Lotte armate

Arrestata Daniela Luise Klette, 65 anni, ex militante della Terza Generazione della Rote Armee Fraktion, ricercata per il passato nella lotta armata quanto per il presente da rapinatrice di portavalori per finanziarsi la fuga perenne, dopo più di 30 anni di latitanza

 

BERLINO. Gli inquilini del condominio al civico 73 di Sebastianstrasse assediati dai cronisti, possono solo testimoniare che «Frau Claudia» portava a spasso il cane e parcheggiava la bicicletta nell’androne delle scale, come tutti.

Un’ex terrorista della Raf? «Così dice il telegiornale; prima notizia» taglia corto la dirimpettaia irritata dal supplemento di disturbo della quiete già profondamente minata dal via-vai di agenti della polizia scientifica.  I nastri bianchi e rossi usati per delimitare la zona del crimine si estendono lungo l’intero palazzo. D’ora in poi Sebastianstrasse non sarà più conosciuta soltanto per ospitare il famoso tunnel sotto al Muro scavato da chi scappava dalla Ddr.

Nell’angolo più popolare di Kreuzberg, il quartiere alternativo di Berlino, si chiudono oltre trent’anni anni di latitanza al limite dell’impossibile di Daniela Luise Klette, 65 anni, ex militante della Terza Generazione della Rote Armee Fraktion, ricercata per il passato nella lotta armata quanto per il presente da rapinatrice di portavalori per finanziarsi la fuga perenne.

La Kriminalpolizei di Berlino l’ha bloccata lunedì sera in pieno assetto da guerra: a bordo di un mezzo blindato insieme a un plotone di colleghi della Bassa Sassonia forti dei sei mandati di arresto firmati dalla procura di Hannover.

«La cattura di Klette è stata possibile grazie a 250 informazioni importanti, di cui cinque fondamentali e quella essenziale per l’arresto raccolta lo scorso novembre e poi messa a confronto con alcune impronte digitali» è la versione ufficiale degli investigatori.

Poche ore dopo l’arresto di Klette la polizia ha fatto sapere di avere fermato anche un uomo le cui sembianze «potrebbero» coincidere con l’identikit di uno degli altri due “pensionati della Raf” ricercati per le stesse rapine condotte prevalentemente a cavallo fra il 2016 e il 2016: Ernst-Volker Staub, 69 anni, e Burkhard Garweg, 55. «Assai presumibilmente il documento dell’arrestato è falso come quello intestato a Daniela Klette. Ci vorrà un po’ di tempo per verificare la sua reale identità» sottolinea la polizia a giustificazione dell’assenza di ogni certezza a riguardo.

A quanto pare Daniela si faceva chiamare Claudia e viveva più o meno stabilmente a Kreuzberg da almeno vent’anni. Quando è stata fermata dalla polizia aveva in tasca un passaporto italiano con non meglio precisate generalità. Non ha opposto alcuna resistenza.

Formalmente «Frau Claudia» si guadagnava da vivere come insegnante privata di matematica, come racconta il vicino con cui Klette manteneva i rapporti strettamente essenziali «anche se lo scorso dicembre ha bussato alla mia porta per regalarmi una scatola di biscotti natalizi».

Gli agenti mostrano invece i diversi proiettili sequestrati nell’appartamento di Klette come parte della caccia all’arsenale del gruppo che spazia dalle pistole ai fucili d’assalto fino all’arma anticarro usata per convincere l’autista di un portavalori a non confidare troppo nella corazza del suo mezzo.

A brandeggiare il bazooka, ricordano i testimoni del più spettacolare degli assalti dei “pensionati della Raf”, era proprio Daniela Klette la cui esperienza sul campo è incontestabile. Il suo Dna è stato trovato nell’auto utilizzata nel 1991 nella fuga dopo l’attacco all’ambasciata Usa di Bonn ma anche nella lettera confiscata alla militante Raf, Birgit Hogefeld, dopo l’operazione delle teste di cuoio tedesche a Bad Kleinen.

Figura di spicco della Terza Generazione della Raf, entrata in clandestinità nel 1989, Klette è stata politicamente attiva dal 1975 fino agli anni Novanta, anche se non c’è prova che rivestisse ruoli di comando nell’organizzazione dissolta ufficialmente con lo storico comunicato di rinuncia alla lotta armata del 20 aprile del 1998.

La sfilza di accuse contro Klette parte dal 1990 con la complicità nell’attentato con l’autobomba al centro tecnico di Deutsche Bank, continua nel 1993 con l’assalto alla prigione di Weiterstadt e prosegue con la sequenza rapine di autofinanziamento iniziate negli anni Novanta con lo svaligiamento di un milione di marchi da un portavalori a Dusiburg e portate avanti nel decennio successivo con bottini sempre più rilevanti: dai 100 mila euro rubati in un supermercato di Bochum fino all’incredibile attacco con il bazooka a un portavalori a Cremlingen fruttato ben 600 mila euro.

Finora l’unica foto pubblica di Daniela Klette risaliva agli anni Ottanta, nonostante l’aggiornamento artificiale della foto segnaletica nel 2016, mentre fino a ieri la taglia messa dalla polizia criminale era 150 mila euro per ogni utile informazione a rintracciarla, viva o morta.

