Golpismo e dittature

Ai tanti crimini commessi da Pinochet in Cile va aggiunto l’assassinio di Neruda, affidato a un agente della Cia. Le analisi sui resti del poeta comunista confermano la tesi dell’avvelenamento. C’erano stati sempre dubbi sulla morte, avvenuta ufficialmente per il cancro nella stessa clinica dove poi sarebbe stato assassinato il democristiano Eduardo Frei Montalva

 

Tra gli innumerevoli crimini di cui si è macchiato Augusto Pinochet, dittatore macellaio e oltretutto ladro (considerando il patrimonio illecitamente accumulato da lui e dai suoi familiari), va ora inserito anche l’avvelenamento del grande Pablo Neruda. Di colui, cioè, che era stato insignito nel 1971 del premio Nobel per la letteratura e che Gabriel García Márquez avrebbe definito «il più grande poeta del XX secolo, in qualsiasi lingua».

I SOSPETTI DELLA FAMIGLIA – e certo non solo di quella – erano dunque fondati: le ulteriori analisi effettuate da un pool internazionale di esperti sui resti del poeta cileno hanno confermato la presenza di una tossina, già individuata per la prima volta nel 2017, che ne avrebbe causato la morte il 23 settembre del 1973. «Adesso sappiamo che il clostridium botulinum non avrebbe dovuto essere presente nelle ossa di Neruda e che è stato assassinato da agenti dello Stato cileno», ha detto il nipote del poeta, Rodolfo Reyes, anticipando i risultati ufficiali dell’inchiesta.

C’erano stati peraltro sempre dei dubbi sulla sua morte, avvenuta all’età di 69 anni, ufficialmente per il cancro alla prostata, nella clinica Santa María di Santiago, dove Neruda era stato portato il 19 settembre: la stessa clinica nella quale, il 22 gennaio 1982, sarebbe stato assassinato il democristiano Eduardo Frei Montalva.

SECONDO TESTIMONIANZE dell’epoca, Neruda non era infatti in fin di vita al momento del ricovero, nonostante fosse gravemente malato: sarebbe stato un sicario di Pinochet, un agente segreto della Cia di nome Michael Townley, ad accelerarne la morte con «un’iniezione letale».

Come riferito dalla moglie Matilde Urrutia, l’ultimo suo grande amore, Neruda stesso aveva telefonato dall’ospedale profondamente preoccupato, perché, «mentre dormiva, nella sua camera della clinica alcune persone erano entrate e gli avevano iniettato qualcosa nell’addome». Quando l’autista Manuel Araya e la moglie erano arrivati a Santiago, avevano trovato il poeta, prima indebolito ma in discrete condizioni, con un’improvvisa febbre e segni di arrossamento dove gli era stata praticata l’iniezione. A fargliela era stato un certo dottor Price, il cui identikit coincideva con l’aspetto fisico di Michael Townley.

TANTA ERA LA FRETTA di soffocare la sua voce libera e ribelle che il regime non aveva neppure avuto la pazienza di aspettare che morisse per cause naturali. Né aveva evitato un ultimo sfregio: la devastazione delle sue abitazioni a Valparaíso e a Santiago, mentre Neruda giaceva nel suo letto d’ospedale.

Quanto ad Araya, sarebbe poi stato arrestato e torturato per dieci giorni nel campo di concentramento dell’Estadio Nacional.

Era stato del resto proprio per chiarire il mistero sulla sua morte che la salma di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto – questo il vero nome di Neruda – era stata riesumata dopo 40 anni dalla morte, l’8 aprile 2013, benché all’epoca l’ipotesi dell’assassinio fosse stata smentita dal referto sugli esami radiologici e istologici effettuati sui suoi resti, nei quali era emerso, come già era noto, appena lo stato molto avanzato del suo tumore alla prostata. Ci sarebbero voluti altri dieci anni per fare finalmente chiarezza.

Solo 12 giorni prima di morire, Neruda aveva dovuto assistere al colpo di stato di Pinochet contro Salvador Allende, suo amico personale: nel 1970, quando il Partito comunista lo aveva nominato candidato alla presidenza del Cile, il poeta non aveva esitato a rassegnare le dimissioni per garantirgli il suo appoggio, aiutandolo a diventare il primo presidente socialista democraticamente eletto nel paese. E Allende lo aveva ripagato nominandolo ambasciatore presso la sede di Parigi, da cui poi il poeta era dovuto andar via a causa del tumore alla prostata.

