Cronache

Il surplus – l’eccedenza – di messaggi e di energia negativa dell’evento, e il deficit di pensiero con cui è stato elaborato. L’accaduto è (non riesco a trovare altra parola) “inusitato”: una folla ferma, ordinata, fino ad allora tranquilla d’improvviso impazzisce, senza altra apparente ragione se non la folla stessa. Qui non ci sono hooligans che aggrediscono, come all’Heysell trent’anni fa. E nemmeno un attacco terroristico: di terroristi nemmeno l’ombra, solo molto terrore sottocutaneo che evidentemente attraversava come una corrente elettrica quella massa di corpi assiepati. Per tre giorni si è cercato un episodio, anche minimo, che possa aver scatenato il panico: un petardo, uno spray urticante, delle urla minacciose, un gesto provocatorio. Nulla. Almeno fino ad ora. Tutto sembra parlare di un fenomeno (“inusitato”, appunto) di autocombustione della folla. Di un evento (terribilmente distruttivo) privo di causa efficiente. E di un “autore”.

È questa la cosa – il monstrum, grande come una piazza grande – su cui dovremmo alzare l’allarme e applicare il cervello: questa gigantesca sindrome mentale che ci rende irriconoscibili a noi stessi (e inspiegabili), materializzatasi nel cuore di Torino. E invece è partita subito la banale caccia all’errore da cronaca quotidiana, la più trita polemica politica sulle colpe amministrative e sui loro colpevoli: il prefetto, il questore, il sindaco, il capo dei vigili, che pure qualche errore avranno fatto se alla fine si sono contati oltre 1500 feriti (in gran parte, bisogna dirlo, non gravi). Ma che non possono certo essere indicati all’origine del disastro (a meno di pensare che un’ordinanza, qualche transenna meglio posizionata, un centinaio di vigili o agenti in più avrebbero potuto per miracolo arginare quel fiume di folla impazzita). E la focalizzazione sui quali serve solo a rassicurare e rimuovere il carattere tremendamente perturbante dei fatti.

Invece quel perturbante dobbiamo tenerlo ben fermo davanti agli occhi. Per decodificare ciò di cui ci parla. E la prima cosa che ci dice, attraverso quelle immagini notturne, un po’ gotiche, di quella piazza in preda ai fantasmi, è che siamo cambiati. Nel profondo. La guerra a bassissima intensità che da anni si combatte nel cuore d’Europa (a fronte di quella ad altissima intensità che si consuma oltre i suoi confini), questa guerra le cui armi sono coltelli, martelli, furgoni, Suv Van e Tir, oggetti domestici o quasi, ha avuto in realtà un fortissimo impatto mentale, sulla nostra sfera psichica. Quello stillicidio di attacchi, da Charlie Hebdo a Bataclan a Nizza Berlino Londra Manchester… ha depositato sul nostro sistema nervoso collettivo una pellicola tossica. Ha riconfigurato i nostri neuroni-specchio sui codici del panico. E ha abbassato la soglia di allarme fin quasi a zero, così che il meccanismo della chiusura difensiva verso ogni altro scatta pressoché “per nulla”. Siamo davvero tutti dei “mutanti”, anzi ormai dei mutati.

La seconda cosa che Torino ci dice è che la profezia annunciata dalla signora Thatcher all’inizio degli anni ’80, si è pienamente adempiuta. «La società non esiste, esistono solo gli individui», predicava. E in effetti in quello spazio pubblico per eccellenza che è la piazza centrale della città la Società non c’era. C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un «si salvi chi può» esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso non-si-sa-dove… Chi c’era racconta cose che chiede di non ripetere, di nasi fratturati a gomitate, gambe storpiate, bambini calpestati e neppur visti, abiti stracciati nel tentativo di sopravanzare chi era davanti come ostacolo, i più fragili abbattuti dai più muscolosi, i più lenti dai più veloci… È come se lì si fosse materializzata, in forma di girone infernale, l’immagine plastica del paradigma che definiamo “neo-liberista”. La potenza dissolvente del suo negativo, in una rappresentazione drammaturgica del suo individualismo possessivo, anzi predatorio. La sua competitività – il suo mors tua vita mea – eletta a dato strutturale e naturale. La rottura dei legami sociali visti come ostacolo e rallentamento. L’assenza di senso che non sia quello del mero sopravvivere. La dissoluzione di ogni lavoro – anzi “mestiere” – in astratta ed effimera funzione. Non è senza significato che gli unici “eroi” di quella notte, coloro che hanno fatto scudo e salvato Kelvin, il bambino di origine cinese, siano un bodyguard nero e un ex soldato italiano, due che hanno ritrovato nella propria “professione” la risorsa per “restare umani”. E che il giovane che, a braccia larghe, si sforzava di calmare i vicini perché non era “successo niente” – uno dei pochi “spiriti critici” in quella follia – sia stato selezionato come possibile colpevole, fermato e interrogato per ore.

Curare questa doppia sindrome dovrebbe essere compito della politica. Che invece oggi più che mai mostra la propria miseria, miopia e, in qualche caso, vocazione sciacallesca, nel ricercare nel proprio competitor immediato il colpevole di tutti i mali.

FONTE: MARCO REVELLI, IL MANIFESTO

 

QUANDO finalmente, con un po’ di ritardo, lo spettacolo comincia, tutto è già stato detto, tutte le metafore consumate, tutte le citazioni classiche e moderne, tutte le deplorazioni della vanità delle foto-ricordo col relitto.