* Fonte/autore: Sebastiano Canetta, il manifesto

Torino, Porta numero 2 di Mirafiori, carrozzerie. Nel piazzale è approdata una marcia con tante bandiere rosse che ha fatto il giro del pezzo più importante dell’ex Fiat

TORINO. Torino, Porta numero 2 di Mirafiori, carrozzerie. Ho appena lasciato quel piazzale, dove è approdata una marcia con tante bandiere rosse che ha fatto il giro (5 km) del pezzo più importante dell’ex Fiat. L’ha promossa – la prima dopo 43 anni che qui non si erano più fatte manifestazioni – Sinistra italiana e infatti ci sono anche Fratoianni, Bonelli, Grimaldi, ma anche tanti vecchi operai, molti giovani e i delegati di tutti i settori, che a ogni tappa, a turno, hanno informato su cosa sia avvenuto della produzione di quella che un tempo era una delle fabbriche più grandi del mondo, molta già trasferita (la topolino in Marocco, la 600 in Polonia, un’altra parte già destinata alla Serbia) o in attesa di sapere dove.

Carlos Tavares, l’ad di Stellantis, è stato forse convocato in Italia per dare qualche notizia? No, naturalmente. Quanto a comunicarlo agli operai ancora occupati nemmeno a pensarci: sono merce, come sappiamo, non umani, e non è necessario che conoscano cosa succede. Non siamo forse una democrazia? Sì, per grazia di dio, ma le sue regole non operano entro i recinti della proprietà privata. Il corteo, accompagnato da una musica che alterna «Morti di Reggio Emilia» alle ultime di Sanremo – «Un ragazzo incontra una ragazza» molto ripetuta (e infatti non è niente male) – raggiunge l’ultima tappa dove l’ultimo discorso debbo farlo io, che qui, davanti a questa porta, ho passato tanti giorni della mia vita di 50 anni fa. Quando questo piazzale era una grande agorà permanente, il luogo di un confronto di massa, soprattutto i tanti studenti sessantottini, per i quali Torino era diventata la Mecca, la città simbolo di un’inedita grande offensiva che aveva come obiettivo non solo l’appoggio a una lotta, ma il cambiamento del mondo.

Venivano, venivamo anche noi non più studenti ma alle prese con l’avvio dell’avventura del manifesto, che in questo luogo simbolico del nuovo scontro di classe aveva deciso di mettere le proprie radici. Venivamo per aiutare gli operai a prendere parola, per costruire un’alleanza contro chi pensava che la modernità fosse tutto e non capiva che, nell’orizzonte del capitalismo, sarebbe diventata solo il peggio. Tutti in realtà venivamo innanzitutto per imparare. Sono emozionata. Vorrei trasmettere quello che sento a chi oggi mi sta difronte. Il mio non è amarcord, come è stato tutte le volte che in questi anni sono venuta qui in solitudine, l’ultima, ricordo, con Daniele Segre, l’amico regista appena scomparso che su quel che qui succedeva ha fatto i più bei film: lo spiazzo sempre deserto, solo qualche ex operaio desolato che porta qui il cane a passeggio. Oggi è diverso: ci sono le bandiere rosse, i ragazzi, i nuovi delegati. Mi viene voglia di raccontare come accadde che gli operai della Fiat si inventarono e riuscirono a fare i Consigli di fabbrica, coinvolgendo un sindacato all’inizio diffidente.

Ricordo bene il primo: fu sulla scala davanti a una nota ballera non lontana dalla porta n. 2, in poco tempo furono tanti e con loro l’esercizio e l’orientamento dell’azione direttamente nelle loro mani, il sindacato aiuto prezioso ma non più solo arbitro del che fare. Un fare che diventa via via gestione diretta, non solo delega a trattare: il salto della scocca, per rallentare i tempi della catena di montaggio; gli aumenti uguali per tutti, non fantasia egualitaria ma mezzo per togliere il potere di ricatto ai capireparto. E poi la scoperta del fuori delle mura dove si consuma la vita degli operai e perciò i consigli di zona, Medicina Democratica, le 150 ore.

Furono anticipazioni di quanto oggi sarebbe urgente ritentare. Proprio le 150 ore, lo studio, almeno un pezzetto, alternato al lavoro: se oggi non riprendiamo quel percorso cosa accadrà delle competenze acquisite a tutti i livelli, anche quello delle lauree, destinate a diventare obsolete in pochi anni per via del ritmo del progresso tecnologico, che oggi impone di ripensare subito alla necessità di un’istruzione che continui anche quando già si lavora, lungo l’arco di tutta la vita, se non si vuole che in futuro tutto il potere sia a disposizione di una minoranza di superspecializzati e una massa destinata a diventare i loro servitori. «4 ore di studio, 4 ore di lavoro» fu la proposta del manifesto all’epoca. Perché abbiamo lasciato perdere? E i consigli di zona, perché non andare a rivedere quell’esperienza per tanti versi simile al «sindacato di Strada» oggi lanciato da Landini e che però stenta a realizzarsi?