La sua era stata del resto una vita da instancabile viaggiatore: era stato, tra l’altro, console a Colombo, nell’attuale Sri Lanka, e poi a Singapore, finché nel 1934, dopo aver conosciuto Federico García Lorca a Buenos Aires, non si era trasferito in Spagna, assumendo la direzione del consolato cileno a Madrid. È qui, in particolare, che aveva abbracciato con convinzione gli ideali marxisti, tanto più dopo la barbara uccisione, da parte delle forze del generale Franco, del suo amico García Lorca.

LASCIATA LA PENISOLA IBERICA, Neruda si era recato a Parigi, da dove aveva continuato a sostenere con convinzione il fronte repubblicano. Quelle convinzioni comuniste non le avrebbe comunque mai perse, neppure dopo aver fatto autocritica rispetto alla sua iniziale ammirazione per la figura di Stalin.

Tornato in Cile ed eletto senatore per le province di Tarapacá e Antofagasta, il poeta si era ben presto messo nei guai: il suo discorso pronunciato il 13 gennaio del 1948 contro il dittatore Gabriel González Videla, a causa della violenta repressione dei minatori in sciopero nella regione di Bío-Bío – discorso passato alla storia come «Yo acuso» – gli era costato un dolorosissimo esilio durato fino al 1952.

La sua vita tumultuosa e appassionata non ha avuto l’epilogo che meritava. Già in quei pochi giorni dopo il golpe, il poeta ne aveva cominciato a sperimentare le conseguenze anche sulla sua pelle: durante una delle perquisizioni ordinate contro di lui dal generale traditore e golpista Pinochet, Neruda avrebbe detto ai militari: «Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia».

MA SE GLI ULTIMI GIORNI della sua vita erano stati segnati dal dolore per la violenta fine della grande esperienza democratica del presidente Salvador Allende, il suo funerale avrebbe però rappresentato una delle prime espressioni di opposizione alla dittatura, malgrado la presenza ostile e intimidatoria dei militari con il mitra spianato sui partecipanti: per quanto molti di loro avessero inneggiato ad Allende, i soldati non avevano osato intervenire. Non in quel momento, perlomeno, perché più tardi diversi tra i presenti sarebbero finiti in carcere o desaparecidos.

A ricordare la morte e le esequie di Pablo Neruda, definito semplicemente «il Poeta», è stata anche Isabel Allende, allora presente alla cerimonia, nel romanzo La casa degli spiriti.

* Fonte/autore: il manifesto

 

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ARGENTINA IN LUTTO. Una vita in lotta per ritrovare i figli fatti sparire dal regime e per avere giustizia. Aveva 93 anni

 

Non voleva essere ricordata come una «mujer maravilla», ma Hebe de Bonafini, scomparsa alle 9.20 di domenica all’età di 93 anni, di sicuro non è stata una donna comune. Nelle sue ultime volontà aveva chiesto che si pensasse a lei come una madre di 30mila figli scomparsi che non aveva mai smesso di lottare. E che non si piangesse la sua morte, ma si ballasse, si cantasse e si facesse festa a Plaza di Mayo, nel luogo che, dietro sua richiesta, ne accoglierà le ceneri. «Perché – ha lasciato scritto – ho fatto quello che ho voluto, ho detto quello che ho voluto e ho litigato per quello che ho voluto».

MA SE IL GOVERNO ha decretato tre giorni di lutto, la festa che desiderava, come hanno annunciato le Madres de Plaza de Mayo, Hebe l’avrà giovedì, nella “sua” e loro piazza, là dove Kika, come la chiamavano gli amici, è diventata Hebe, un simbolo della resistenza alla dittatura, il dolore trasformato in lotta, un grido che ha saputo rompere il silenzio della maggioranza.

Non era lì il 30 aprile del 1977, quando, per la prima volta, 14 madri di ragazze e ragazzi sequestrati dai corpi di sicurezza della dittatura avevano protestato con il fazzoletto bianco sulla testa davanti alla Casa Rosada.
Ma si sarebbe unita a loro pochi giorni dopo, dedicando tutta se stessa prima alla ricerca dei suoi figli e poi anche a quella di tutti i figli e le figlie desaparecidos, in una rivendicazione di maternità collettiva.

DA ALLORA, OGNI GIOVEDÌ, per i successivi 45 anni, lei e le altre madri avrebbero continuato a percorrere quella piazza, fermandosi solo durante la pandemia (ma anche allora proseguendo in modalità virtuale).
Hebe, nata in un quartiere popolare di Ensenada, aveva sposato Humberto Bonafini, operaio come suo padre, e poco tempo dopo aveva partorito Jorge, nel 1950, e, tre anni dopo, Raúl. Ma la sua vita felicemente ordinaria si era interrotta bruscamente l’8 febbraio del 1977, quando Raúl l’aveva chiamata per darle la notizia: si erano portati via Jorge.