 E ANCHE tutte le sincere o doverose commemorazioni delle persone morte per il più cretino dei ghiribizzi. Così si può disporsi a guardare per guardare, senza pregiudizio, senza allegrie e pene di naufragi: guardare come riusciranno uomini come noi, o quasi (anche donne, come la signora Sargentini del monitoraggio ambientale dalla voce roca) a manovrare congegni spaventosamente enormi, buoni a riparare la povera carcassa che, quando era un’enormità disgustosa e ottusa, pretendeva di chiamarsi nave. Abbiamo guardato un po’ tutti, chi poteva, almeno all’inizio — poi era un po’ lento — da casa, dall’ufficio, dal bar: è stata la nostra giornata al mare in più. Qualcuno la sapeva già lunga, altri si sono beati di cifre e paragoni mirabolanti. Che cosa c’è di più bello che le cifre smisurate e i paragoni iperbolici? La carcassa da risollevare è grande come 100 aerei Boeing: Madonna santa! (Già, ma quanto sarà grande un aereo Boeing? Come 100 Fiat Punto? 200 frigoriferi come il mio?) «Sono 30 mila quintali di acciaio!» — dice uno al vicino di banco. «No, dai, è incredibile! », «Scusa, volevo dire 30 mila tonnellate». «Ah!» Quattro volte la Torre Eiffel, comunque. La Torre Eiffel la sanno tutti, ci sono pure saliti. Diciamo la verità, tutto quell’azzurro del mare, e del cielo, e dello scafo, è di una bellezza fantastica, a prescindere. L’ingegner Girotto, magnifico ingegner Girotto, tranquillizza: «I ritardi sono fisiologici». Come i bisogni: è bella anche la fisiologia di quell’impresa gigantesca (Titanica, dal nome della ditta americana). I cassoni sono alti come palazzi di dieci piani, quasi di undici: occorrerà forse un’ora per allagarli. (Commenti, che non superino le 500 battute: «Ma come c…o un’ora! Li riempiono con una caraffa?», «Solo un’ora, c…o! Che fanno, li affondano?»). Tutto viene manovrato a distanza — comandi remoti — non si può far correre agli uomini il rischio di salire sul relitto. No, macché, sono sopra, guardali, sullo scafo in bilico: eh, come sembrano piccoli! Non è che sono piccoli:
sono uomini-ragno. Piano vanno piano, ma vuoi mettere la meraviglia di sentire per un giorno intero questo sciabordio che va e che viene, e questi colori. Però era bellissimo anche di notte, con tutta la piattaforma illuminata che sembrava Fellini, e il cielo squarciato dai lampi. Alla seconda ora, i cronisti e le croniste dicono già Parbuckling come se non avessero detto altro tutta la vita, meglio che spread — in streaming. «Il Parbuckling è l’aggiornamento di una tecnica ottocentesca». «Dai! Come l’ologramma di Tupac Shakur al festival di Coachella
l’anno scorso, non era mica un ologramma: era una cosa bidimensionale, una proiezione dell’Ottocento ». «L’hanno rifatto con Madre Teresa ». La voce roca della signora Sargentini ripete pazientemente: «Pali sì, ma di due metri di diametro, piantati per 10 metri sott’acqua dentro il granito, capisce?». Si vorrebbe sapere di più sui robot subacquei, e sugli Strand Jack — «Guarda, sono cric, no cric, martinetti, ma molto più forti». «E Schettino…». «No eh? Almeno oggi Schettino non lo voglio sentir nominare». «Va be’, ma l’hai vista la vignetta di Makkox: «Comandante le ho detto ruoti cazzo! ». Ecco Nick Sloane, lui sì che è un uomo! Ha ripescato relitti giganteschi in Pakistan, Arabia Saudita, Yemen, Emirati, Usa, Australia, Papua Nuova Guinea, Brasile, Messico, Hong Kong…».
Infatti.
Seconda parte. A questo punto, siccome la rotazione per ora va molto bene — «Delusi? — protesta l’assediato Gabrielli — Volete per forza il problema?» — spostiamoci dallo schermo, e andiamo a vedere come mai ci sono tanti relitti colossali in giro per Sloane: non faranno mica l’inchino. E allora sentite, caso mai pensaste che non c’era niente da scherzare. Infatti. Nel Mediterraneo ci sono centinaia di navi affondate o arenate, e solo di carburante superano di venti volte la marea nera della Deepwater Horizon del golfo del Messico 2010, che superava di dieci volte la Exxon Valdez 1989. Molti relitti militari sono carichi di iprite, di cui ora si riparla tanto. Leggo che ci sono relitti con armi chimiche al largo di Ischia, Manfredonia e Pesaro. Lì pare che bonifiche o recuperi costino troppo: tanto non si vedono. Ogni anno sono migliaia le navi da demolire. Benché la Ue abbia norme più restrittive di quelle della convenzione di Hong Kong, che equiparano le imbarcazioni da demolire a rifiuti pericolosi, che dunque devono essere smaltiti dentro l’Unione, gli armatori continuano a trovare il modo di farle insabbiare sulle coste del sud dell’Asia: anche semplicemente vendendole alla vigilia a bandiere extraeuropee. Nel 2012 vi sono state abbandonate 167 navi greche, 48 tedesche, 30 inglesi, 23 norvegesi, 13 cipriote, 8 bulgare, 6 danesi, 5 olandesi. Sulle spiagge indiane di Alang, intatte fino al 1983, oggi il più grande “cantiere” asiatico, masse di lavoratori smantellano a mani nude navi tossiche, cisterne coi residui di greggio, navi da crociera imbottite di amianto, relitti di guerra, portacontainer usati per rifiuti tossici. Fate un conto: le compagnie europee possiedono il 40 per cento delle navi in funzione, e quasi l’80 per cento delle navi da demolire finiscono in India, a Chittagong in Bangladesh, in Pakistan. Le navi da demolire ogni anno sono quasi 1.000. Dal 2015 per di più sarà vietata la circolazione delle petroliere monoscafo. L’industria siderurgica dipenderà largamente dalla rottamazione navale.
Ecco. Torniamo a vedere a quanti gradi sono arrivati al Giglio. Lento è lento, ma c’è tutto quel blu, e poi lo sciabordio in sottofondo. «Lo sai che certe super-superpetroliere arrivano a una portata di 500 mila quintali?», «Ma dai, no, è incredibile! », «Volevo dire 500 mila tonnellate ». «Ah». «E passano da Venezia?».