Non è per tornare al passato, lo dico perché ho l’impressione che quella esperienza sia stata rimossa non perché invecchiata ma perché guardava troppo lontano.
Se oggi vogliamo che la transizione verso un modello sostenibile non sia solo bugia occorre tornare a guardare lontano, perché solo pensando a un cambiamento radicale potremmo usare le nuove tecnologie e le indicazioni che ci vengono dalla minaccia ecologica in occasioni che ci impongono una grande trasformazione che è però anche quella ormai indispensabile per farci vivere più felici e meno oppressi. Anziché com’è ora, angosciati per i guai che, lasciate a sé stesse, le innovazioni possono produrre.

Dalla mia visita a porta 2 di Mirafiori, grazie alla marcia Clima-Lavoro, sono tornata ottimista. Ce la possiamo fare. La nostra controparte non è vero che sta vincendo, diventa più cattiva perché il suo modello di sistema non funziona più. Diventa più violenta perché non trova più i margini per una qualche mediazione. Oggi mi sembra che si sia inferta qualche ferita al vero nemico del nostro tempo attuale, la famosa Tina («there is no alternative») cioè «Non c’è alternativa». Nemico più pericoloso della povera Meloni, fiera di appartenere alla schiera cui piace esser definiti «conservatori». Ma cosa diavolo vuole conservare? Carlos Tavares?

* Fonte/autore: Luciana Castellina, il manifesto

Arnaldo Otegi e Arkaitz Rodríguez hanno scelto il decimo anniversario dell’annuncio della fine dell’attività dell’Eta – cui sarebbe seguita, nel 2018, l’autodissoluzione – per manifestare solennemente il loro dolore per le sofferenze inflitte dall’organizzazione armata.

«Soffriamo per il dolore delle vittime e a partire da questo sentimento sincero affermiamo che non avrebbe mai dovuto essere causato. Nessuno può essere soddisfatto per ciò che è successo» hanno affermato il coordinatore della coalizione indipendentista Eh Bildu e il portavoce del suo principale partito Sortu, spiegando che lo storico passo è necessario per il consolidamento di una «pace giusta e duratura». «Purtroppo a ciò che è stato non si può porre rimedio (…) ma siamo convinti che è possibile quantomeno alleviare il dolore a partire dal rispetto, dal riconoscimento e dalla memoria (…) La scelta dell’indipendentismo di sinistra di seguire una via esclusivamente pacifica e democratica risponde a profonde convinzioni etiche e politiche» hanno aggiunto. Otegi ha rivendicato il ruolo «attivo e decisivo» dei prigionieri politici baschi nel superamento della strategia armata (ne rimangono più di 200, rinchiusi nelle carceri spagnole e francesi) e ha chiesto la fine della dispersione.

Nel 2011 Otegi era in prigione da due anni, vittima di una maxi retata condotta, paradossalmente, contro i dirigenti di Batasuna che organizzavano la svolta politica che portò allo scioglimento dell’Eta. Oggi l’ex militante dell’organizzazione armata guida una coalizione di centrosinistra che ha visto crescere i suoi consensi (sottraendoli anche a Podemos) e che ha tenuto relativamente unita l’ezkerra abertzale senza subire scissioni di rilievo, anche se parte della militanza si è allontanata, vittima del riflusso o delusa dalla scarsa conflittualità dal nuovo corso.

Il gesto è stato apprezzato da parte delle vittime dell’Eta, e i soci del governo spagnolo, Psoe e Podemos, hanno incassato con soddisfazione l’ultimo step della strategia di Otegi, che rafforza il sostegno di Eh Bildu, seppur dall’esterno, al premier Sánchez, con l’obiettivo di consolidarne il profilo progressista.

Le destre, orfane degli argomenti che gli forniva l’esistenza dell’Eta, definiscono invece un «macabro scherzo» le scuse rivolte alle vittime dai «terroristi di sempre».

 

* Fonte: Marco Santopadre, il manifesto

Per le comunità cristiane di base salvadoregne, la scomparsa sabato scorso, all’età di 77 anni, del sacerdote ed ex guerrigliero Rutilio Sánchez è stata un colpo durissimo. Vero “prete fatto popolo”, al cui servizio si è svolta la sua intera, avventurosa traiettoria di vita, Tilo, come lo chiamavano tutti, scelse durante la guerra di esercitare il ministero sacerdotale al fronte, in un’area controllata del Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale, pienamente convinto che «la giustizia e la fedeltà» fossero lì dove si trovavano «i combattenti del Fmln».

«Vado a cercare la pecora ferita che si è persa sulla montagna», scrisse all’allora arcivescovo Arturo Rivera y Damas comunicandogli la sua decisione: «Intendo solo prendere la croce e seguire Gesù nei burroni, sulle colline, nelle trincee dove si vivono le beatitudini alla lettera e in spirito, creando le basi del Regno di Dio, un mondo in cui ci sia pane per tutti».

Da lì, meno di un anno dopo, avrebbe scritto sul suo diario: «La vita qui è in grande: grande tristezza, grande gioia, grandi invasioni militari e grande fame. Ma siamo accompagnati da grandi eroi che difendono le nostre comunità».