Poi, il 6 dicembre, era stato il turno di Raúl, due giorni prima che due delle Madri venissero sequestrate nella chiesa di Santa Cruz. Nel 1978 lo stesso destino avrebbe colpito anche sua nuora, la compagna di Jorge.

Nel 1979 Hebe era stata eletta presidente delle Madres, che poi, dopo il ritorno della democrazia, si sarebbero divise in due gruppi: da una parte l’associazione da lei guidata, dall’altra la Línea Fundadora. Una rottura dovuta a divergenze di natura personale – la sua gestione era considerata da alcune troppo autoritaria e verticistica – e soprattutto politica, a causa del suo rifiuto, non condiviso da altre associazioni di difesa dei diritti umani, ad accettare le esumazioni dei corpi («Il rivoluzionario non muore mai») e i risarcimenti («Ci ripugna prendere i soldi dalle stesse mani che hanno concesso l’impunità agli assassini»).

La sua lotta non si sarebbe più fermata, prendendo a bersaglio le forze armate genocide, le complicità di medici, giudici, vescovi e sacerdoti con il terrorismo di stato, le leggi dell’impunità di Alfonsín, gli indulti di Menem, gli appelli alla riconciliazione senza giustizia, gli orrori neoliberisti.

ERA SCOMODA HEBE, sempre diretta, spesso estrema, a volte eccessiva. Molto lontana dal politicamente corretto, molte volte incline all’insulto. Con alcune delle persone che poi avrebbe amato aveva avuto inizi turbolenti: aveva attaccato Fidel Castro per aver salutato Alfonsín dopo le sue contestate leggi (e per questo lui non l’aveva ricevuta nel suo primo viaggio a Cuba), aveva diffidato di Chávez perché era un militare, aveva definito Néstor Kirchner, al suo arrivo alla presidenza, come «la stessa merda con un odore diverso», prima di stringere un’alleanza – da alcuni criticata come un troppo docile allineamento – con lui prima e con Cristina poi.

E AVEVA PARLATO DI BERGOGLIO, all’epoca arcivescovo di Buenos Aires, come «spazzatura che si opporrà sempre a chi, come Néstor Kirchner, vuole fare bene le cose», per poi cambiare idea di fronte alle parole e ai gesti di papa Francesco, che l’avrebbe ricevuta a Santa Marta nel 2016 e a cui avrebbe chiesto perdono («Bisogna scusarsi quando si sbaglia»).

* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto

 

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A quasi vent’anni dalla pubblicazione in lingua spagnola arriva la traduzione del libro redatto da alcuni degli ex carcerati sopravvissuti e riuniti nel Collettivo Periscopio. «La testimonianza dei prigionieri del Coronda è un contributo al riscatto della memoria collettiva che respira nascosta sotto l’amnesia imposta», scrisse Eduardo Galeano recensendo la prima edizione del volume

 

A quasi vent’anni dalla pubblicazione di Del otro lado de la mirilla («Dall’altro lato dello spioncino») è in via di distribuzione la sua versione in italiano ribattezzata Grand Hotel Coronda, racconti di prigionieri politici sotto la dittatura argentina (1974-1979). Un libro che, come scrive nell’introduzione don Luigi Ciotti, «costituisce un atto di grande generosità della memoria… che è una scelta, un cammino, un dono. Le narrazioni che contiene «mostrano un duro vissuto non solo per l’ingiustizia di una detenzione con torture fisiche e psicologiche, ma anche per il sentimento di una sospensione della propria vita», aggiunge il presidente dell’Associazione Libera.

Al testo di don Ciotti si somma la prefazione del Nobel per la Pace argentino Adolfo Perez Esquivel e un commento del brasiliano Leonardo Boff, fra i padri della Teologia della Liberazione latinoamericana, che parla di «imprescindibile testo». Molto più che un semplice «libro storico».

«PIÙ CHE UN PROGETTO editoriale, abbiamo concepito Grand Hotel Coronda come una proposta di educazione e sensibilizzazione in particolare delle nuove generazioni per affrontare le sfide globali e rinforzare la solidarietà fra i popoli», sottolinea il ricercatore italiano Enrico Vagnoni (ex cooperante in Argentina) coordinatore dell’équipe che ha reso possibile l’uscita in Italia del volume, edito da Albatros (euro 17,50).

