Un Nove­cento dai labili confini

Il bilancio di un secolo, giocato tra il 1917 e il ’45, i «pesanti» anni ’30 e i «futili» ’60, fra tradizione e desideri ribelli, il modello Weimar e il comunismo

Scaffale. Il bilancio di un secolo, giocato tra il 1917 e il ’45, i «pesanti» anni ’30 e i «futili» ’60, fra tradizione e desideri ribelli, il modello Weimar e il comunismo. Il libro di Mario Tronti, «Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero», uscito per Il Saggiatore, cancella però la storia non occidentale

Per mol­tis­simi Mario Tronti è un pen­sa­tore inchio­dato alla sua opera gio­va­nile del 1966, Ope­rai e capi­tale, che rac­co­glieva scritti mili­tanti pro­dotti nella sua breve ma intensa espe­rienza ope­rai­sta. Que­sto luogo comune dif­fuso fa torto a un per­corso ricco di svolte, che ha cono­sciuto fasi distinte, in primo luogo attra­verso una rifles­sione tor­men­tata sulla (rela­tiva) auto­no­mia del poli­tico, dove Tronti si affer­mava come stu­dioso capace di inter­ro­gare i clas­sici e il loro lascito; negli ultimi tempi, le istanze fon­da­men­tali della sua ricerca sono state la rifles­sione sulla scon­fitta sto­rica della parte in cui aveva mili­tato, rie­vo­cata nei foschi bagliori della «poli­tica al tra­monto», e una pro­ble­ma­tica rifles­sione sulla mistica e sulla spi­ri­tua­lità reli­giosa del cristianesimo.

Non tutto è chia­ris­simo nelle impli­ca­zioni con­te­nute in quest’ultima fase. In par­ti­co­lare, ha susci­tato qual­che per­ples­sità l’infatuazione di Tronti, con­di­visa con altri espo­nenti della tra­di­zione del comu­ni­smo ita­liano, per il mode­sto pen­siero di Joseph Ratzin­ger.
In ogni caso i filoni ter­mi­nali della sua ricerca con­flui­scono nel suo ultimo libroDello spi­rito libero. Fram­menti di vita e di pen­siero (Il Sag­gia­tore 2015, pp. 316, euro 20), che attra­verso poli­tica e reli­gione tende a deli­neare un sof­ferto bilan­cio del Nove­cento, della sua gran­dezza e della sua sconfitta.

Il punto di vista com­ples­sivo di Tronti sul Nove­cento appare mutato rispetto al bilan­cio che aveva tratto sul finire di quella espe­rienza. Nel 1999, nella Pre­fa­zione a Il pas­sato del Nove­cento (mani­fe­sto­li­bri) ne aveva par­lato come di un secolo senza ere­dità e senza futuro, arte­fice di «pro­gressi regres­sivi», che aveva distrutto le spe­ranze create dal grande Otto­cento, lasciando ai posteri una medio­cre deriva intrisa di nostal­gia. E nostal­gia di un Nove­cento – fin troppo cir­co­scritto, come vedremo – c’è ancora, ma oggi per Tronti il Nove­cento è «il cuore di tene­bra» che rico­no­sce come «cosa sua».

Cri­ti­che alla rivo­lu­zione russa
Non è que­sto un libro facile, ricco com’è di rimandi a una messe quasi ster­mi­nata di afo­ri­smi e cita­zioni, da cui l’autore ricava ammo­ni­menti pre­ziosi sui peri­coli cui è espo­sta la libertà nell’affermazione incon­tra­stata della «demo­cra­zia» (è il risvolto più utile e sti­mo­lante del libro). I fram­menti coi quali Tronti ha pun­tel­lato le sue rovine sono però in par­ti­co­lare il gio­vane Hegel e il gio­vane Lupo­rini esi­sten­zia­li­sta e pre­mar­xi­sta, e poi Wal­ter Ben­ja­min, Aby War­burg, ma anche il Toc­que­ville della Demo­cra­zia in Ame­rica e alcuni gesuiti del Seicento.