L’esperienza al fronte era stata per Tilo, però, solo una logica conseguenza del suo impegno rivoluzionario. Punto di riferimento imprescindibile e amatissimo dell’organizzazione contadina – che aveva accompagnato fin dai suoi primi passi – era stato, secondo le sue stesse parole, «dirigente non ufficiale» delle Forze popolari di liberazione – poi confluite nel Fmln -, già al momento della loro fondazione. «Un giuramento – aveva poi raccontato – a me non lo chiesero mai, perché ero stato chiaro nel dire che mi sentivo, al tempo stesso, un rivoluzionario e un sacerdote».

E, a sorpresa, era stato proprio a quel prete considerato sovversivo, sfuggito a innumerevoli attentati, che l’arcivescovo Oscar Romero aveva chiesto di assumere la direzione della Caritas. Un incarico che aveva subito attirato a Tilo l’accusa di politicizzare l’organismo e addirittura di consegnarlo alla guerriglia. «I poveretti a cui diamo un bicchiere di latte e un sacchetto di farina li stiamo in fondo diseducando. Con questi contadini organizzati avviene il contrario. La loro lotta educa tutti noi, anche lei!», spiegava a mons. Romero, con il quale aveva un rapporto non privo di tensioni ma sicuramente profondo e fecondo.

Alla guida dell’organismo era rimasto fino a circa una settimana prima dell’assassinio dell’arcivescovo (24 marzo 1980), quando, accusato di inviare cibo ai gruppi guerriglieri, aveva ricevuto da lui la richiesta di cedere la direzione. «Parleremo dopo», gli aveva assicurato Romero. «Il venerdì un amico giornalista mi scattò l’ultima fotografia insieme a lui. La conservo ancora. Tre giorni dopo venne assassinato. Non fu più possibile parlarne».

Ci avevano provato a lungo e in tanti modi a uccidere anche lui, fin dal suo primo incarico a Suchitoto, dove era arrivato nel ’69. Nel 1976 avevano collocato un esplosivo nella sua macchina, ma non erano riusciti a farla saltare. E nello stesso anno individui armati avevano sparato contro il suo veicolo, senza però colpirlo. Nel ’77 un contingente di membri della Guardia Nazionale e di paramilitari di Orden aveva circondato la chiesa e la casa parrocchiale di San Martín allo scopo di catturarlo. Qualcuno tuttavia aveva fatto suonare le campane, richiamando gente in parrocchia. Ed era stato questo a salvargli la vita. Sempre nel ’77 agenti della polizia nazionale avevano catturato un uomo che stava parcheggiando la sua macchina, credendo che fosse lui. Lo avevano trattenuto tre giorni e, dopo averlo torturato, gli avevano fatto firmare accuse false contro il «prete comunista».

«Alcuni amici non volevano che li andassi a trovare perché temevano che, per uccidere me, avrebbero eliminato anche loro e la loro famiglia», avrebbe confidato in seguito.

Rutilio Sánchez era rimasto a San Martín fino all’aprile del 1980, quando la persecuzione nei suoi confronti era diventata insostenibile. Era stato quindi mandato in Europa, come rappresentante all’estero del Fronte Democratico Rivoluzionario, ma poi, nell’81, era tornato in El Salvador e preso la via della montagna.

«Sono stato un prete guerrigliero», ha raccontato: «Quando arrivai, si era deciso che non avrei usato armi. E mi erano state assegnate da tre a cinque persone perché mi proteggessero. Cominciai a chiedermi se era meglio che cinque morissero per salvare il prete o il prete morisse per difendere quei cinque. La scelta fu facile. È così che presi il fucile. Non fui mai un combattente di prima linea, ma quando arrivavano le jeep dei soldati e bisognava sparare, io sparavo. Sparavo lontano, alla cieca, contro le jeep. Non so se abbia ucciso qualcuno. Ma non sento il peso sulla coscienza, perché i soldati avrebbero assassinato anche gli anziani e i bambini».

Dopo gli accordi di pace del 1992, quando la fine delle «grandi invasioni militari» aveva lasciato immutata la «grande fame» – e non c’era più un arcivescovo capace di prendere su di sé il dolore della sua gente, di denunciarlo ai responsabili e di convertirlo in speranza – Tilo aveva deciso di non assumere alcun incarico politico, optando per accompagnare il suo popolo nel cammino della ricostruzione.

È il lavoro che in tutti questi anni ha svolto il Sercoba, Equipo de Servicio para Comunidades de Base, da lui fondato nel 1992 con l’appoggio di una missionaria laica italiana, Mariella Tapella, per promuovere lo sviluppo integrale delle comunità attraverso diversi progetti di autogestione. «Il nostro compito – spiegava – è quello di educare, perché la conoscenza è veicolo di libertà; di coscientizzare, perché avere coscienza significa rompere l’isolamento, superare l’individualismo e iniziare un cammino solidale comunitario; di organizzare la base».

Senza però mai rinunciare all’impegno politico in difesa dei diritti umani, contro quei «progetti di morte» – dalla costruzione di grandi dighe allo sfruttamento dei giacimenti minerari, dalla deforestazione all’uso dei pesticidi – che per Tilo impedivano «di fare della creazione qualcosa di nuovo».