In strada, al bar, davanti scuola, in ufficio, Un killer colpisce, ferisce, uccide. Bersagli senza un perché. Dalle studentesse di Mesagne alle impiegate di Perugia. Dai carabinieri di Roma agli uomini di Milano

Come si ricordano e si piangono le persone amate e ammazzate “per caso”? Domani sarà passato un anno dall’attentato di Brindisi che costò la vita a Melissa Bassi, studentessa di sedici anni, tenne fra la vita e la morte Veronica Capodieci, e ferì altre sei loro compagne. Ci sarà una commemorazione solenne, a Brindisi e a Mesagne, il paese di Melissa e Veronica, parteciperanno ministri e altre autorità, ci saranno cerimonie religiose e civili e concerti. Sarà presentato il librodiario che Selena Greco, compagna di banco di Melissa, anche lei ferita, ha intitolato “I giorni dopo il tramonto”.
Intanto va verso la conclusione il processo all’autore confesso di quella tentata strage, che ora piagnucola in aula e chiede perdono e dice che aveva due figlie anche lui; che in carcere si fece sorprendere mentre rivelava il suo proposito di fare il pazzo; che ricavò “dall’enciclopedia” le istruzioni per comandare a distanza un ordigno fatto di bombole di gas. I giudici l’hanno dichiarato lucido e padrone di sé, com’è evidente, e l’hanno imputato anche di terrorismo. “Ho fatto tutto da solo”, ha detto, a metà fra la speranza d’attenuante e la rivendicazione. La sentenza si pronuncerà anche su questo terrorismo di un uomo solo, che voleva vendicarsi di qualcosa, della vita degli altri, e stampare così la propria orma, o compiacersi dello spavento suscitato. Nelle ragazze ferite nel corpo e nell’anima, che per mesi rifiutavano di uscire di casa, “perché là mi vogliono ammazzare”. Una è venuta a testimoniare in tribunale, sulle menomazioni irreversibili che ha subito e su come è cambiata la sua vita: “Tantissimo, è cambiata”.
C’è un’espressione usata, quando qualcuno muore oscuramente, si dice: “Non aveva nemici”. Quell’espressione riprende il suo significato. Non avevano nemici le ragazze della scuola brindisina. Non ne avevano le persone uscite di buon mattino nelle strade di Niguarda. Non le signore Margherita Peccati e Daniela Crispolti, impiegate della Regione a Perugia, al cui assassino non è bastato proclamarsi Dio e decidere di suicidarsi. Non i carabinieri in servizio a Montecitorio. I loro aggressori assassini li avevano i nemici, avevano saputo inventarseli,
e se no si erano accontentati dei primi esseri umani che capitassero loro a tiro — il loro “prossimo”, i più vicini, quelli che una provvidenza alla rovescia mettesse sulla loro strada. Questa condizione mostruosamente squilibrata turba ogni intelligenza. Quando, un minuto dopo l’esplosione di Brindisi, in troppi sostennero che fosse roba di mafia o terrorismo — e avevano le loro brave ragioni: la scuola delle ragazze è intitolata a Francesca Morvillo Falcone, la carovana antimafia stava per arrivare in città — erano mossi soprattutto da una speranza spaventata. La speranza è sempre quella che si tratti del “gesto di un pazzo isolato”. (Il pazzo isolato è una figura insieme arcaica e “americana”). Si può esorcizzarlo più facilmente, sentirsene più al riparo che non dalla minaccia della strage di mafia o terrorista. Tuttavia, in un angolo dei pensieri, la violenza della mafia o del terrore pretende di essere più spiegata, più prevedibile. Ha i suoi fini, i suoi bersagli, anche quando colpisce indiscriminatamente nel mucchio: la morte degli innocenti, degli estranei — la morte per caso — serve alla sua causa. Succede il contrario quando la decisione di uccidere non si cura dei suoi bersagli: omicidi volontari, spesso
premeditati — come a Brindisi — dalle vittime impreviste, offerte dal caso. A Niguarda, dopo il troppo tempo trascorso senza alcun intervento, si è di nuovo evocato l’impiego dell’esercito a presidio degli “obiettivi sensibili”: ma occorre chiamare sensibili obiettivi come il giovane che a ogni alba distribuisce i giornali con suo padre, il pensionato che porta il cane ai giardini, le ragazze che vanno a scuola, i carabinieri nella piazza, le impiegate di un ufficio. In questo privato terrorismo asimmetrico, fra assassini volontari e vittime fortuite, ciascuno e dovunque diventa
meritevole di una scorta: e dunque è la società intera e la sua socievolezza che deve reimparare a far da scorta a se stessa. (Altro affare è la consunzione dei normali servizi di polizia, la famosa polizia di quartiere, fra usi impropri e denari distolti, auto vecchie e ferme e straordinari non pagati dalla seconda settimana e concorsi bloccati).
Anche il perdono, in questa sgretolata guerra asimmetrica, sfugge ai suoi confini. Si può, chi voglia e ci riesca, perdonare ai propri nemici: ma occorrerebbe rassegnarsi a onorare come nemici i pazzi o i farabutti che hanno deciso di soddisfare su persone ignote e ignare la loro inimicizia universale. Le persone che perdono i loro cari in circostanze come queste hanno uno speciale dolore che non può darsi spiegazioni, che non rintraccia abbastanza né una, per deforme che sia, causa umana, né una sciagura, com’è l’ingiustizia della morte naturale dei giovani. Il monumento ai loro caduti non evoca guerre di stati e di bande criminali o guerriglie civili: non c’è milite ignoto a rappresentarli, perché non c’era milite, solo ragazze di sedici anni che preparavano la sfilata scolastica dei loro modelli, signori di una mattina milanese, signore di un ufficio umbro. “Mio padre e io — ha detto la figlia del brigadiere Giangrande, Martina — ci chiamavamo un esercito sgangherato: ora siamo un mezzo esercito, e pure tanto sgangherato”.
Nel febbraio dell’anno scorso un tribunale milanese ha dichiarato non punibile Oleg Fedchenko perché affetto da schizofrenia, e l’ha assegnato a un Ospedale psichiatrico giudiziario. Fedchenko era il giovane ucraino, pugile dilettante, che nell’agosto del 2010 era uscito dalla casa materna annunciando di voler uccidere la prima donna in cui si fosse imbattuto per strada. “La prima che incontro”. Lo fece: lei era Emlou Aresu, era filippina, aveva due figli, all’indomani sarebbe ripartita per le Filippine. Faceva i lavori nelle case, “andava sempre di fretta”, come raccontarono i conoscenti, e così di fretta arrivò in viale degli Abruzzi, all’appuntamento con quel venticinquenne che voleva vendicarsi di un amore deluso e di chissà quale altro delirio. Si apprese allora che i criminologi li chiamano “delitti casuali”, e li considerano i più difficili da prevenire e impedire. Pensai allora che non è casuale esser donna, e filippina per giunta. Forse quel-l’aggettivo, casuale, verrà lasciato cadere per tutti. Forse, retorica a parte, prenderemo tutti congedo da quell’altra espressione così usata: “Non c’entravano niente”. C’entriamo, scriveremo sul monumento a questi caduti.

