Scommesse poco negoziabili. Il comune come modo di produzione

Un saggio a più voci – Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio, Alfonso Giuliani e Pierluigi Vattimo – per discutere de «Il comune come modo di produzione», pubblicato da ombre corte

Non ci si può certo lamentare che del «comune» non si parli abbastanza. Non nei Parlamenti, certo. Ma nelle università e nei centri di ricerca in economia e in filosofia, sembra divenuto topos centrale. Si può malignare che appena si impone un tema rivoluzionario qual è il «comune», si scatenano tentativi istituzionali per neutralizzarlo.
Il libro di Carlo Vercellone, Francesco Brancaccio, Alfonso Giuliani e Pierluigi Vattimo – Il comune come modo di produzione (ombre corte, pp. 230, euro 20) – rappresenta una solida barriera eretta contro ogni recupero e un riuscito esperimento per darci un’immagine concreta del comune. Meglio, ci offre una discussione critica del suo concetto, dell’astrazione che lo estrae dal reale, per aprirla a un dispositivo di soggettivazione politica. Oltre a fornire un originale approccio scientifico al «comune», questo libro possiede anche una forte tonalità pedagogica e politica.

PER ORDINARE LA LETTURA del libro, scritto da quattro autori (che perciò contiene qualche utile ripetizione), dividiamolo in quattro parti: una prima decostruttiva delle teorie del comune afferenti all’ideologia economica individualista e/o socialista; una seconda parte costruttiva del concetto di «comune come modo di produzione»; una terza che affronta il tema del «diritto del comune»; e una quarta che sviluppa la problematica del comune nell’economia digitale e della conoscenza.
È noto come nell’ambito delle teorie economiche a fondamento individualista la stessa possibilità del «comune» sia stata trasformata in «tragedia», in catastrofe sociale dal paradosso di Harding, e prudentemente recuperata dalla Ostrom e dalla sua scuola, affidandola alla «buona volontà». Quanto ai prudhoniani Dardot/Laval, il comune è analizzato come idea, ragionevole ed eticamente doverosa, da costruire componendo immaginazione sociologica e militanza politica. A confronto con queste figure ideologiche, Vercellone e i suoi compagni rinnovano l’analisi realistica della «macchina» che produce il comune. Le trasformazioni del lavoro, la sua cognitivizzazione e la sua qualificazione biopolitica, da un lato, e, dall’altro, le nuove strutture tecnologiche della produzione costituiscono base fondamentale del configurarsi del comune come «modo di produzione» – alla stessa maniera nella quale lo erano la «manifattura» o la «grande industria» nella classificazione marxiana.

Ma la determinazione sociologica e tecnologica non è sufficiente. È alla lotta di classe che si svolge nel sociale per l’appropriazione di quote di reddito e di welfare, che è riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione del comune. «Quando i saperi vivi, incorporati e mobilitati dal lavoro svolgono nell’organizzazione sociale della produzione un ruolo preponderante rispetto ai saperi morti, incorporati nel capitale costante e nell’organizzazione manageriale dell’impresa»; «quando l’espansione dei servizi collettivi, permette la formazione di quelle che possiamo chiamare intelligenza collettiva o intellettualità di massa»; insomma, «quando dallo sviluppo di un’economia fondata sulla conoscenza comincia a liberarsi ’tempo’ come forza produttiva immediata» allora si sperimenta la maturazione del nuovo modo di produrre: cognitivo, cooperativo, affettivo, dunque ’comune’».

È CARATTERISTICO del pensiero di Vercellone insistere sulla funzione costitutiva di quelle che chiama «produzioni dell’uomo per l’uomo»: dall’occupazione che l’operaio sociale ha compiuto del terreno produttivo e riproduttivo e dalla nuova forma del «salario», estesa al welfare, si esprime così la nuova faccia dell’operaismo, che ridefinisce la formula: «sono le lotte che producono lo sviluppo». Ma che determinano anche la crisi: si spiegano infatti così «le tensioni economiche e sociali provocate dal proseguimento di una politica di trasformazione delle produzioni dell’uomo per l’uomo in beni privati. Essa rischia di destrutturare le condizioni più essenziali alla base della riproduzione di un’economia fondata sulla conoscenza».