* Fonte: Gianni Beretta, Claudia Fanti, il manifesto

Il Tribunale Europeo dei Diritti Umani è tornato ieri a condannare il Regno di Spagna, censurando stavolta la condanna inflitta dall’Audiencia Nacional al dirigente della sinistra indipendentista basca Tasio Erkizia nel maggio 2011.

Nel dicembre 2008 Erkizia intervenne in un atto organizzato nel comune di Arrigorriaga (Biscaglia) per celebrare la figura di José Miguel Beñaran «Argala» a trent’anni dalla sua morte; il dirigente marxista dell’Eta, accusato di aver fatto parte del commando che nel 1973 aveva ucciso a Madrid il capo del governo e delfino di Franco, Luis Carrero Blanco, fu assassinato nel 1978 in un attentato realizzato nel Paese Basco francese dal cosiddetto “Batallón Vasco-Español”, uno dei nomi utilizzati dagli squadroni della morte spagnoli attivi contro l’insorgenza basca da metà anni ’70 fino al 1987.

La celebrazione costò a Erkizia una condanna – confermata nel 2016 dal Tribunale Costituzionale – ad un anno di reclusione per «incitamento al terrorismo» e l’interdizione dai pubblici uffici per 7 anni.

Ora però, giudicando che la Spagna ha violato l’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, il Tribunale di Strasburgo ha annullato la sentenza in quanto l’intervento di Erkizia rientrava all’interno del legittimo esercizio della libertà d’espressione. La CEDU ha anzi condannato Madrid a risarcire il dirigente della ezkerra abertzale per un totale di 11.000 euro tra danni e spese processuali.

La sentenza – passata con 4 voti a favore e 3 contrari – segnala che, pur celebrando la figura dello scomparso dirigente dell’Eta, il contenuto delle parole di Erkizia mostra che «non aveva intenzione di incitare alla violenza o alla difesa del terrorismo», «né direttamente né indirettamente»; al contrario, dice la CEDU, l’ex dirigente di Herri Batasuna e parlamentare regionale basco dal 1984 al 1998 difese nel suo intervento «l’uso di strumenti democratici per ottenere gli obiettivi politici della sinistra indipendentista basca».

Del resto di lì a poco – il 20 ottobre 2011 – l’Eta avrebbe dichiarato la fine dell’attività armata per poi annunciare lo scioglimento nel 2018. Il Tribunale europeo conclude giudicando che «l’ingerenza delle autorità pubbliche nel diritto alla libertà d’espressione del ricorrente non può essere considerata «necessaria in una società democratica».

* Fonte: Marco Santopadre, il manifesto

Al processo si è assunto l’intera responsabilità politica per la storia dell’organizzazione clandestina. È stato condannato a 11 ergastoli per concorso a 11 omicidi e altri atti di terrorismo.

Ora Koufontinas rischia di diventare il primo detenuto politico europeo che perde la vita dopo uno sciopero della fame dopo il 1981, quando il militante dell’Ira Bobby Sands morì in carcere mentre a Londra regnava Thatcher. Ora ad Atene regna un convinto thatcheriano, Kyriakos Mitsotakis.

Koufontinas è in sciopero della fame da 50 giorni. Negli ultimi giorni ha deciso di procedere anche allo sciopero della sete. Da 11 giorni è ricoverato al reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Lamia. Secondo il suo medico Thodoris Zdoukos, il suo fisico sta allo stremo, rischia il coma, c’è pericolo che non arrivi a lunedì.

Koufontinas protesta perché la destra al governo lo ha preso di mira. Mitsotakis prima ha affidato la gestione del sistema carcerario al ministero dell’Ordine pubblico e subito dopo ha sancito una legge ad hoc che nega ai condannati per terrorismo una serie di diritti riconosciuti agli altri detenuti: brevi permessi premio e la possibilità di eseguire la pena lavorando nelle carceri agricole. Questo malgrado le autorità abbiano sempre riconosciuto al detenuto un comportamento esemplare.

L’ultimo provvedimento, quello che ha portato Koufontinas all’estrema forma di lotta, è stata la decisione del ministero di polizia di spostarlo da Atene e internarlo in un carcere speciale collocato a Domokos, località montagnosa della Grecia centrale. Carcere non solo difficilmente raggiungibile dalla moglie e dal figlio di Koufontinas ma anche noto per il sovraffollamento e le pessime condizioni di detenzione.

Una decisione del tutto irregolare e illegale, che la responsabile del ministero Sofia Nikolaou ha tentato invano di giustificare ricorrendo alla pandemia, mentre metteva in campo grossolani trucchetti burocratici pur di impedire al detenuto di agire per via legale.

«È evidente che si tratta di un’azione di natura vendicativa», spiega al manifesto l’avvocata Ioanna Kourtovik, difensore di Koufontinas. L’ex terrorista è ritenuto l’uomo che ha schiacciato il grilletto nell’assassinio di Pavlos Bakoyannis nel 1989. Un’azione terroristica difficilmente comprensibile.

La vittima era un coraggioso giornalista schierato contro i colonnelli e poi eletto deputato di Nuova Democrazia. Ma era anche cognato dell’attuale premier, marito della sorella Dora Bakoyannis, ex sindaca di Atene ed ex ministra degli Esteri. Il figlio, Kostas Bakoyannis, è attualmente sindaco di Atene.