Lo sforzo del let­tore deve però con­cen­trarsi soprat­tutto sui nodi «forti» dell’argomentazione, riflet­tendo in spi­rito di libertà sulle impli­ca­zioni non sem­pre chia­ris­sime e con­se­guenti del pen­siero dell’autore. Ci sono dichia­ra­zioni molto impe­gna­tive, che vanno ben oltre l’antica pro­pen­sione, da Tronti teo­riz­zata assieme ad altri, sull’uso rivo­lu­zio­na­rio del grande pen­siero con­ser­va­tore. «La mia idea è che la Rivo­lu­zione d’ottobre somi­glia più alla rivo­lu­zione con­ser­va­trice che alle rivo­lu­zioni bor­ghesi». Le asso­nanze andreb­bero ricer­cate nella cri­tica resi­stente al dila­gare del Moderno nella sua veste «demo­cra­tica», che è il vero nemico indi­vi­duato e riba­dito nell’arco di tutto il libro. La cri­tica della rivo­lu­zione bol­sce­vica inve­ste non la sua ori­gine rivo­lu­zio­na­ria ma il suo svi­luppo socia­li­sta («il socia­li­smo ha scon­fitto la rivo­lu­zione ope­raia»), la volontà di fare il «socia­li­smo subito» smen­tendo la «geniale intui­zione» del Lenin della Nep, la teo­riz­za­zione di una «via socia­li­sta al capi­ta­li­smo, anzi alla rea­liz­za­zione dello svi­luppo del capi­ta­li­smo in Rus­sia diretta, gui­data, orien­tata dalla presa di potere bol­sce­vico. Un modello, oggi niente affatto estinto».

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In effetti, una gran parte delle cri­ti­che volte al prin­ci­pio demo­cra­tico sem­brano rie­cheg­giare quelle del grande pen­siero libe­rale otto­cen­te­sco, come anche della dif­fi­denza ari­sto­cra­tica nei con­fronti della «società di massa» espressa negli anni tra le due guerre da Ortega y Gas­set e molti altri. «Libe­ra­li­smo e comu­ni­smo hanno avuto lo stesso destino, di vedere le idee di fon­da­zione rove­sciarsi nel loro con­tra­rio». La ricon­ci­lia­zione tra le istanze di filoni sto­ri­ca­mente con­trap­po­sti sem­bre­rebbe pos­si­bile oggi nella comune avver­sione nei con­fronti della «demo­cra­zia reale» che stri­tola le dif­fe­renze omo­lo­gando il pianeta.Quanto all’«organismo vivente» di cui Tronti si è sen­tito «par­ti­cella insi­gni­fi­cante», il suo com­pito attuale è deli­neato in que­sti ter­mini: «Quella cosa sem­plice, dif­fi­cile da fare, che è il comu­ni­smo non ha l’esigenza etica, ma il com­pito poli­tico, den­tro la cri­tica del Moderno, di sot­trarre l’idea di libertà all’orizzonte bor­ghese, lasciando al capi­ta­li­smo la sua demo­cra­zia. Tutto que­sto libro vuole argo­men­tare que­sta tesi». La stessa que­stione dei tota­li­ta­ri­smi nove­cen­te­schi va ricon­dotta a que­sta dico­to­mia: «i tota­li­ta­ri­smi non sono un pro­dotto del Nove­cento, sono l’esito del Moderno, della sua volontà di potenza senza limiti».

Un secolo euro­cen­trico
Libertà vs. Demo­cra­zia, dun­que: que­sta è l’essenza del mes­sag­gio tron­tiano, che ricorre in tutta l’opera. Sono tante le obie­zioni che si potreb­bero muo­vere a que­sto schema, costan­te­mente e quasi ango­scio­sa­mente ripe­tuto (ed è pro­prio l’angoscia, l’assenza di com­pia­ci­mento, che dif­fe­ren­zia net­ta­mente le rifles­sioni di Tronti da quel «Grand Hotel dell’Abisso» su cui iro­niz­zava György Lukács nel 1954, cui pure este­rior­mente alcuni toni potreb­bero somigliare).

In primo luogo note­rei che il Nove­cento di Tronti sem­bra net­ta­mente euro­cen­trico e dalla por­tata tem­po­rale limi­tata. Forse anche meno che euro­cen­trico, pro­po­nendo la cen­tra­lità di Ger­ma­nia e Rus­sia, «i due attori che hanno reci­tato da pro­ta­go­ni­sti la sto­ria del Nove­cento, di fronte a cui tutti gli altri hanno fatto da com­parse. Gli Usa sono sem­pre entrati in gioco a par­tita già ini­ziata, come attac­canti di riserva». «Secolo ame­ri­cano? Falso, sem­mai secolo della Finis Euro­pae», che vede la vit­to­ria finale della Zivi­li­sa­tion sulla Kul­tur.