 BRESCIA — Brescia come Torino, il quotidiano «La Stampa» come l’agenzia investigativa Europol. Perché nonostante la notizia sia stata divulgata soltanto ieri, i due pacchi bomba sono stati recapitati lo stesso giorno. Entrambi senza rivendicazioni. Nella sede della società bresciana la busta gialla è stata trovata martedì mattina nella cassetta della posta dalla titolare, Silvia Pesaresi: destinatario e mittente — una ditta di Livorno che produce apparecchiature utili alle investigazioni — scritti a computer sulle etichette. «Nonostante quell’azienda non sia un nostro fornitore, capita di ricevere cataloghi o listini prezzo, anche su supporti multimediali», spiega Fosco Pesaresi, padre di Silvia, a sua volta a capo di un’agenzia investigativa allo stesso indirizzo. Nella busta, anche stavolta, un porta cd morbido chiuso con una cerniera. È stato dopo averla aperta che è scattato quel «non toccate niente»: conteneva «una molletta da bucato di legno, con fili collegati a una batteria e una lampadina coperta dal cellophane».

Anche polvere pirica, diranno gli accertamenti degli artificieri. A «scopo precauzionale» il pacco è stato messo sulla terrazza dell’ufficio, giusto il tempo di verificare che la ditta toscana non avesse effettuato alcuna spedizione a Brescia. Da lì in serata la segnalazione ai carabinieri: «Ci hanno detto che se i collegamenti avessero funzionato il pacco avrebbe potuto incendiarsi, non esplodere. Ma ci siamo spaventati parecchio», sospira Pesaresi. Lui, che assicura di non aver mai ricevuto minacce, sembra convinto si tratti di un errore: «Non ha senso, devono averci scambiato per altri, addirittura per l’istituto di polizia europea». Ma la Procura di Brescia ha aperto un’inchiesta, anche per capire se esistano analogie con il caso torinese.

 Niente danni: l’innesco era difettoso. Pista anarchica, forse già  spediti altri ordigni  

TORINO — È arrivata alle poco dopo le nove, confusa nel resto della corrispondenza che ogni mattina viene scaricata dai due centri di smistamento delle Poste di Torino al piano terra della redazione de “La Stampa” al 15 di via Lugano, dove il giornale fondato da Frassati si è trasferito dall’ottobre scorso. Una busta rettangolare dal burocratico colore giallo-beige con l’affrancatura ancora intatta, in un angolo un’etichetta con l’indirizzo del quotidiano scritto con i caratteri minuscoli di un pc. L’impiegato addetto allo smistamento della posta si è insospettita appena l’ha avuta tra le mani. «La busta aveva i francobolli non timbrati, toccandola ha avuto una strana sensazione, ho sollevato leggermente uno dei lembi…» racconterà più tardi agli investigatori della Digos. È bastato quel semplice sguardo per intravedere i fili che spuntavano da quello che sembrava essere il contenitore di un cd. L’impiegato, maneggiando con estrema cautela la busta, è salito
al primo piano del palazzo che ospita accanto agli uffici amministrativi quello della sicurezza. Le guardie hanno capito subito e chiesto l’intervento della polizia. Pochi minuti dopo la Digos era in redazione, affiancata dagli artificieri dei carabinieri. Il giornale è stato evacuato mentre gli specialisti aprivano la busta, scoprendo che si trattava di un ordigno letale che solo per caso non era esploso.
All’interno della busta giallobeige e del porta cd una bomba artiginale costruita con quaranta grammi di miscela esplosiva («polvere nera» sottolineano gli artificieri) compressi in un piccolo contenitore e collegati con due fili ad un diodo rotto ed a una molletta in legno, di quelle usate solitamente per stendere i panni. «Il tipico pacco bomba con l’innesco a strappo — spiegano gli investigatori — aprendo la busta entra in azione la molletta che chiude il circuito e origina lo scoppio. Un congegno artigianale ma costruito con grande perizia…». Potrebbe essere stato il peso degli altri pacchi arrivati dal centro smistamento delle Poste a spostare leggermente la molletta impedendone il funzionamento ed evitando così l’esplosione della miscela esplosiva. «Un segnale preoccupante — ha spiegato Mario Calabresi, il direttore della Stampa — se quell’ordigno fosse esploso avrebbe potuto ferire gravemente o peggio il fattorino che lo ha maneggiato… ». Nessuno ha sinora rivendicato l’invio del pacco esplosivo ma gli investigatori della Digos paiono non avere dubbi sulla matrice
«La confezione dell’ordigno, il modus operandi, tutto sembra portare verso quella direzione », sottolineano in questura. E aggiungono: «Temiamo che siano stati spediti anche altri pacchi».
Antonino Cufalo neo questore di Torino aggiunge: «Torino non è nuova purtroppo a queste esperienze ». Nel 2005 infatti pacchi esplosivi furono spediti ad una caserma dei vigili urbani, al comando dei vigili del fuoco e alla redazione di Torino Cronaca, un quotidiano locale. Soltanto quello destinato ai vigili urbani esplose ferendo gravemente una vigilessa. Nel luglio 2006 però il direttore di Torino Cronaca Beppe Fossati fu ferito al volto dall’esplosione da un’altra busta arrivata in redazione. Immediate le reazioni di sdegno e solidarietà da parte di tutte le forze politiche e sindacali. «Un segnale violento e ostile contro un quotidiano libero e contro i suoi giornalisti» ha dichiarato la Fnsi. «Da sempre chi attenta alla libertà intimidisce e colpisce l’informazione e il suo insostituibile ruolo nella vita democratica» ha commentato il sindaco di Torino Piero Fassino. E solidarietà ai giornalisti de la Stampa è stata espressa anche dal cdr di Repubblica.

