Sull’ultimo numero di «Zapruder», rivista di storia della conflittualità sociale, alcune considerazioni sull’eredità della rivoluzione bolscevica, fuori dal mito e dalle demonizzazioni
L’anno che ci siamo lasciati alle spalle ha visto riemergere il mito del 1917? È ancora presto per fare un bilancio delle forme che ha assunto questo ritorno d’interesse per la storia del comunismo, come era prevedibile, in molti casi nella continuità della damnatio memoriae post ’89.
Eppure, nelle tante iniziative che sono venute da una nuova generazione di studiosi e militanti è percepibile finalmente una sensibilità diversa, per certi aspetti più distaccata, ma anche meno plastificata.
Si inserisce in questo filone l’ultimo numero di Zapruder, rivista di storia della conflittualità sociale, dedicato all’Ottobre rosso. Letture italiane della rivoluzione bolscevica. Come consuetudine, si tratta di un fascicolo ricchissimo, soprattutto per la diversità delle sezioni in cui si articola.
SI SPAZIA DAGLI ZOOM sulla ricezione della rivoluzione nelle culture politiche (anarchici, socialisti, ma anche nazionalisti e dannunziani) alla storia delle immagini, ai luoghi fino ad alcune «schegge» sul leninismo nell’estrema sinistra italiana e nel mondo. L’editoriale, a firma di Eros Francescangeli e Giulia Pacifici, fornisce alcune coordinate interpretative. Si prende le mosse dalla considerazione che l’Ottobre abbia generato un mito attorno al quale si sono formulati quei giudizi e quelle contrapposizioni del Novecento che hanno inevitabilmente saldato la rivoluzione alla successiva storia sovietica.
DALLA RASSEGNA di Giovanni Savino emerge che anche la storiografia ha risentito di tali implicazioni, anche se proprio il centenario è stato un momento di riflessione vera. Come scrive Alexander Höbel, recensendo i contributi di Angelo D’Orsi e di Guido Carpi, «rispetto alla demonizzazione o alla rimozione degli ultimi decenni, la novità non è di poco». L’editoriale mette a fuoco come il problema principale, che si pose già nel 1917 e che non sfuggiva a Gramsci e alla Luxemburg, fosse quello di decodificare un evento di rottura anche rispetto alle tesi fornite dal «marxismo ortodosso».
COME SI ERA ARTICOLATO in quel contesto il rapporto tra il partito-chiesa, o giacobino, e le masse? Perché dallo studio delle fonti risulta erronea una riduzione della rivoluzione alle sole tesi di Lenin? Sono domande di lungo corso, ma che risultano ancora utili per mettere in crisi quella lettura che, soprattutto a partire dalla crisi degli anni Settanta, ha teso a ricondurre l’Ottobre alla genesi di un totalitarismo.
Nella sezione Voci sono pubblicate due interessati interviste. La prima (realizzata da Franco Milanesi) è a Mario Tronti e ci consegna alcune considerazioni sull’eredità del ’17 nella cultura comunista italiana, e in particolare nel filone dell’operaismo. Per Tronti, il leninismo è rimasto un punto di riferimento centrale, ma oggi «che si dovrebbe stare alla testa dei movimenti democratici progressisti per andare oltre, questo ’oltre’ non è più praticabile».
IN ALTRE PAROLE, Tronti fa coincidere la fine del Novecento con il tramonto del suo principale evento generatore, la rivoluzione bolscevica e le sue derivazione politico-culturali. A suo giudizio, tra i limiti fondamentali del comunismo novecentesco c’è stata l’incapacità di generare un’antropologia alternativa a quella borghese. Intervistato da Andrea Brazzoduro, Enzo Traverso suggerisce invece di guardare altrove. Se è comune ai due interpreti l’idea che la scomparsa del comunismo abbia privato il presente di un piano escatologico terreno, Traverso, attento ai movimenti sociali internazionali, punta il dito contro le responsabilità di una generazione di intellettuali, la propria, che non ha saputo gestire il passaggio di secolo e consegnare ai movimenti di contestazione del presente «una continuità storica che non sia più legata all’illusione teleologica del socialismo, del comunismo classico, ma che sia una continuità fatta di trasmissione di esperienze e di riflessione critica».
Non è dunque soltanto il mito della Rivoluzione d’ottobre a essere uscito dall’immaginario del tempo presente, ma anche l’idea stessa di una rivoluzione e, più alla radice, la convinzione di essere avanguardia di un processo storico.
FONTE: IL MANIFESTO
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