Alcuni degli ex carcerati sopravvissuti e autori del libro, riuniti nel Collettivo Periscopio, sono ora impegnati in un lungo tour nel nostro Paese: Grand Hotel Coronda sarà presentato in sedi comunali, centri culturali e sindacali di Parma, Bologna, Pavia, Livorno, Firenze, in Sardegna, oltre che (il 4 ottobre) alla Casa Argentina di Roma.

«SIAMO CONVINTI che la memoria sia la componente centrale dell’identità di un popolo; non è possibile costruire una società democratica sulla base dell’oblio, del negazionismo e dell’impunità», spiega il presidente del collettivo, Augusto Saro.
Ed è proprio l’esperienza del Periscopio, iniziata con il testo di un libro, ad essersi trasformata in denuncia e attore giuridico che ha portato (pur tardivamente, nel 2018) alla «riparatoria» condanna a 22 e 17 anni per crimini contro l’umanità dei due comandanti della Gendarmería Nacional argentina che erano a capo del Coronda. Un pezzo di giustizia è stata così fatta per gli infiniti crimini di una dittatura civile e militare che voleva eliminare ogni forma di opposizione: con centinaia di morti, trentamila desaparecidos, diecimila detenuti politici e migliaia di esiliati.

«La testimonianza dei prigionieri del Coronda è un contributo al riscatto della memoria collettiva che respira nascosta sotto l’amnesia imposta», così l’illustre collaboratore uruguayano del manifesto, Eduardo Galeano, oggi scomparso, ebbe modo di recensire a suo tempo la versione originale in castigliano del libro, intitolata, come detto, Del otro lado de la mirilla.

* Fonte/autore: Gianni Beretta, Sergio Ferrar, il manifesto

Cile. Lucía Hiriart partecipò attivamente alla dittatura: spinse il marito a realizzare il golpe contro Allende e lo aiutò a sottrarre nove miliardi di dollari allo Stato. E ora in Plaza Italia si festeggia

SANTIAGO DEL CILE. È morta Lucía Hiriart, la primera dama della dittatura cilena. Vedova del generale Augusto Pinochet, si è spenta a 99 anni il 16 dicembre, proprio a poche ore dalla chiusura della campagna elettorale più importante dalla fine del regime e in cui si sfidano José Antonio Kast, candidato dell’ultradestra e profondo ammiratore di Pinochet, e il socialdemocratico Gabriel Boric.

Hiriart ha avuto un ruolo chiave nelle politiche del marito, soprattutto rispetto ai rapporti diplomatici arrivando, nel 1982, a essere ricevuta dalla first lady Nancy Reagan alla Casa bianca.

A spiegare l’importanza avuta dalla moglie era stato lo stesso Pinochet: aveva detto che Hiriart era stata una delle persone che più avevano influito nella sua decisione di portare avanti il colpo di Stato contro Salvador Allende. È molto nota inoltre la vicinanza della donna a Manuel Contreras, braccio destro di Pinochet e capo della Dina, la sanguinaria polizia segreta che dava la caccia agli oppositori del regime.

Non solo, la vedova del generale ha avuto un ruolo chiave in uno dei crimini della dittatura: la frode con cui Pinochet ha rubato una cifra milionaria – quasi nove milioni di dollari secondo le indagini – allo Stato cileno, venendo perfino arrestata nel 2005 (per un solo giorno, in prigione preventiva).
Il regime, che è rimasto saldamente al potere dal 1973 al 1990, è noto soprattutto per le atroci violazioni dei diritti umani.

Per reprimere gli oppositori ha creato una rete di centri clandestini sparsi per tutto il Paese in cui migliaia di cittadini sono stati sequestrati, torturati e fatti sparire. Nella maggioranza dei casi, questi crimini sono rimasti impuniti.

Appena la notizia del decesso di Hiriart è stata resa pubblica, a Santiago migliaia di persone si sono radunate in Plaza Italia, epicentro delle proteste sociali che dall’ottobre del 2019 scuotono il Cile, per festeggiare la morte di uno degli ultimi simboli della dittatura. Al coro di «Chi non salta è Pinochet» e con l’apertura di bottiglie di champagne, il raduno è andato avanti fino a sera.

Al centro della piazza è comparso un murales con il simbolo delle organizzazioni che lottano per ottenere giustizia per i desaparecidos, la sagoma di un uomo e una donna con la scritta «Dónde están?» ( Dove sono?) e a terra le foto di decine di oppositori scomparsi durante il regime.

Circondati da cartelli che recitavano «Con migliaia di persone morte e scomparse, la vecchia è morta a 99 anni nella totale impunità» e «Nessun male può durare 100 anni», Plaza Italia ha celebrato cantando Bella Ciao e sventolando decine di bandiere mapuche, il popolo originario di Cile e Argentina che sta lottando per riottenere le terre ancestrali sottratte dallo Stato.

