El Salvador. Addio a Rutilio Sanchez, prete guerrigliero

Scomparso sabato a 77 anni, aveva esercitato il sacerdozio fra i combattenti salvadoregni del Fronte di liberazione nazionale. Sempre attento ai diritti umani, era stato direttore della Caritas

Per le comunità cristiane di base salvadoregne, la scomparsa sabato scorso, all’età di 77 anni, del sacerdote ed ex guerrigliero Rutilio Sánchez è stata un colpo durissimo. Vero “prete fatto popolo”, al cui servizio si è svolta la sua intera, avventurosa traiettoria di vita, Tilo, come lo chiamavano tutti, scelse durante la guerra di esercitare il ministero sacerdotale al fronte, in un’area controllata del Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale, pienamente convinto che «la giustizia e la fedeltà» fossero lì dove si trovavano «i combattenti del Fmln».

«Vado a cercare la pecora ferita che si è persa sulla montagna», scrisse all’allora arcivescovo Arturo Rivera y Damas comunicandogli la sua decisione: «Intendo solo prendere la croce e seguire Gesù nei burroni, sulle colline, nelle trincee dove si vivono le beatitudini alla lettera e in spirito, creando le basi del Regno di Dio, un mondo in cui ci sia pane per tutti».

Da lì, meno di un anno dopo, avrebbe scritto sul suo diario: «La vita qui è in grande: grande tristezza, grande gioia, grandi invasioni militari e grande fame. Ma siamo accompagnati da grandi eroi che difendono le nostre comunità».

L’esperienza al fronte era stata per Tilo, però, solo una logica conseguenza del suo impegno rivoluzionario. Punto di riferimento imprescindibile e amatissimo dell’organizzazione contadina – che aveva accompagnato fin dai suoi primi passi – era stato, secondo le sue stesse parole, «dirigente non ufficiale» delle Forze popolari di liberazione – poi confluite nel Fmln -, già al momento della loro fondazione. «Un giuramento – aveva poi raccontato – a me non lo chiesero mai, perché ero stato chiaro nel dire che mi sentivo, al tempo stesso, un rivoluzionario e un sacerdote».

E, a sorpresa, era stato proprio a quel prete considerato sovversivo, sfuggito a innumerevoli attentati, che l’arcivescovo Oscar Romero aveva chiesto di assumere la direzione della Caritas. Un incarico che aveva subito attirato a Tilo l’accusa di politicizzare l’organismo e addirittura di consegnarlo alla guerriglia. «I poveretti a cui diamo un bicchiere di latte e un sacchetto di farina li stiamo in fondo diseducando. Con questi contadini organizzati avviene il contrario. La loro lotta educa tutti noi, anche lei!», spiegava a mons. Romero, con il quale aveva un rapporto non privo di tensioni ma sicuramente profondo e fecondo.

Alla guida dell’organismo era rimasto fino a circa una settimana prima dell’assassinio dell’arcivescovo (24 marzo 1980), quando, accusato di inviare cibo ai gruppi guerriglieri, aveva ricevuto da lui la richiesta di cedere la direzione. «Parleremo dopo», gli aveva assicurato Romero. «Il venerdì un amico giornalista mi scattò l’ultima fotografia insieme a lui. La conservo ancora. Tre giorni dopo venne assassinato. Non fu più possibile parlarne».

Ci avevano provato a lungo e in tanti modi a uccidere anche lui, fin dal suo primo incarico a Suchitoto, dove era arrivato nel ’69. Nel 1976 avevano collocato un esplosivo nella sua macchina, ma non erano riusciti a farla saltare. E nello stesso anno individui armati avevano sparato contro il suo veicolo, senza però colpirlo. Nel ’77 un contingente di membri della Guardia Nazionale e di paramilitari di Orden aveva circondato la chiesa e la casa parrocchiale di San Martín allo scopo di catturarlo. Qualcuno tuttavia aveva fatto suonare le campane, richiamando gente in parrocchia. Ed era stato questo a salvargli la vita. Sempre nel ’77 agenti della polizia nazionale avevano catturato un uomo che stava parcheggiando la sua macchina, credendo che fosse lui. Lo avevano trattenuto tre giorni e, dopo averlo torturato, gli avevano fatto firmare accuse false contro il «prete comunista».

«Alcuni amici non volevano che li andassi a trovare perché temevano che, per uccidere me, avrebbero eliminato anche loro e la loro famiglia», avrebbe confidato in seguito.

Rutilio Sánchez era rimasto a San Martín fino all’aprile del 1980, quando la persecuzione nei suoi confronti era diventata insostenibile. Era stato quindi mandato in Europa, come rappresentante all’estero del Fronte Democratico Rivoluzionario, ma poi, nell’81, era tornato in El Salvador e preso la via della montagna.

«Sono stato un prete guerrigliero», ha raccontato: «Quando arrivai, si era deciso che non avrei usato armi. E mi erano state assegnate da tre a cinque persone perché mi proteggessero. Cominciai a chiedermi se era meglio che cinque morissero per salvare il prete o il prete morisse per difendere quei cinque. La scelta fu facile. È così che presi il fucile. Non fui mai un combattente di prima linea, ma quando arrivavano le jeep dei soldati e bisognava sparare, io sparavo. Sparavo lontano, alla cieca, contro le jeep. Non so se abbia ucciso qualcuno. Ma non sento il peso sulla coscienza, perché i soldati avrebbero assassinato anche gli anziani e i bambini».

Dopo gli accordi di pace del 1992, quando la fine delle «grandi invasioni militari» aveva lasciato immutata la «grande fame» – e non c’era più un arcivescovo capace di prendere su di sé il dolore della sua gente, di denunciarlo ai responsabili e di convertirlo in speranza – Tilo aveva deciso di non assumere alcun incarico politico, optando per accompagnare il suo popolo nel cammino della ricostruzione.

È il lavoro che in tutti questi anni ha svolto il Sercoba, Equipo de Servicio para Comunidades de Base, da lui fondato nel 1992 con l’appoggio di una missionaria laica italiana, Mariella Tapella, per promuovere lo sviluppo integrale delle comunità attraverso diversi progetti di autogestione. «Il nostro compito – spiegava – è quello di educare, perché la conoscenza è veicolo di libertà; di coscientizzare, perché avere coscienza significa rompere l’isolamento, superare l’individualismo e iniziare un cammino solidale comunitario; di organizzare la base».

Senza però mai rinunciare all’impegno politico in difesa dei diritti umani, contro quei «progetti di morte» – dalla costruzione di grandi dighe allo sfruttamento dei giacimenti minerari, dalla deforestazione all’uso dei pesticidi – che per Tilo impedivano «di fare della creazione qualcosa di nuovo».

* Fonte: Gianni Beretta, Claudia Fanti, il manifesto

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