Si indaga sulla pista politica dopo le minacce a Equitalia. I sindacati: “Segnali allarmanti”   

LAMEZIA TERME — È un rompicapo l’esplosione di un ordigno che ha danneggiato l’ingresso della sede dell’Agenzia delle Entrate di Lamezia Terme. Gli attentatori non hanno rivendicato la paternità del gesto, né sul posto sono stati ritrovati scritte o segni che portano a privilegiare una pista piuttosto che l’altra.
L’unica che pare essere marginale è l’ipotesi della matrice mafiosa, incompatibile sia per le modalità che per l’obiettivo che non figura tra quelli tradizionalmente oggetto di attenzioni della ‘ndrangheta. Per il resto gli investigatori si stanno muovendo su un ventaglio ampio, che va dall’azione dimostrativa di matrice politica al gesto isolato di qualcuno che ha voluto mandare un messaggio per un «torto» subito. La bomba, rudimentale e di medio potenziale, è stata realizzata con comune polvere pirica, innescata da una miccia a lenta combustione. Una sorta di grosso petardo che, piazzato sul portone a vetri e fatto esplodere intorno alle tre di notte, lo ha praticamente divelto, sventrando la vetrata.
La pista politica viene ritenuta plausibile in considerazione di alcuni episodi di minacce verificatisi nei mesi scorsi ai danni di dipendenti e sedi periferiche di Equitalia, la società di riscossione dei tributi, non ultime quelle a Catanzaro, distante poche decine
di chilometri, il 4 giugno scorso. La stessa pista potrebbe essere avvalorata anche dal fatto che la palazzina presa di mira, inaugurata da pochi mesi, entro breve dovrebbe ospitare proprio gli uffici periferici di Equitalia. Si tratta ovviamente di ipotesi che gli specialisti del Commissariato di Lamezia e della Polizia scientifica stanno cercando di riscontrare anche attraverso l’individuazione
degli attentatori. Per questo ieri gli investigatori hanno acquisito le immagini riprese da alcune telecamere della zona (il palazzo colpito non ne è dotato), da cui si spera di ottenere indizi significativi.
Immediata la reazione dei sindacati che hanno sottolineato il clima di paura ingenerato da tempo tra i dipendenti delle agenzie fiscali per i recenti episodi
di violenza. Per le segreterie regionali di Cgil, Cisl e Uil, che hanno chiesto un incontro ai vertici, si tratta di un «gesto molto grave che lancia dei segnali allarmanti che accentuano un clima di tensione che si avverte in tutta la regione. Crediamo — hanno aggiunto — sia necessario applicare misure di tutela atte a salvaguardare la sicurezza di chi opera in questi settori».
In serata è arrivato il commento del governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti: «Condanno fermamente l’attentato ai danni della sede dell’Agenzia delle Entrate, ed esprimo viva preoccupazione per questi atti, che alimentano pericolosamente un clima di tensione in un momento in cui, invece, stiamo cercando di rafforzare i principi di legalità».

Summit segreto tra i leader delle fazioni in lotta: “Sono dei cani sciolti imbottiti di droga” E ora hanno paura anche i capi delle curve