Così ieri la piazza al centro di Santiago ha festeggiato come avrebbe fatto Luis Sepulveda, scrittore, guerrigliero e vittima della dittatura cilena, che durante un’intervista a Gianni Minà aveva detto: «Ogni volta che vedo uno degli aguzzini del regime cileno che muore io brindo a champagne».

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

 

ph by Biblioteca del Congreso Nacional, CC BY 3.0 CL <https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/cl/deed.en>, via Wikimedia Commons

La giustizia italiana ha rilasciato Doring Falkenberg Reinhard, un cittadino tedesco-cileno accusato di essere stato un torturatore del regime di Pinochet. Falkenberg, uno dei 10 cileni ricercati dall’Interpol più pericolosi al mondo, era stato arrestato il 22 settembre scorso a Forte dei Marmi, mentre si trovava in vacanza.

L’uomo, che oggi ha 75 anni, è accusato di crimini di lesa umanità ed era scappato dal Cile nel 2005 quando si era aperto un processo per il sequestro e la sparizione di Elizabeth Rekas, Antonio Ormaechea e del cittadino italocileno Juan Maino. Il 19 novembre – secondo i legali della famiglia Maino – è stata depositata negli uffici di competenza del Ministero della Giustizia italiana la richiesta di estradizione per Falkenberg da parte del governo cileno. La Corte d’Appello di Firenze il 18 novembre ha deciso però di revocare la custodia in carcere dell’uomo per motivi di salute e perché non risultava ancora essere pervenuta la richiesta di estradizione.

Falkenberg era uno degli imputati del processo per la scomparsa di Maino, Rekas e Ormaeche perché è stato uno dei leader di Colonia Dignidad, uno dei luoghi più oscuri della storia recente cilena: creata da un gruppo di nazisti scappati dalla Germania alla fine della guerra, Colonia Dignidad è stata una vera e propria setta che si è macchiata dei più atroci delitti, dall’assassinio all’abuso sistematico di minori.

Durante la dittatura di Pinochet la Colonia è stata adibita a centro clandestino di tortura per gli oppositori politici del regime. Maino, Rekas e Ormaeche, studenti e militanti, sono stati sequestrati il 26 maggio del 1976 e dopo essere stati condotti a Villa Grimaldi, centro di tortura a Santiago, sono stati portati a Colonia Dignidad, per poi scomparire. Grazie alla confessione di un colono fuggito dal Cile è stato possibile ritrovare l’auto di Juan che era stato sotterrata all’interno della Colonia.

Raggiunti telefonicamente dal manifesto i responsabili della Questura di Lucca hanno confermato che Falkenberg è stato rilasciato, come ordinato dalla Corte di appello di Firenze, il 18 novembre, e che si è regolarmente presentato in caserma tutti i giorni come previsto dal provvedimento fino al 22 novembre, giorno in cui scadevano i tempi che aveva a disposizione il governo cileno per presentare la richiesta di estradizione. Come dichiarato dai legali di Maino però la richiesta di estradizione è stata depositata negli uffici competenti della giustizia italiana il 19 novembre scorso.

I responsabili della Questura di Lucca hanno dichiarato che: “Come da provvedimento emanato dalla Corte d’Appello di Firenze Falkenberg si è presentato tutti i giorni in Questura fino al giorno 22 novembre, giorno in cui è stato rilasciato da cittadino libero e ha fatto ritorno a casa sua in Germania, domicilio di cui abbiamo l’indirizzo. La Corte d’Appello ha notificato di continuare la misura cautelare nei confronti di Falkenberg solo dopo la scadenza del provvedimento, quando Falkenberg non si trovava più nel territorio di Lucca”.

Falkenberg nel 2005, quando si è aperto il processo contro di lui in Cile è scappato in Germania, Paese di cui ha la nazionalità e da cui non può essere estradato. Il provvedimento della Corte d’appello di Firenze del 18 novembre scorso, con cui si revoca la custodia in carcere di Falkenber è stata emanata dai magistrati Paola Masi, Alberto Panu e Anna Favi. La Corte d’Appello di Firenze, contattata telefonicamente, non ha per il momento voluto rilasciare dichiarazioni, così come i funzionari dell’Ambasciata cilena in Italia.

Da Santiago del Cile Margarita Maino, sorella di Juan, dice: “Non ho parole per esprimere la rabbia e il dolore che provo. Mi sento impotente. Questa è una gravissima mancanza di rispetto verso le migliaia di persone che sono state torturate e fatte sparire dal regime di Pinochet. Falkenberg era l’unico che poteva dirci, finalmente dopo 45 anni, cosa è successo a mio fratello. Poteva raccontare cosa è successo a lui e a tutti gli altri desaparecidos di Colonia Dignidad. E questa era l’unica occasione che avevamo per riportarlo in Cile per processarlo”.