Oltre il colo­nia­li­smo
C’è qui la sin­go­lare ripro­po­si­zione di un limite della Terza Inter­na­zio­nale, che si disin­te­ressò com­ple­ta­mente degli Usa nelle sue ana­lisi (ma con un occhio attento rivolto all’Asia, che sem­bra man­care del tutto nel map­pa­mondo tron­tiano). A gio­chi fatti, però, una con­si­de­ra­zione retro­spet­tiva del secolo non può igno­rare o porre in secondo piano gli Stati Uniti, se non altro come luogo pri­vi­le­giato di ela­bo­ra­zione e irra­dia­zione del temi­bile Moderno che tutto pervade.

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Anche il limite tem­po­rale del secolo è con­se­guente a que­sta visione. Tutto si gioca in sostanza tra il ’17 e il ’45. Suc­cede poi una sorta di «sto­ria minore», pre­messa di quella che ci è stato dato di vivere («Que­sto è il primo dato di coscienza che dovrebbe assu­mere oggi la per­sona pen­sante»). Ma in que­sto modo si sop­prime la parte migliore del Nove­cento, quella effet­ti­va­mente rivo­lu­zio­na­ria, che vide l’ingresso nella sto­ria comune di masse ster­mi­nate di donne e uomini che si libe­ra­vano dal domi­nio colo­niale dell’Occidente. E che davano vita a una idea e a una pra­tica di libe­ra­zione che di fatto ha supe­rato e tal­volta sop­pian­tato quella antica. Senza Alge­ria, Cuba, Cina, Viet­nam, Cile, Pale­stina, Suda­frica, ecc. l’idea di rivo­lu­zione nella seconda metà del Nove­cento sarebbe cir­co­scritta in ter­mini impro­ba­bili, al gri­gio buro­cra­ti­smo degli abbracci tra Brez­nev e Honecker.La scelta della tra­di­zione è altro concetto-cardine del libro, che ricorre spesso, per­ché una tra­di­zione si sce­glie, si costrui­sce, non è sem­plice acqui­si­zione di una ere­dità, «non un dato ma un moto». L’«uso stra­te­gico del pas­sato», che ela­bora «una pro­ie­zione di senso per la cri­tica del pre­sente» porta Tronti a pri­vi­le­giare, a sce­gliere, una tra­di­zione appunto molto cir­co­scritta nello spa­zio e nel tempo. «Met­te­rei i pesanti e fon­danti anni trenta con­tro i leg­geri e futili anni ses­santa. Per supe­rare i primi c’è voluta la seconda guerra mon­diale. Per dimen­ti­care i secondi è bastata una Tri­la­te­ral Com­mis­sion», sor­vo­lando in realtà su guerre di libe­ra­zione e guer­ri­glie, colpi di stato, con­qui­ste deci­sive di libertà e di giu­sti­zia, repres­sioni spie­tate e sanguinarie.

Accanto a nota­zioni sulle quasi si può con­ve­nire, come la «neces­sità di evi­tare la trap­pola, ita­lia­niz­zante, ’77 con­tro ’68: liti di con­do­mi­nio», si leg­gono però sin­tesi dra­sti­che e quasi cari­ca­tu­rali di tutta la cul­tura degli anni Ses­santa: «Grosso favore che… i favo­losi anni ses­santa, liber­tari, cioè gio­va­nili e fem­mi­nili, hanno fatto al sistema gene­ra­liz­zato di oppres­sione libe­ra­mente volon­ta­ria che ne è seguito… Sin­gole indi­vi­dua­lità, fal­sa­mente ecce­zio­nali, e gruppi mino­ri­tari, fal­sa­mente rivo­lu­zio­nari, si sono eser­ci­tati, riu­scen­doci in pieno, a ren­dere ridi­colo qual­siasi intento e pro­gramma di con­te­sta­zione dell’ordine attuale».

Tronti pare con­sa­pe­vole in diversi punti del libro delle «dure repli­che della sto­ria» che la teo­ria ha cono­sciuto. Scrive, ad esem­pio, che «Marx aveva pre­vi­sto una pro­le­ta­riz­za­zione cre­scente. Abbiamo avuto una bor­ghe­siz­za­zione cre­scente. Non fu un errore scien­ti­fico, fu un errore poli­tico». E ancora: «al posto di una lotta cen­trale di due classi, un con­flitto dif­fuso di inte­ressi tra più attori, spesso in com­pe­ti­zione con­cor­ren­ziale tra loro». Eppure sem­bra ripro­porre una «cri­tica della demo­cra­zia poli­tica» ela­bo­rata in chiave pura­mente filo­so­fica, e sulla base di anti­chi pre­sup­po­sti, pre­scin­dendo da quella che un tempo si sarebbe detta ana­lisi con­creta della situa­zione concreta.