GENOVA.  — Qualcuno ha giurato vendetta. Il ragazzino poteva morire, i suoi amici l’hanno scampata per miracolo. Ora tira una brutta aria tra le due tifoserie. C’è chi corre ad armarsi, chi pianifica agguati. Dicono che questa volta potrebbe mettersi molto male, e infatti dall’altra notte le forze dell’ordine sono in allarme. Si temono nuovi scontri tra genoani e sampdoriani, sempre più cruenti. «Questa volta ci scappa il morto per davvero», denunciano in questura. Ma prima che la guerra sia ufficialmente dichiarata, i capi ultrà scelgono di incontrarsi in gran segreto. Succede nel tardo pomeriggio di ieri in un bar del centro, le serrande abbassate. C’è Italia-Spagna, però la tivù è spenta perché a questa gente non importa nulla degli azzurri, anzi. Tutta una vita di battaglie per il Genoa, per la Samp: non serve altro. Al summit partecipano in pochi: tra di loro uno che i rossoblù chiamano “Cobra”, mentre il leader
dei blucerchiati dicono sia “Beck’s”, come la birra. I guerrieri del tifo lo sanno, che se continua così avranno ragione i corvi della questura. E allora si parlano, cercano di chiarire: in nome della morale ultrà, che è qualcosa difficile da spiegare se non ci sei dentro. Sembra che ieri sera, alla fine dello strano summit, entrambe le fazioni abbiano promesso che faranno di tutto per tenere calmi gli animi e per riportare un po’ d’ordine all’interno di ciascuno dei due gruppi. Ma non sarà facile.
«Perché quelli che hanno tirato fuori le lame sono dei ragazzini. Cani sciolti. Cattivi, imbottiti di droghe chimiche, pieni di rabbia. Senza controllo. Due volte stupidi, e pericolosi. Per questa loro porcata rischia di scatenarsi un gran casino». Così ringhia uno dei capi storici degli ultrà del Genoa. Che anche a nome degli altri prende le distanze dall’episodio. «È una cosa che non ha niente a che vedere con il nostro mondo. Noi non rifiutiamo la violenza: ho passato una vita a battermi negli stadi di tutta Italia. Ma rischiare di morire a diciott’anni per una coltellata
è una cosa che mi fa venire
il voltastomaco».
Sabato sera i sampdoriani festeggiavano il ritorno in A. Gli altri li hanno assaliti a sorpresa, armati e volto coperto. Tutto premeditato. «A volto coperto. Premeditato.
Parole che non hanno nulla a che vedere con l’etica ultrà ». Etica? «Etica. Perché anche noi abbiamo le nostre regole. Sappiano rispettarle, e farle rispettare. Non si aggrediscono i tifosi avversari, quando sono poco
più che bambini. Niente rapine. Ci si affronta, questo sì: ma a viso aperto, con onore». Gli aggressori dell’altra notte in passato avevano già creato dei problemi nella Nord, la gradinata genoana. «Abbiamo fatto capire
che non era il posto per loro. Se ne sono andati». Sono tornati. E sono molto pericolosi. «Hanno approfittato dai casini in cui sono finiti i leader della tifoseria. Arresti, diffide, i cento Daspo dopo Genoa- Siena, tutte quelle sciocchezze sulle scommesse. Abbiamo addosso gli occhi di tutti. Datemi ventiquattr’ore di impunità, ci penso io a rimettere a posto le cose».
La polizia dice che presto potrebbe scapparci il morto. «Le conseguenze rischiano di essere terribili. È anche per questo che subito dopo i ferimenti abbiamo cercato di capire. È una storia di quartiere: un gruppo da una parte, uno dall’altra». Scalinata Montaldo, non lontano dallo stadio. Chi una notte la dipinge di rossoblù, chi l’altra di blucerchiato. Fino a quando scoppia la prima zuffa, e tutto comincia. «Non mi interessa la loro faida. Voglio chiuderla e basta, prima che sia troppo tardi». Cosa sta succedendo ai tifosi di Genova? «Siamo finiti nel frullatore mediatico. Qualcuno di noi obbliga i giocatori
a togliersi la maglia? Bene: è quella l’etica ultrà in cui mi riconosco. Anche ad un soldato che in guerra fa un passo indietro si tolgono le mostrine. Non mi sembra sia stato un atto da criminali: nessuna violenza, eravamo a volto scoperto. Ma c’era Sky, la ribalta televisiva: e tutti hanno voluto fare la morale sulla nostra pelle». Colpa delle pressioni romane, dice: «Il ministero, l’Osservatorio, la Fgci: ma la storia di Genoa-Siena si ritorcerà contro i veri colpevoli ». E poi le fotografie coi calciatori fuori dal ristorante, il calcioscommesse. «Una bolla di sapone, ma ci hanno marciato per un po’. Tanto per darci addosso». Povere vittime. Come se non aveste nessuna responsabilità. Nemmeno per quello che è successo l’altra notte. «La violenza non è nel calcio. È in questa società. E quelli sono i ventenni di oggi. Rabbiosi, drogati di Facebook e di roba chimica. Mocciosi che vogliono combattere il sistema, ma si autodistruggono. Cani
sciolti».

Raid con coltelli e spranghe contro i tifosi della Samp che festeggiavano la promozione   

GENOVA — Un agguato con coltelli e cocci di bottiglia. Tre tifosi di 18, 20 e 21 anni della Sampdoria che sabato sera stavano festeggiando il ritorno della squadra in A, sono stati gravemente feriti da un commando genoano in via Geirato, nel quartiere di Molassana. Hanno ferite al torace, all’addome, ai polmoni. Altri due sono finiti all’ospedale San Martino per contusioni. La procura ha aperto un fascicolo contro ignoti ipotizzando il reato di duplice tentato omicidio
e lesioni gravissime. Ignoti, dicevamo. Sì, perché a parte un paio di testimoni che hanno avuto il coraggio di dire alla polizia che gli aggressori, anche se non avevano sciarpe con i colori rossoblù, li conoscono e sono genoani, gran parte dei tifosi interrogati non parla. È contro questo clima di omertà, che le indagini della Mobile si stanno scontrando. Eppure, mai come in questo caso, il tempo è tiranno. Il raid richiama una parola: vendetta. Sotto la Lanterna, riesplode nel modo peggiore il tradizionale astio tra le due tifoserie, che sembrava
sopito quando la Samp era finita in serie B perché non c’era più il derby. Ma seppur sopita, questa rivalità è sempre stata presente con i contorni di burla. Proprio in questi giorni un club di ultrà genoani
aveva preparato i necrologi per la Samp, che si stava ancora giocando i play off. Volantini da affiggere ai muri che già avevano fatto il giro sul web. L’odio covava sotto la cenere e sabato si è sfiorato il morto. Un gruppetto di dieci genoani si è presentato davanti al club sampdoriano “Irish Clan”. Quando i blucerchiati sono usciti, sono iniziati gli insulti. Sono spuntati coltelli e spranghe: è scoppiato il finimondo. Nessuno ha voluto collaborare alle indagini, addirittura due supporter della Samp hanno aggredito gli agenti e sono stati denunciati. Nessuno
fa parte di gruppi organizzati. Uno è stato colpito da Daspo per un anno perché al termine della partita della Samp che aveva sancito la retrocessione in B aveva staccato alcuni seggiolini allo stadio Ferraris. Un altro, ha un precedente penale per aver imbrattato una scalinata con i colori blucerchiati e per aver preso parte ad una rissa con i genoani iscritti a Ideale Ultrà. Sette tifosi della Samp sono stati denunciati per rissa. La polizia sta visionando le immagini di alcune telecamere per dare un volto agli aggressori.