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

È stato arrestato a Forte dei Marmi Reinhard Doring Falkenberg, uno dei dieci cileni più pericolosi ricercati dall’Interpol. Accusato di essere stato un efferato torturatore negli anni della dittatura di Pinochet, era scappato in Germania nel 2005, poco prima che iniziasse il processo in cui era imputato per i crimini commessi e che vedeva al centro la scomparsa di un cittadino italiano: Juan Maino Canales.

Falkenberg, che oggi ha 75 anni, ha sia la cittadinanza cilena che quella tedesca e per questo si è potuto rifugiare nella città tedesca Gronau per oltre 15 anni. Si trovava in vacanza nel comune toscano di Forte dei Marmi quando, il 25 settembre scorso, è stato arrestato dalle forze dell’ordine italiane.

La notizia è stata diffusa ieri dal giornalista cileno Luis Narvaez. Ora Falkenberg si trova in carcere. L’arresto è stato comunicato dall’Interpol alla ministra della Corte de Apelaciones di Santiago, Paola Plaza, che dovrebbe inviare nei prossimi giorni una richiesta d’estradizione. Nel 2020 l’Italia ha estradato un altro torturatore della dittatura di Pinochet, Walter Klug Rivera, anche lui rifugiato in Germania. Detenuto mentre si trovava a Parma, Rivera ha tentato nuovamente la fuga lo scorso giugno ma è stato catturato a Buenos Aires e ora si trova in carcere in Cile.

LA STORIA CRIMINALE di Falkenberg è molto nota: era uno dei leader di Colonia Dignidad, tra i luoghi più oscuri e terrificanti della storia recente cilena. Fondata intorno agli anni ’60 da un gruppo di nazisti scappati dalla Germania, è stata sede di una vera e propria setta criminale che si è macchiata dei più atroci delitti, dall’assassinio all’abuso sistematico di minori. Durante gli anni della dittatura di Pinochet la Colonia è stata usata anche come centro clandestino di tortura e sterminio per gli oppositori politici.

Tra i cittadini scomparsi al suo interno anche Juan Maino Canales, vittima nel Processo Condor sui cittadini italiani spariti durante le dittature sudamericane, conclusosi lo scorso luglio a Roma con la condanna all’ergastolo per tutti gli imputati. Maino era un fotografo, studiava ingegneria meccanica ed era militante del Mapu, partito politico della sinistra cilena. Il 26 maggio 1976, a 27 anni, fu sequestrato dagli agenti della Dina insieme a due colleghi e amici, Antonio Ormaechea ed Elizabeth Rekas.

I tre sono stati sequestrati e torturati prima a Villa Grimaldi, centro di detenzione di Santiago, e poi a Colonia Dignidad, che si trova nell’area centrale del Paese. Da allora i tre sono desaparecidos e di loro non si è più saputo nulla.

«JUAN OGGI AVREBBE 73 anni: è scomparso quando ne aveva 27, durante i migliori anni della sua vita, quando stava iniziando a realizzare tutti i suoi sogni e obiettivi – ci racconta da Santiago del Cile Mariana, la sorella – Con la sua sparizione a me è venuto a mancare il mio socio, il mio complice, il mio grande amico. Un trauma del genere produce conseguenze molto profonde in una famiglia: dolori, solitudine e rabbia. Però abbiamo anche sempre sentito l’orgoglio del fatto che Juan avesse fatto parte della nostra famiglia».

Proprio per scappare dal processo sulla sparizione di Juan, Elizabeth e Antonio, nel 2005 Falkenberg si è rifugiato in Germania. Ma la famiglia Maino non ha mai smesso di chiedere giustizia, come spiega Mariana: «È un cammino che comincia e non finisce mai quello della ricerca. Perché è così importante continuare? Credo che noi lo faremo fino alla fine della nostra vita. Si è fatto scomparire qualcosa che in fondo non è scomparso. È fondamentale parlare sempre di ciò che i desaparecidos sono stati costretti a vivere, sono situazioni così dure che l’unico desiderio è che nessun’altra persona debba mai più viverle. Ciò che di più importante possiamo fare è far sì che i desaparecidos non scompaiano mai e per questo dobbiamo ottenere giustizia per loro».