IL CAPITOLO sul «diritto del comune», scritto da Francesco Brancaccio, muove dal primato accordato alla prassi sociale e cooperativa, nella teoria operaista del comune, per costruire il riconoscimento giuridico dei «beni comuni» nell’ordinamento attuale e per aprire alla possibilità di concepirli come potenze che compongono il modo di produzione in via di emersione. Due dispositivi della trattazione.
In primo luogo, un’insistenza continua, alla maniera di Pashukanis, per evitare la riduzione del concetto di comune alla fissità di una «proprietà comune», di un terzo modello di proprietà – cercando piuttosto di definire un «regime di inappropriabilità», istituito per proteggere l’accumulazione di stock di sapere, di risorse, di prodotti dalla loro espropriazione capitalistica.
In secondo luogo, il discorso si muove tra l’affermazione del concetto (il comune non è proprietà) e la determinazione teorico-politica di oltrepassare gli ostacoli che il diritto attuale pone a ogni superamento della proprietà privata (o pubblica). Mi sembra che la definitiva conclusione («la proprietà comune non si definisce come un concorso di diritti di proprietà ma come il prodotto di un insieme molteplice di diritti e di pratiche d’uso») costituisca un forte stimolo ad avanzare – componendo un quadro che, dopo aver dissolto il «terribile diritto» in un bundle of rights, lo percorre come dispositivo di soggettivazione comune.
«L’uso determina un vincolo di destinazione del bene o della risorsa nel senso dell’inappropriabile. Questo vincolo (come ricorda Paolo Napoli) non è negativo ma positivo, perché si rivela come un moltiplicatore di possibilità. Non appropriarsi di una ’cosa’, farne un uso sociale e condiviso, apre all’invenzione positiva di nuove relazioni sociali, di nuove forme di vita. L’abbandono della sfera del proprium non è un limite alla libertà ma un suo potenziamento».

QUANTO PIÙ L’ANALISI avvicina conclusioni politiche, tanto più diventa prudente. È un buon segno – significa che la discussione sul comune esce dalle biblioteche e diventa terreno di programma costituente. Questo ondeggiamento fra il teorico e il pratico, lo si verifica in più larga misura quando Vercellone e Giuliani affrontano l’ultima serie di problemi: il comune e l’economia digitale. Qui la lotta di classe per l’appropriazione della tecnologia e dei suoi usi viene in prima linea. Vercellone/Giuliani fissano tre tappe logico-storiche nello sviluppo della rivoluzione informatica e dei nuovi commons della conoscenza: una fase nella quale le principali innovazioni sorgono sospinte dal basso; una seconda di stabilizzazione della dinamica di innovazione open-science e open-knowledge, in sempre più chiaro conflitto con il modello proprietario – soccombendo tuttavia alle politiche dei grandi oligopoli, pur consolidando forme giuridiche originali come il copyleft. Si è aperta ora una terza fase, nella quale «i protagonisti del modello proprietario divengono sempre più consapevoli dei limiti che la logica di chiusura comporta per la loro stessa capacità di innovazione… Per supplire a questa impasse il capitalismo digitale e bio-tecnologico mette in opera strategie che cercano di recuperare al suo interno, per imitazione e cooptazione, il modello dei commons».

UNO SPUNTO di ottimismo c’è qui nel riconoscimento che l’innovazione nasce fuori (come già ha visto Christian Marazzi) dal circuito di impresa e se l’impresa riconcorre l’innovazione, riesce a riconquistarla pagando un prezzo altissimo all’apertura, all’invenzione e alla libertà dei nuovi commons. Non è un’illusione quella di poter rompere la gabbia. Al cenno ottimistico segue tuttavia la consapevolezza che il trittico commodification, propertization e corporatization che costituisce l’anima dell’iniziativa capitalista, resta comunque dominante. Come resistervi?
Ci sono obiettivi, impiantati sull’affermazione che la proprietà intellettuale deve essere abolita, che possono comunque fin da ora essere proposti. Ad esempio, l’interdizione della brevettabilità di tutti i beni informazionali e del vivente, una forte tassazione sui brevetti, ecc. Vi pare poco? Cominciamo, sostengono i nostri compagni: «i differenti appunti di questa agenda potrebbero costituire una potente contro-tendenza rispetto al trittico padronale, contribuendo a liberare l’economia della conoscenza dal peso della rendita e dai principali lacci della regolazione neoliberista del capitalismo cognitivo».

FONTE: Toni Negri, IL MANIFESTO

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