DICIOTTO giorni di caccia all’uomo finiscono come erano cominciati. Con le immagini in bianco e nero di telecamere a circuito chiuso. Quelle che avevamo mandato a memoria, mostravano il lupo schiacciare il pulsante dell’inferno al riparo di un chiosco. Quelle che, ieri, gli hanno dato un nome, mostrano due macchine in movimento. Una Fiat Punto e una Hyundai.

SONO le auto su cui ha viaggiato questo benzinaio di 68 anni da Cupertino (Lecce), che di nome fa Giovanni Vantaggiato. La notte del 18 maggio per trasportare il suo carico di morte, le tre bombole di gas armate con un congegno a distanza. La mattina del 19, per tornare sul marciapiede della strage e finire il suo lavoro di morte.
È andata insomma come gli investigatori avevano immaginato. Ci sarebbero voluti del tempo e la pazienza di sfinirsi in un lavoro di verifica certosino (14 mila gli accertamenti conclusi fino a ieri) per arrivare al dettaglio che avrebbe tradito il lupo. E quel dettaglio, appunto, è arrivato ancora una volta da telecamere fisse di sorveglianza. Questa volta quelle in servizio per il controllo della viabilità cittadina in un quadrante urbano adiacente alla scuola Morvillo-Falcone. La notte del 18 maggio – in un orario compatibile con le due testimonianze che ricorderanno un uomo vestito con abiti scuri e un cappello armeggiare con un bidoncino di plastica trasparente intorno alla scuola – le telecamere catturano l´immagine di una Fiat Punto che si dirige verso la zona della scuola. Della macchina sono riconoscibili il numero di targa e una caratteristica della carrozzeria che la rende inconfondibile. Poco dopo, una terza telecamera di un esercizio commerciale in una via adiacente alla scuola, mostra quella stessa Fiat parcheggiata. Non si legge la targa, ma la macchina, grazie al dettaglio della carrozzeria, è la stessa. La Punto, intorno alle 3 del mattino, è di nuovo catturata dalle telecamere della viabilità. Marcia in senso inverso, per ritornare dalla direzione da cui proveniva.
È un dato, di per sé non decisivo. Ma che diventa cruciale con altre immagini. Quelle di un´altra macchina. Una Hyundai. Ripresa ancora una volta dalle telecamere della viabilità cittadina intorno alle 7 del mattino, proviene dalla stessa direttrice percorsa la notte prima dalla Fiat Punto. E dopo le 8 (la strage è delle 7.42), percorre la strada in senso inverso. Alla verifica degli investigatori appare immediatamente chiaro che non è una macchina qualunque. Perché la Hyundai e la Fiat sono legate da un dettaglio decisivo. La prima è intestata a Giovanni Vantaggiato, 68 anni all´anagrafe, di mestiere distributore di carburanti anche per uso agricolo in quel di Copertino, provincia di Lecce. La Fiat è intestata o comunque in uso alla moglie, una donna di 65 anni.
Non c´è evidentemente spiegazione logica alternativa alla presenza di quelle due macchine, e per giunta in quegli orari decisamente particolari del 18 e del 19 maggio, che non la considerazione che siano legate a quanto accade sul marciapiede che guarda la scuola. Non c´è ipotesi che possa giustificare un motivo plausibile per cui una coppia di anziani coniugi dovrebbe con il loro “parco auto” domestico aggirarsi nel cuore della notte del venerdì e all´alba del sabato, in una città – Brindisi – lontana dalla campagna del leccese in cui vivono. E per giunta, in un quartiere di scuole e tribunali. La sola spiegazione – concludono gli investigatori – è che Giovanni Vantaggiato sia il lupo che cercano. E che quel cambio di auto sia servito come tentativo di non lasciare traccia evidente della sua presenza sulla scena del crimine.
Afferrato dunque il filo decisivo, come in ogni matassa da sbrogliare, il resto viene da sé. E con una sequenza di evidenze che appaiono subito cruciali. A cominciare dalle celle telefoniche che nei giorni prima della strage collocano il cellulare dell´uomo nella zona della scuola. Per non dire delle sue fattezze. Che per età, altezza (1 metro e 60), modo di camminare, lineamenti, paiono subito collimare con ragionevole certezza con le immagini mostrate dalle riprese della telecamera del chiosco al momento della strage. Anche il suo mestiere dice qualcosa: distributore di carburanti. Una circostanza che spiega il perché della scelta rudimentale delle bombole di gas quale ordigno. Infine, l´ultimo dettaglio. Quando, ieri, polizia e carabinieri bussano alla sua porta, prova goffamente a nascondere il paio di occhiali che aveva sul volto la mattina della strage. Anche quelli fissati dalle immagini della telecamera del chiosco.
Il resto è cronaca della notte. Di un interrogatorio cominciato dopo le 23, con le prime confuse ammissioni che – riferiscono fonti investigative qualificate – sembrerebbe essere il preludio di una confessione. Giovanni Vantaggiato non avrebbe voluto colpire la scuola, ma il non lontano tribunale, per via di una vecchio processo vissuto come un affronto. Almeno così dice. Un primo abbozzo di movente. Vero o falso che sia, lo diranno le prossime ore.