Falkenberg è stato tra i fondatori e gli amministratori della setta di Colonia Dignidad. La giustizia cilena ha dimostrato che era uno dei pochissimi dirigenti della Colonia a essere in contatto diretto con gli agenti della Dina, la feroce polizia segreta di Pinochet. Molti i testimoni che lo accusano di sequestri e torture. Falkenberg avrebbe anche usato una ruspa per riesumare una fossa comune con i cadaveri dei prigionieri politici per poi farli sparire.

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

 

 

ph by Zazil-Ha Troncoso 2, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

 

L’11 settembre del 1973 Santiago del Cile era in guerra: gli aerei militari bombardavano la Moneda, il palazzo governativo, e i carri armati invadevano le strade. Erano gli anni del Cile socialista guidato dal presidente Salvador Allende e quella mattina la Marina si era sollevata nella città di Valparaíso dando inizio al golpe guidato dal generale Augusto Pinochet. Allende sarebbe morto ore dopo e chi gli era vicino sarebbe stato sterminato. Erano iniziati gli anni bui della ferocissima dittatura militare di Pinochet. Chiunque si opponesse alla dittatura veniva sequestrato, torturato e fatto sparire. Molti desaparecidos erano cittadini italiani, fra cui Jaime Donato, membro del Partito comunista sequestrato nel 1976, oggi è una delle vittime del Processo Condor. Conclusosi lo scorso luglio a Roma, il maxi-processo ha riguardato le vittime italiane delle dittature sudamericane degli anni ’70, e con una sentenza storica tutti gli imputati sono stati condannati all’ergastolo, compresi quelli ritenuti responsabili della scomparsa di Donato.

Quando è stato sequestrato ha lasciato sua moglie e cinque figli: il più piccolo portava il suo stesso nome e aveva due anni. Oggi quel bambino è diventato un uomo adulto, ha la pelle olivastra, capelli corti, indossa occhiali da vista. Comincia l’intervista e parla con un tono serio e profondo. “Mi chiamo Jaime Donato e ho 41 anni”. Si interrompe subito e spiega: “Mi sono sbagliato. Io ho 47 anni, 41 era l’età che aveva mio padre quando è scomparso”.

Cosa è successo a tuo padre?

Lavorava come meccanico nel settore elettrico e ricopriva posizioni di rilievo nei sindacati dei lavoratori, prima come presidente della federazioni dei lavoratori dell’elettronica e poi come direttore del CUT (Centro unito dei lavoratori). È sempre stato un membro del Partito comunista cileno e nel 1976 faceva parte del comitato centrale. Nel maggio di quell’anno la polizia segreta di Pinochet, la Dina, ha condotto un’operazione diventata tristemente nota per la sua ferocia e conosciuta come la “ratonera de calle Conferencia – la trappola per topi di via Conferencia”. Durante quest’operazione gli agenti hanno sequestrato e fatto sparire 6 persone, fra cui mio padre. Si sono infiltrati in una casa dove sapevano che si sarebbe tenuta una riunione del Partito comunista. In quegli anni la repressione era diretta soprattutto verso chi faceva parte del Partito e quello a cui apparteneva mio padre è stato il primo comitato centrale a scomparire. Nei giorni precedenti gli agenti hanno finto di essere elettricisti e spazzini e hanno sequestrato e torturato i proprietari dell’immobile fino a quando hanno rivelato la data dell’incontro. Il 4 maggio sono iniziati ad arrivare i membri del comitato: sparivano uno ad uno, mano a mano che entravano in casa. Il 5 maggio, alle 10 del mattino, è toccato a mio padre. Questo è tutto quello che sappiamo sulla sua morte, fino ad oggi non sappiamo ancora nulla di certo. Ci sono molte versioni su come lo hanno ucciso: l’ultima che ci è stata riferita è che lo hanno fatto sparire in mare.

Che cosa è successo alla tua famiglia dopo che tuo padre è scomparso?
La sparizione di mio padre non è stata la fine ma l’inizio della sofferenza. Mia madre è rimasta sola con 5 figli. Ho 47 anni e solamente in due opportunità mi sono potuto riunire con tutti i miei fratelli nello stesso luogo. I miei fratelli maggiori, all’epoca ragazzi di 15 e 14 anni, sono dovuti andare in esilio nell’ex Unione Sovietica. Erano costantemente ricercati dalla Dina e mia madre li ha fatti andare via temendo che gli sarebbe toccata la stessa sorte di mio padre.

