Caso Uva. Le motivazioni della sentenza che ha assolto poliziotti e carabinieri
«Una sentenza sconcertante». Così il senatore del Pd Luigi Manconi definisce le 162 pagine con cui il tribunale di Varese ha motivato la sentenza di assoluzione per i dei due carabinieri e sei poliziotti finiti sotto processo per la morte di Giuseppe Uva.
A questo proposito, Manconi ha presentato nella mattinata di ieri un’interrogazione ai ministeri della Giustizia, degli Interni e della Difesa: «Da quanto si legge nelle motivazioni – sostiene il senatore – i carabinieri hanno commesso un sequestro di persona, ma il loro comportamento è scusabile, perché sarebbero incappati in un grave errore di valutazione».
In buona sostanza, per il tribunale non si può parlare di arresto illegale perché, di fatto, la notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva non sarebbe stato arrestato, ma portato in caserma senza avvertire il procuratore di turno né stilare verbali di alcun genere. L’azione si spiegherebbe con il tentativo da parte degli uomini in divisa di evitare che Uva e il suo amico Alberto Biggiogero, ubriachi a notte fonda per le vie del centro di Varese, arrecassero danni di un qualche genere. Eventualità che la Corte d’Assise deve aver considerato inevitabile, visto che, nelle 162 pagine di motivazioni, diverse sono quelle dedicate ai reati commessi da Uva durante la propria vita, come se il processo fosse stato contro di lui.
Per i giudici fermare i due uomini in quel modo è stato senza dubbio un errore, ma non un reato, visto che le intenzioni erano tutto sommato buone e che, soprattutto, l’azione era perfettamente coerente con le decisioni della catena di comando. «Se persino i superiori da cui dipendevano gli imputati – si legge nelle motivazioni della sentenza – erano e sono persuasi che sia legittimo privare della libertà personale un soggetto ubriaco al fine di interrompere le azioni moleste, non si può che concludere che l’errore in cui sono incorsi gli operanti è scusabile».
Soprattutto questo passaggio, per Manconi, rappresenta «un pericoloso precedente» perché «le forze di polizia sarebbero autorizzate a derogare dai dettati costituzionali che tutelano la libertà personale come un bene prezioso, ovvero un diritto fondamentale e inviolabile di tutti i cittadini». In altre parole, spiega ancora il senatore del Pd e presidente dell’associazione A Buon Diritto: «Se un carabiniere o un poliziotto non sa distinguere tra un trattamento legittimo e uno illegale, sono davvero i cittadini a doverne fare le spese?».
Oltre al principio in base al quale l’illegalità di un arresto può diventare un errore poco più che formale – e, in fin dei conti, ‘scusabile’ –, i giudici di Varese hanno assolto le divise imputate da tutte le altre accuse. Non si trattò di omicidio preterintenzionale a causa della «insussistenza di atti diretti a percuotere o ledere» Giuseppe Uva, particolare che emerge dall’analisi delle perizie mediche e dall’audizione dei consulenti tecnici che «consentono di escludere in maniera assoluta la sussistenza di qualsivoglia lesione che abbia determinato o contribuito a determinare il decesso» del gruista 42enne.
Con queste sentenza la giustizia infine ammette di non essere capace di spiegare come sia morto Uva. Non per colpa medica, come stabilito da una sentenza della primavera del 2012 che ha assolto il dottor Carlo Fraticelli, né per conseguenza dell’arresto e della notte passata nella caserma di via Saffi, considerando l’assoluzione dei due carabinieri e sei poliziotti.
Semplicemente, poche ore dopo il Tso e il ricovero nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Circolo, il cuore di Giuseppe a un certo punto ha smesso di battere. Un mistero. D’altra parte che il tentativo di scoprire la verità su questa morte fosse difficilissimo si era capito sin dalle prime battute dell’indagine, con l’inchiesta su quanto avvenuto in caserma che è cominciata soltanto nel 2012, quattro anni dopo i fatti e dopo che ben tre giudici, in vari dispositivi, avevano intimato al pm Agostino Abate di verificare il comportamento tenuto da poliziotti e carabinieri. Nel 2014, dopo un provvedimento disciplinare del Csm contro Abate per la negligenza con cui aveva condotto l’indagine e varie richieste di archiviazione per gli indagati da parte della procura, si arrivò all’imputazione coatta degli indagati. Il dibattimento, però, era a quel punto già irrimediabilmente compromesso: nessuna prova nei fascicoli, testimoni demoliti e poi dichiarati inattendibili, pochissimi elementi da portare davanti alla Corte. Alla fine le assoluzioni sono parse tanto dolorose quanto inevitabili.
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