«Sicuramente il premier ha in mente un’azione esemplare nel nome della sua dinastia politica – continua Kourtovik – ma dietro vi è anche una strategia da legge e ordine che ha scatenato dinamiche da guerra civile: distruggere il nemico o renderlo inoffensivo, per affermare la potenza dello schieramento conservatore e soffocare qualsiasi voce di protesta».

Questo malgrado alcuni esponenti del governo, l’Ordine degli Avvocati, Amnesty e molti altri abbiano chiesto che i diritti del detenuto siano rispettati.

Al momento il governo sembra orientato a imporre allo scioperante l’alimentazione forzata, una pratica vietata dalle convenzioni internazionali, che i medici dell’ospedale di Lamia hanno già rigettato.

* Fonte: Dimitri Deliolanes, il manifesto

Donostia-San Sebastián. Freddo gelido, una tormenta di neve e migliaia di cittadini per le strade di 238 località. Siamo in Euskal Herria e al di qua e al di là della muga, la frontiera (con la Francia), i riflettori si accendono ancora una volta su diritti dei detenuti, politiche carcerarie, risoluzione del conflitto e convivenza.

GENNAIO È IL MESE della tradizionale manifestazione di Bilbao, in cui decine di migliaia di persone invadono il centro della città, riversandosi per le vie e sfilando in un’impressionante marcha. Lo scorso 9 gennaio però, almeno in parte, si respirava un’aria diversa, non solo per il fatto che la manifestazione ha dovuto frammentarsi per ragioni di sicurezza dovute alla pandemia, ma perché la questione penitenziaria che interessa i prigionieri politici baschi sta subendo un’evoluzione.

L’avvicinamento dei prigionieri a carceri limitrofe, vicine o situate nei Paesi Baschi, in Navarra e nelle provincie dell’Iparralde, (letteralmente “territorio nord”, i Paesi Baschi francesi), è da sempre un tema controverso. Negli ultimi tre anni il governo spagnolo di Pedro Sánchez ha promesso una «nuova direzione». Secondo l’agenzia Europa Press, la Segreteria generale delle Istituzioni penitenziarie, che dipende dal ministero dell’Interno, ha autorizzato 144 trasferimenti di detenuti politici baschi, l’80% dei quali nel solo 2020.

Le detenute e i detenuti sono ad oggi 218, stando ai dati di Sare, la ong che si autodefinisce «rete di cittadini che lavora in difesa dei diritti umani dei prigionieri, dei deportati e degli esiliati». 163 si trovano in carceri spagnole, 30 in centri di detenzione francesi e 25, il 13% del totale, stanno compiendo la condanna in Euskal Herria. Sare è l’ente che organizza la manifestazione da quasi un decennio, per rivendicare «la fine della violazione dei diritti dei prigionieri di Eta e il loro avvicinamento» e allo stesso tempo per favorire «la convivenza e la pace».

Joseba Azkarraga e Begoña Atxa, portavoci della rete, stimano che « quest’anno si sono riuniti circa 52 mila cittadini» e sottolineano l’appartenenza a «ideologie diverse», dato che dalla sua nascita Sare ha avuto un appoggio sempre più ampio.

LA CERIMONIA UFFICIALE, tenutasi a Bilbao, ha visto la partecipazione di rappresentanti del Partito nazionalista basco (Pnv), EH Bildu (il partito della sinistra indipendentista guidato da Arnaldo Otegi), Elkarrekin Podemos e Podemos Navarra (le declinazioni basche di Podemos), Geroa Bai (partito navarro di coalizione) e tutti i sindacati.

La politica di dispersione prevede che i detenuti baschi siano assegnati a carceri situate a centinaia di chilometri di distanza dal loro domicilio, provocando, denuncia Etxerat, l’associazione dei familiari dei prigionieri, vittime sia sul fronte dei detenuti che su quello dei loro genitori, figli, coppie, fratelli, amici, compagni di studio e di lavoro. Etxerat, che vuol dire «a casa», conta 348 incidenti automobilistici, 944 persone coinvolte e 16 morti. Seguendo i dati aggiornati di Etxerat e del quotidiano basco Gara, la politica di riavvicinamento ha fatto sì che 13 carceri francesi e 5 spagnole si siano svuotate dei detenuti politici baschi; due carceri, quelle di Logroño e di Puerto Santa María, ai poli opposti della penisola, ospitano 13 persone, il più alto numero di detenuti di questa tipologia concentrati in uno stesso penitenziario; in Euskal Herria, si trovano attualmente detenute oltre una ventina di persone, contro le 2 del 2018.

Un 29% dei prigionieri si trova in carceri situate a una distanza compresa tra i 600 e i 1100 chilometri dal paese d’origine e un 20% in altre distanti tra i 400 e i 600 chilometri.