Svolta a Brindisi, vende bombole a gas. La confessione nella notte. Giovanni Vantaggiato, 68 anni, di Copertino, ha un deposito di carburanti

Brindisi. «Quel bastardo, l´abbiamo preso. Gli abbiamo dato la caccia per giorni e giorni e finalmente ora l´abbiamo scovato. È lui, è lo stesso uomo del filmato, a casa gli abbiamo trovato gli stessi occhiali da vista che indossava quella mattina quando ha premuto il telecomando per far esplodere le tre bombole che hanno ucciso Melissa».
«All´inizio ha negato, ma contro di lui ci sono prove schiaccianti». Non nasconde la sua soddisfazione e quella di tutti gli altri colleghi (poliziotti, carabinieri, della squadra mobile di Brindisi, del Reparto operativo dei carabinieri, dello Sco e dei Ros) l´investigatore che ieri mattina ha bussato alla porta di Giovanni Vantaggiato, 68 anni, titolare di un deposito di carburanti a Copertino paese a una trentina di chilometri da Lecce. «Che volete? Io non ho fatto niente», ha detto al poliziotto e al carabiniere che erano andati a prelevarlo per portarlo in questura. A Lecce, lontano da Brindisi, per motivi di sicurezza. Poi, quando da persona informata dei fatti diventa indagato e viene chiamato il suo avvocato, Giovanni Vantaggiato infine confessa: «Sì sono stato io».
Non aveva detto nulla, fino a tarda sera, continuava a negare, ma poco dopo le 23 il procuratore di Lecce Cataldo Motta e i sostituti Di Nozza e Cataldi, firmano un provvedimento di fermo con l´accusa di strage, per avere ammazzato Melissa Bassi, studentessa di 16 anni, e sfregiato a vita altre due ragazzine. Erano le 7.42 del 19 maggio quando esplosero le tre bombole a gas piazzate davanti alla scuola Morvillo Falcone di Brindisi. Ora, quasi venti giorni dopo, Vantaggiato è davanti agli inquirenti che lo incalzano per ore. E alla fine, quando loro interrompono l´interrogatorio per interrogarlo nuovamente alla presenza del suo avvocato, Giovanni Vantaggiato crolla e fa le prime ammissioni: «Sono stato io».
La svolta che ha portato all´individuazione dello stragista è arrivata ieri mattina, poco dopo le 11. Sono state le sue automobili a tradirlo. Una Fiat Punto di colore bianco che era stata filmata dalle telecamere di via Palmiro Togliatti, viale Aldo Moro e via Galanti alcuni giorni prima della strage, e una Hyundai Sonica azzurra. La prima, la Fiat Punto, è stata utilizzata per un sopralluogo. C´è chi dice anche la notte del 18 maggio, per trasportare le tre bombole di gas e l´innesco. Lui nega pure questo: «Non vado a Brindisi da mesi, non ci metto piede da moltissimo tempo. Quella mattina ero qui, a Copertino nel mio deposito di carburante». Non sa ancora però che la sua auto è stata intercettata dai filmati delle telecamere nella vie adiacenti alla scuola. Mentre la mattina dell´attentato le telecamere riprendono la Hyundai azzurra. Entrambe le macchine sono della sua famiglia. La prima usa prevalentemente la moglie, l´altra lui.
Ma Vantaggiato continua a negare. Poi i magistrati gli fanno notare che le immagini, quelle delle telecamere del chiosco davanti la scuola che lo riprendono mentre fa avanti e indietro e mentre schiaccia il pulsante della morte diffuso da tv e siti internet il giorno dopo l´attentato, corrispondono ai suoi tratti somatici. «Sì, mi somiglia molto, ma quell´uomo non sono io», dice balbettando Giovanni Vantaggiato. «Non sono io, io non ho fatto nulla», continua a ripetere. Ma per chi indaga quel filmato lo inchioda alle sue responsabilità. «L´abbiamo visionato e radiografato decine e decine di volte e stamattina (ieri per chi legge, ndr) quando siamo andati a prelevarlo siamo rimasti sconcertati. Era lui. Tutto corrisponde, anche il tipo di occhiali da vista che indossava quella mattina e che oggi, quando lo abbiamo invitato in questura, ha tentato di nascondere. Un tentativo quasi automatico che però non è servito a nulla. Non solo tutto corrispondeva, altezza e peso per esempio, ma anche l´andatura, la sua camminata particolare con quel braccio destro che tirava sempre i pantaloni in su e lo ha fatto anche mentre lo interrogavamo».
Ma c´è di più, ci sono alcune intercettazioni ambientali e telefoniche che hanno confermato i sospetti degli investigatori, alcune conversazioni con la moglie di Giovanni Vantaggiato dove si intuisce che anche lei sapeva. E c´è un precedente: l´uomo era già stato sospettato di essere il responsabile di un attentato . Il 25 febbraio del 2008 era finito nel mirino degli inquirenti perché ritenuto responsabile di aver piazzato esplosivi sul cestino della bicicletta di Cosimo Parato, a Torre Santa Susanna, vicino Francavilla Fontana. Insomma per gli inquirenti il caso è chiuso e se si sono sbilanciati fino a questo punto vuol dire che non hanno più dubbi su chi sia il responsabile della strage il 19 maggio scorso. A tarda notte, stremato dagli interrogatori e dalle prove schiaccianti nei suoi confronti, Giovanni Vantaggiato dopo aver confessato inizia a raccontare gli assurdi perché della strage.

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