L’editoriale del numero del magazine Global Rights dedicato alle nuove letterature. Sempre dalla parola occorre principiare, o ricominciare. E oggi, e sempre, quella che ha maggiore forza intrinseca è quella poetica
«Non si può piegare la sovversione. La si sconfigge obbligandola a cambiar bersaglio», scriveva Edmond Jabès ne Il libro della sovversione non sospetta.
Nel nostro tempo, le parole della politica non sanno più spiegare quel che succede, non riescono a capire né tantomeno a guarire. La sovversione politica è divenuta spazio dell’innominabile, nel senso che non ha più oggetto e progetto, non riuscendo a immaginare, dunque a nominare, un altrove e un altrimenti.
La voce dei popoli e dei movimenti è resa flebile e balbettante, soffocata dalla perfezione tecnica e tecnologica raggiunta dal dominio, dalle mille forme della repressione, dal pervasivo comando che ha rovesciato di segno e di senso alfabeti e direzioni della rivolta e, prima ancora, dell’indignazione. Indignez vous, esortava pochi anni fa Stephane Hessel, in un già dimenticato pamphlet, dove veniva ricordato che «creare è resistere. Resistere è creare».
Re-sistere presuppone non solo lo stare, ma l’avere memoria del passato e il possedere un progetto, un’intenzionalità soggettiva sul futuro. Ovvero, l’essere radicati nello spazio e nel tempo. La resistenza e la trasformazione appartengono cioè al mondo del reale, non del virtuale.
Il mondo sarà forse salvato dai ragazzini, come voleva Elsa Morante. O magari lo sarà grazie ai vecchi, a quelli che nel Novecento hanno provato a portare il cielo sulla terra, a liberare (spesso, però, non a liberarsi, sottovalutando l’essenziale ordine dei fattori; da qui, anche, una radice della loro sconfitta).
Oppure, più probabilmente, il cambiamento – radicale, come necessita – diventerà possibile solo a partire da una capacità di ascolto, dialogo, scambio e alleanza tra gli uni e gli altri. Tra l’esperienza e l’energia, tra la tenacia e la curiosità, tra la lentezza e l’impeto, tra la memoria e il divenire.
Ma sempre dalla parola occorre principiare, o ricominciare. E oggi, e sempre, quella che ha maggiore forza intrinseca è quella poetica. È l’espressione artistica, nelle sue poliedriche e infinite forme, che possiede la cifra, il codice, in grado di unire vecchio e nuovo, ragione e sentimenti, consapevolezza e prospettiva. Di rompere la camicia di forza di una comunicazione sociale governata da algoritmi nascosti e proprietari, della perdita dell’immaginario. Una parola, insomma, capace di raccontare storie e di stimolare desideri.
Solo immaginando e desiderando un altro mondo, altri sistemi sociali e di relazione, infatti, il cambiamento diventa concretezza. Solo recuperando vocabolari dimenticati e sottratti, ricostruendo proprie sintassi e nuove grammatiche la sovversione diventa percorribile.
Solo costruendo pazientemente i luoghi in cui quei vocabolari, quelle sintassi e quelle grammatiche possano scambiarsi e riconoscersi, le parole potranno ritrovare forza destruens e costruens, provare a indicare e a praticare strade e sentieri di trasformazione.
Queste pagine, queste interviste, questo magazine, il progetto di Global Rights, vogliono essere un contributo a tutto ciò. Modesto e fragile, certo, ma convinto, con Jabès, che la sovversione è il movimento stesso della scrittura.
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