Il cambio della politica penitenziaria del governo Sánchez sui detenuti baschi infuoca il dibattito, l’opinione pubblica e la destra spagnola all’opposizione. Popolari, Ciudadanos e Vox accusano il ministro degli Interni Fernando Grande-Marlaska di aver «perso la dignità» nelle negoziazioni per poter approvare la manovra di bilancio del 2021. Accusano il governo di aver barattato presos por presupuestos, «prigionieri per il bilancio», adducendo il fatto che EH Bildu abbia approvato i conti pubblici dello Stato.

È IN EFFETTI LA PRIMA VOLTA nella storia che EH Bildu sostiene una finanziaria del governo spagnolo, dopo aver chiesto l’appoggio ai propri militanti in un’assemblea straordinaria. Fonti del partito sostengono che l’ampio consenso sia dovuto alla volontà di «essere agenti attivi e di cercare alleanze che abbiano come obiettivo quello di ampliare i diritti delle persone e mettere un freno alle destre e alle loro politiche retrograde». Ma il dubbio che ci sia stato un accordo sotterraneo per favorire l’avvicinamento dei detenuti resta.

* Fonte: Angela Maria Salis, il manifesto

In un originale radiofonico in tre puntate di Guido Piccoli, trasmesso sui canali della Radiotelevisione svizzera (RSI), la storia di Monika Ertl, “Imilla”, la comandante guerrigliera che ha vendicato Ernesto Che Guevara uccidendo il suo torturatore Roberto Quintanilla, già a capo dei servizi segreti boliviani, che aveva fatto tagliare le mani al Che e si era fatto fotografare tronfio accanto al suo cadavere. Divenuto diplomatico e destinato all’ambasciata boliviana ad Amburgo, in Germania, nell’aprile 1971 Imilla presenta il conto a Quintanilla e lo uccide con tre colpi di una colt 38 special, acquistata in Italia da Giangiacomo Feltrinelli.

Tornata alla guerriglia in Bolivia, è morta combattendo nel maggio 1973.

 

Prima puntata: https://www.rsi.ch/play/radio/domenica-in-scena/audio/imilla-la-vendetta-del-comandante-1-3?id=13669996

Seconda puntata: https://www.rsi.ch/play/radio/domenica-in-scena/audio/imilla-la-vendetta-del-comandante-2-3?id=13670020

Terza e ultima puntata: https://www.rsi.ch/play/radio/domenica-in-scena/audio/imilla-la-vendetta-del-comandante-3-3?id=13670047

 

«Nos están matando», ci stanno ammazzando, è il grido che risuona in tutta la Colombia, scritto sui muri, ripetuto durante le manifestazioni e rilanciato dalle reti sociali.

È il grido dei dirigenti sociali, dei leader indigeni, dei militanti di sinistra, degli studenti, degli ex combattenti, di fronte a una lista di omicidi selettivi e ora anche di stragi che sembra non avere mai fine. «Questo non è un paese, ma una fossa comune con inno nazionale», si leggeva in uno striscione di una delle tante manifestazioni di quest’anno.

Della speranza che avevano suscitato nel paese, nel 2016, gli accordi di pace tra il governo e le Farc non c’è più traccia: «Stanno facendo a pezzi gli accordi», denuncia la senatrice Aida Avella, presidente dell’Unión Patriótica, e con essi «i difensori dei diritti umani, quanti lottano per la terra, le persone inserite nei programmi di sostituzione delle coltivazioni illecite».

Sembrerebbe, continua, che abbiano disarmato i guerriglieri per poterli uccidere più facilmente. E anche l’Onu alza la voce, evidenziando come «la violenza incessante contro gli ex combattenti continui a ostacolare il consolidamento della pace».

Né pare sia servito a qualcosa l’incontro che i rappresentanti del partito Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común) – al termine della carovana di circa 2mila ex combattenti partita il 21 ottobre da varie parti del paese in direzione di Bogotá – hanno sostenuto il 6 novembre con il presidente Duque, una volta tanto presente di persona, per affrontare temi relativi al rilancio del processo di pace.

A partire da quello, cruciale, del reinserimento degli ex guerriglieri nella vita sociale ed economica, per il quale finora poco o nulla si è fatto: «I progetti produttivi sono fermi – spiega un partecipante della carovana, José Mosquera – Ma poiché abbiamo preso la decisione di deporre le armi stiamo resistendo e sopportando».

Un’ennesima forma di pressione sul governo, quella della carovana della Farc «per la vita e la pace», immediatamente seguita alla minga promossa dal Centro regionale indigeno del Cauca e allo sciopero nazionale organizzato proprio il 21 ottobre dal Comité nacional del paro, costituito da sindacati e organizzazioni che hanno guidato le proteste iniziate nel novembre dello scorso anno.

Tuttavia, già il 14 novembre, il partito Farc ha dovuto denunciare l’assassinio di un altro ex guerrigliero, Heiner Cuesta Mena, nel dipartimento di Chocó, e il lunedì successivo quello di altri due, Jorge Riaños Ramos nel Caquetá e Enod López nel Putumayo, con i quali salgono a 241 gli ex combattenti uccisi dalla firma degli Accordi di pace.

Un numero che va ad aggiungersi ad altri ugualmente agghiaccianti: più di 250, secondo l’Instituto para el Desarrollo y la Paz (Indepaz), i leader sociali assassinati nel 2020, mentre le stragi sono arrivate addirittura a 70.