Dif­fi­cil­mente un indiano o un cinese (ma anche un bra­si­liano o un argen­tino) con­di­vi­de­reb­bero oggi la sen­sa­zione di vivere una «sto­ria minore», pri­vi­le­gio malin­co­nico asse­gnato esclu­si­va­mente ai cit­ta­dini dell’Occidente e in par­ti­co­lare dell’Europa che ha meti­co­lo­sa­mente orga­niz­zato il suo sui­ci­dio assistito.

La scelta «rossa»
Ma esi­ste poi dav­vero una «demo­cra­zia reale», uni­forme e dif­fusa, che informa di sé il pia­neta, sop­pri­mendo libertà e poten­zia­lità? Ci sarebbe da dubi­tarne, di fronte all’estrema varietà di modelli poli­tici e costi­tu­zio­nali che le demo­cra­zie nella loro sto­ria in dive­nire stanno vivendo; e lo stesso Tronti elenca per il pas­sato forme e modelli di demo­cra­zia costi­tu­zio­nale che favo­ri­rono e poten­zia­rono le libertà dei sin­goli come dei gruppi sociali, dal lumi­noso modello di Wei­mar alla stessa espe­rienza del comu­ni­smo ita­liano, che riu­scì a «gestire la sto­ria costi­tu­zio­nale den­tro il con­flitto sociale, anzi pro­durre sto­ria costi­tu­zio­nale per ripro­durre con­flitto sociale». È quanto si sta sman­tel­lando nel nostro paese nell’ultimo tren­ten­nio, e in forma più pre­ci­pi­tosa sotto i colpi del governo più rea­zio­na­rio della sto­ria repub­bli­cana. E qui forse vien da notare che lo spi­rito libero potrebbe mani­fe­starsi anche nelle aule par­la­men­tari, vin­cendo anti­che disci­pline inte­riori ed este­riori.
Rischia di appa­rire solo este­tiz­zante la dichia­ra­zione, più volte ripe­tuta, per cui «solo chi è stato comu­ni­sta nel nove­cento può vivere oggi fino in fondo la con­di­zione di spi­rito libero», men­tre chi non ha attra­ver­sato quella espe­rienza, «quelli che si sen­tono sull’onda della sto­ria che avanza, sono come gat­tini che di notte, abba­gliati dai fari, si lasciano inve­stire da una mac­china spietata».

1950

Sono affer­ma­zioni che sem­brano con­fer­mare l’assunto per cui la «libertà comu­ni­sta» gode di inne­ga­bile fascino nella spe­cu­la­zione filo­so­fica, quanto di vita sten­tata sotto il prin­ci­pio di realtà. Con­tro la demo­cra­zia omo­lo­gante si erge­rebbe la libertà comu­ni­sta, ma anche la libertà cri­stiana, che si creda o meno («È meglio essere cri­stiano senza dirlo, che dirlo senza esserlo», come scri­veva Igna­zio di Anti­o­chia). Sulla scorta di alcune rifles­sioni di don Giu­seppe Dos­setti (che tor­ne­rebbe uti­lis­simo in realtà anche nella difesa della demo­cra­zia costi­tu­zio­nale) si afferma che la «libertà del cri­stiano è libertà dei moderni, rispetto a quella degli anti­chi, ma è, nel Moderno, libertà radi­cale, sov­ver­siva dell’ordine costi­tuito, libertà libe­rante l’umanità fin qui oppressa».Con­clu­dendo sul tema della tra­di­zione, è molto sug­ge­stiva la cita­zione di Gustav Mahler: «la tra­di­zione è custo­dire il fuoco, non ado­rare le ceneri». La scelta della tra­di­zione in realtà non dovrebbe mai essere troppo selet­tiva, né troppo inclu­siva, andrebbe eser­ci­tata con senso della sto­ria, non può essere accu­mulo indif­fe­ren­ziato o inven­zione pura e sem­plice di tra­di­zioni incon­si­stenti (e nep­pure anti­qua­riato rivo­lu­zio­na­rio).
Ma oggi, di fronte all’ammasso di rovine da cui forse anche l’angelo della sto­ria con le ali impi­gliate ritrar­rebbe lo sguardo, c’è da chie­dersi quale man­tice poten­tis­simo occor­re­rebbe per rav­vi­vare quel fuoco. Oppure se non sia cosa più sag­gia pro­porsi di accen­dere un fuoco nuovo, aggiun­gendo al legno resi­duo anche legname diverso.

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