11 settembre del 1973. Cile, storie di desaparecidos

Il post 11/9 del Cile. Nel maggio 1976 Jaime Donato, figura di spicco del Partito comunista, sparisce. A rapirlo, torturarlo e infine ucciderlo è la polizia segreta di Pinochet. Intervista al figlio che porta il suo nome

L’11 settembre del 1973 Santiago del Cile era in guerra: gli aerei militari bombardavano la Moneda, il palazzo governativo, e i carri armati invadevano le strade. Erano gli anni del Cile socialista guidato dal presidente Salvador Allende e quella mattina la Marina si era sollevata nella città di Valparaíso dando inizio al golpe guidato dal generale Augusto Pinochet. Allende sarebbe morto ore dopo e chi gli era vicino sarebbe stato sterminato. Erano iniziati gli anni bui della ferocissima dittatura militare di Pinochet. Chiunque si opponesse alla dittatura veniva sequestrato, torturato e fatto sparire. Molti desaparecidos erano cittadini italiani, fra cui Jaime Donato, membro del Partito comunista sequestrato nel 1976, oggi è una delle vittime del Processo Condor. Conclusosi lo scorso luglio a Roma, il maxi-processo ha riguardato le vittime italiane delle dittature sudamericane degli anni ’70, e con una sentenza storica tutti gli imputati sono stati condannati all’ergastolo, compresi quelli ritenuti responsabili della scomparsa di Donato.

Quando è stato sequestrato ha lasciato sua moglie e cinque figli: il più piccolo portava il suo stesso nome e aveva due anni. Oggi quel bambino è diventato un uomo adulto, ha la pelle olivastra, capelli corti, indossa occhiali da vista. Comincia l’intervista e parla con un tono serio e profondo. “Mi chiamo Jaime Donato e ho 41 anni”. Si interrompe subito e spiega: “Mi sono sbagliato. Io ho 47 anni, 41 era l’età che aveva mio padre quando è scomparso”.

Cosa è successo a tuo padre?

Lavorava come meccanico nel settore elettrico e ricopriva posizioni di rilievo nei sindacati dei lavoratori, prima come presidente della federazioni dei lavoratori dell’elettronica e poi come direttore del CUT (Centro unito dei lavoratori). È sempre stato un membro del Partito comunista cileno e nel 1976 faceva parte del comitato centrale. Nel maggio di quell’anno la polizia segreta di Pinochet, la Dina, ha condotto un’operazione diventata tristemente nota per la sua ferocia e conosciuta come la “ratonera de calle Conferencia – la trappola per topi di via Conferencia”. Durante quest’operazione gli agenti hanno sequestrato e fatto sparire 6 persone, fra cui mio padre. Si sono infiltrati in una casa dove sapevano che si sarebbe tenuta una riunione del Partito comunista. In quegli anni la repressione era diretta soprattutto verso chi faceva parte del Partito e quello a cui apparteneva mio padre è stato il primo comitato centrale a scomparire. Nei giorni precedenti gli agenti hanno finto di essere elettricisti e spazzini e hanno sequestrato e torturato i proprietari dell’immobile fino a quando hanno rivelato la data dell’incontro. Il 4 maggio sono iniziati ad arrivare i membri del comitato: sparivano uno ad uno, mano a mano che entravano in casa. Il 5 maggio, alle 10 del mattino, è toccato a mio padre. Questo è tutto quello che sappiamo sulla sua morte, fino ad oggi non sappiamo ancora nulla di certo. Ci sono molte versioni su come lo hanno ucciso: l’ultima che ci è stata riferita è che lo hanno fatto sparire in mare.

Che cosa è successo alla tua famiglia dopo che tuo padre è scomparso?
La sparizione di mio padre non è stata la fine ma l’inizio della sofferenza. Mia madre è rimasta sola con 5 figli. Ho 47 anni e solamente in due opportunità mi sono potuto riunire con tutti i miei fratelli nello stesso luogo. I miei fratelli maggiori, all’epoca ragazzi di 15 e 14 anni, sono dovuti andare in esilio nell’ex Unione Sovietica. Erano costantemente ricercati dalla Dina e mia madre li ha fatti andare via temendo che gli sarebbe toccata la stessa sorte di mio padre.

Cosa significava essere parte di una famiglia comunista?
Quando i miei fratelli erano ricercati gli agenti mi aspettavano fuori dalla scuola elementare per chiedermi dove si nascondessero. Un giorno, avevo otto anni, mi hanno fatto salire sopra un auto e hanno iniziato a interrogarmi. Ricordo che mi hanno dato uno schiaffo molto forte sul viso mentre ridevano e minacciavano di uccidermi. Ricordo le loro parole, fra le risate: “Questo idiota non serve a nulla, uccidilo”. Non so per quanto tempo sia rimasto in quell’auto. So solo che a un certo punto mi hanno buttato per strada. Sono arrivato a casa, ma non ricordo come. Ho abbracciato mia madre e ho pianto fra le sue braccia.

In Cile c’è ancora uno stigma sui desaparecidos e i loro familiari?
Sì, senza dubbio. È uno stigma che la dittatura ha voluto imprimere nel popolo cileno. Quando accompagnavo mia madre a bussare a centinaia di porte per sapere dove fosse mio padre, le rispondevano sempre: “Tuo marito ti ha abbandonato, ci sono prove che abbia lasciato il Paese. I desaparecidos non esistono, sono una menzogna. In Cile non si tortura”. E questo veniva ripetuto ogni giorno: dai giornali, dai politici, dagli agenti. Si è fatta passare l’idea che i desaparecidos non esistessero: erano un’invenzione dei comunisti per macchiare la reputazione del governo. E quello stigma ancora oggi esiste, non è mai stato eliminato. Ho un collega di destra che mi dice sempre che in Cile ci sono ancora comunisti da uccidere e che il suo generale Pinochet purtroppo ha lasciato il lavoro incompiuto.

Che cosa ha significato per te essere figlio di un desaparecido?

La verità è che io non ricordo il suo volto, non so che tono avesse la sua voce, non so come camminasse, come vivesse. Mi hanno tolto da piccolo l’opportunità di avere un padre. Mi hanno tolto il diritto di crescere come un bambino normale all’interno della società. Abbiamo bussato a centinaia di porte cercando la verità per capire cosa fosse successo a mio padre. Dove è stato portato? Cosa gli è stato fatto? E soprattutto: perché? Perché privarlo della sua vita, della sua famiglia e dei suoi figli? Cosa ha fatto di così sbagliato per meritare di essere torturato e ucciso? Solamente perché era comunista? La verità è che me lo chiederò eternamente e non troverò mai una risposta. Io so dire “papà”, ma non ho idea di cosa significhi. Non lo sento, non so cosa voglia dire avere un padre. Era un mio diritto saperlo, ma mi è stato tolto dalla dittatura di Augusto Pinochet per il solo fatto che mio padre fosse un comunista.

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

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