E non è lecito farsi troppe illusioni sulle prospettive che si aprono con la sconfitta di Trump, convinto sostenitore di Duque e del suo mentore Álvaro Uribe, il più acerrimo nemico della pace, descritto da The Donald come «alleato del nostro paese nella lotta contro il castro-chavismo».

Se è probabile che l’uribismo risentirà della perdita di appoggio da parte di Trump, lo è molto meno che Biden decida di sostenere un candidato progressista come Gustavo Petro.

Piuttosto, la sua scelta potrebbe cadere su un esponente di destra vicino all’ex presidente Juan Manuel Santos, magari più aperto di Duque al processo di pace, ma sicuramente poco incline a una trasformazione del paese come quella che chiede buona parte del popolo colombiano

* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto

In Fare fuoco (Sem, pp. 250, euro 16), Daniele Garbuglia toglie volontariamente all’epica brigatista tutto l’armamentario ideologico, la retorica del linguaggio dottrinario dello scontro frontale, lasciando, con un’asciuttezza di scene e capitoli brevi e serrati, il nudo spazio esistenziale dei personaggi e i loro movimenti tra una provincia di formazione e la metropoli dove colpire al cuore. Quasi come se le azioni atemporali avessero perso il loro contesto, e tutta la mitologia anche dei luoghi simbolo, mai interamente nominati o connotati, che ormai sono un pezzo lacerato della nostra storia.

È UN’OPERAZIONE letteraria, soprattutto di sguardo e di punti di vista, coraggiosa nel trattare una materia ancora incandescente, nel passare dalla prima al tu della seconda persona, e nel fare economia di mezzi nei dialoghi dando maggiormente spazio alle descrizioni degli interni cupi e al pericolo degli spazi aperti.

Questo per creare un clima di isolamento e concentrare l’attenzione solo sulle singole azioni dei personaggi, un po’ come avviene nel film La prima linea di Renato De Maria, tratto dal libro Miccia corta di Sergio Segio, e rivelare il mondo chiuso, soprattutto mentale, di chi ha fatto la scelta della lotta armata, e vive da clandestino fuori dal mondo e dalle sue relazioni.

Quindi più che l’interesse storico, il motivo politico di imbracciare le armi, che ha riguardato in Italia migliaia di militanti politici – una pagina di storia nazionale ancora tutta da raccontare, narrata solo dai vincitori e anche un tabù – Garbuglia racconta senza mai spiegare, s’affida ai fatti, alle cose, e si concentra sulla vita quotidiana del gruppo di fuoco, composto da un giovane della provincia italiana, marchigiana, nome di battaglia Orlando come il nonno contadino, e dai suoi compagni Rosso e Anita, tratteggiati a volte con ingenuità, in tutta la sua oggettività e banalità del male, come se l’unico imperativo vitale fosse la «pura azione».

SPOGLIATI DI OGNI EROISMO, o comunque enfasi e partecipazione emotiva, soprattutto nei dispositivi azzerati della fiction, raccontati nell’oggettività attraverso una lingua prestabilitamente ridotta all’essenziale della sua funzionalità, i personaggi incolori di Garbuglia, umani e troppo umani, fanno il bucato, preparano la moka, mentre al ciclostile riproducono i comunicati di rivendicazione degli attentati, tra cui quello che apre il romanzo a un giornalista della stampa borghese, e con lucida disciplina studiano cartine per organizzare nuovi agguati. Le loro sono solo relazioni funzionali, non entrano mai in empatia, condividono da estranei, stanze e servizi, come armi e automobili per le azioni di fuoco.

DAI POCHI RIFERIMENTI storici appena accennati nel libro, come la condanna a morte di Roberto Peci, l’omicidio di Guido Rossa («come potevano i paladini della rivoluzione operaia colpire proprio un operaio»?), il punto più basso della storia brigatista, siamo all’inizio degli anni ’80 e in quelli del declino e degli arresti dei capi storici come Mario Moretti.

Dopo una telefonata fatta alla madre da una cabina telefonica, Orlando ha i primi cedimenti, è come se improvvisamente prendesse coscienza di aver sparato a un uomo invece che a un obiettivo, adesso «le cose erano le cose, non contavano più le idee», pensa smarrito. L’ultima azione non va come dovrebbe, finisce male, allora entra in un vortice di paura, «possibile che le sue idee lo avessero portato dove non sarebbe mai voluto arrivare?». Ma è troppo tardi, non può tornare indietro, come Dario, il suo compagno arrestato che alla fine si arrende alle torture, e da vittima finisce per essere considerato un traditore.

La seconda parte del libro accelera, il ritmo è quello di un romanzo di azione che culmina in un finale doloroso, come è avvenuto molte volte in quelle guerre lontane. Garbuglia in questo romanzo dal conio inconfondibile usa lo stile severo e algido di una condotta rigorosa, per compiere un’operazione di disvelamento, gli serve per mettere a nudo implacabilmente le giovani vite disperate dei suoi personaggi, drammaticamente sospese tra la ribellione rivoluzionaria per un mondo nuovo e liberato, e la cieca scorciatoia delle armi.

* Fonte: Angelo Ferracuti, il manifesto

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