visionario

Avanza lenta tra mille intoppi la Grande Muraglia Verde, un serpentone alberato che snodandosi dalla Mauritania a Gibuti dovrebbe salvare dal deserto un bel pezzo d’Africa. Burkina Faso compreso. Lanciata dalla Comunità degli stati del Sahel e del Sahara nel 2005, viene definita un’iniziativa «pioneristica» su Wikipedia. Quindi il discorso ai «compagni forestali» che pubblichiamo qui dimostra come i 30 anni dall’assassinio del suo autore, che ricorrono oggi, siano passati invano.

E quanto in meglio avrebbe cambiato il mondo l’opera che Sankara riuscì solo ad abbozzare, lo si capisce anche da come quella sua visione organica ritorni oggi nelle pratiche di tanti movimenti di nuova concezione, alla convergenza tra più fronti, tra corpi e territori. Sapendo che la liberazione o sarà totale o non sarà.

Ambiente, disarmo, donne, il «debito» presunto, nuovi schiavismi e colonialismi finanziari, sovranità alimentare e cultura, molta cultura, soprattutto sonora e visionaria. Una politica “permaculturale”, in cui l’etica marxista è dinamizzata nel contesto, la «de-crescita» è per forza «felice» e la felicità un diritto. Tutto è ante litteram in Sankara, come forse lo fu solo in Amilcar Cabral, che in più era agronomo e poeta, ma non ebbe poi neanche quei quattro anni, dal 1983 al 1987, in cui il President du Faso guidò la rivoluzione pacifica scatenata nel «paese degli integri».

Il «Guevara africano». Rispetto al Che aveva meno esperienza e meno fiducia nelle armi. In compenso sapeva farci con la chitarra. La sua band si chiamava Tout-à-Coup Jazz e anche se lo dice il nome stesso – diffidare di Wikipedia – non suonava jazz. A noi interessa che mentre lui era un buon chitarrista, al servizio del tutto, il cantante, un certo Blaise Compaoré, narciso e malvagio come solo i cantanti a volte sanno essere, decise a un certo punto di uccidere il baricentro creativo della band e dunque la musica stessa. Seguono 27 anni di silenzio. E buio, malgrado le luci del Fespaco, il festival del cinema africano, sinistro bagliore del post-Sankara.

Oggi, dopo la rivolta popolare che ha cacciato Compaoré, il protagonismo civile di tanti burkinabè sembra sankarismo puro. E se anche le lotte dei Mapuche in Patagonia lo sono, allora sì che questo 15 ottobre è meno cupo dei precedenti.

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FONTE: Marco Boccitto, IL MANIFESTO

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