Cosa significava essere parte di una famiglia comunista?
Quando i miei fratelli erano ricercati gli agenti mi aspettavano fuori dalla scuola elementare per chiedermi dove si nascondessero. Un giorno, avevo otto anni, mi hanno fatto salire sopra un auto e hanno iniziato a interrogarmi. Ricordo che mi hanno dato uno schiaffo molto forte sul viso mentre ridevano e minacciavano di uccidermi. Ricordo le loro parole, fra le risate: “Questo idiota non serve a nulla, uccidilo”. Non so per quanto tempo sia rimasto in quell’auto. So solo che a un certo punto mi hanno buttato per strada. Sono arrivato a casa, ma non ricordo come. Ho abbracciato mia madre e ho pianto fra le sue braccia.

In Cile c’è ancora uno stigma sui desaparecidos e i loro familiari?
Sì, senza dubbio. È uno stigma che la dittatura ha voluto imprimere nel popolo cileno. Quando accompagnavo mia madre a bussare a centinaia di porte per sapere dove fosse mio padre, le rispondevano sempre: “Tuo marito ti ha abbandonato, ci sono prove che abbia lasciato il Paese. I desaparecidos non esistono, sono una menzogna. In Cile non si tortura”. E questo veniva ripetuto ogni giorno: dai giornali, dai politici, dagli agenti. Si è fatta passare l’idea che i desaparecidos non esistessero: erano un’invenzione dei comunisti per macchiare la reputazione del governo. E quello stigma ancora oggi esiste, non è mai stato eliminato. Ho un collega di destra che mi dice sempre che in Cile ci sono ancora comunisti da uccidere e che il suo generale Pinochet purtroppo ha lasciato il lavoro incompiuto.

Che cosa ha significato per te essere figlio di un desaparecido?

La verità è che io non ricordo il suo volto, non so che tono avesse la sua voce, non so come camminasse, come vivesse. Mi hanno tolto da piccolo l’opportunità di avere un padre. Mi hanno tolto il diritto di crescere come un bambino normale all’interno della società. Abbiamo bussato a centinaia di porte cercando la verità per capire cosa fosse successo a mio padre. Dove è stato portato? Cosa gli è stato fatto? E soprattutto: perché? Perché privarlo della sua vita, della sua famiglia e dei suoi figli? Cosa ha fatto di così sbagliato per meritare di essere torturato e ucciso? Solamente perché era comunista? La verità è che me lo chiederò eternamente e non troverò mai una risposta. Io so dire “papà”, ma non ho idea di cosa significhi. Non lo sento, non so cosa voglia dire avere un padre. Era un mio diritto saperlo, ma mi è stato tolto dalla dittatura di Augusto Pinochet per il solo fatto che mio padre fosse un comunista.

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

Nel primo pomeriggio del 9 luglio a Roma i giudici della Corte di Cassazione hanno letto una sentenza storica: sono stati tutti condannati all’ergastolo gli imputati del maxi-processo Condor. Iniziato nel 2015, riguarda 43 cittadini italiani che sono state vittime delle sanguinose dittature sudamericane degli anni ’70.

SONO 14 IMPUTATI tra militari e gerarchi dei regimi militari cileni e uruguaiani che ora sono stati condannati all’ergastolo dalla giustizia italiana, fra cui spicca l’ex fuciliere della Marina uruguaiana Jorge Nestor Troccoli. Fuggito nel nostro Paese quando in Uruguay si è aperto un processo contro di lui, vive in Italia dal 2007 e ha la cittadinanza italiana. Sarebbe ricoverato da due giorni in ospedale, per cui non sarebbe possibile al momento arrestarlo.

È il primo importantissimo caso in cui un torturatore delle dittature sudamericane residente nel nostro Paese viene processato in Italia. Un precedente fondamentale per avviare nuovi processi contro altre persone, accusate di torture e omicidi avvenuti durante le dittature sudamericane degli anni ’70, che oggi vivono in Italia.

Come Carlos Luis Malatto, ex tenente argentino accusato del sequestro e della tortura di decine di militanti, che vive nel nostro Paese da oltre 10 anni e per il cui caso il 26 maggio del 2020 il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato a istruire un processo nei suoi confronti.

O come don Franco Reverberi, ex cappellano militare accusato di aver assistito alle torture di vari detenuti in un campo di sterminio argentino nella cittadina di San Rafael. Reverberi oggi celebra messa a Sorbolo, un piccolo comune in provincia di Parma e lo scorso aprile dall’Argentina è stata richiesta per la seconda volta l’estradizione nei suoi confronti.

IN AULA C’È STATA enorme commozione tra i familiari e gli avvocati che portano avanti il processo da oltre sette anni. Giancarlo Capaldo, l’ex pubblico ministero che ha dato il via alle indagini per iniziare il processo, ha dichiarato al manifesto: «La sentenza di oggi è un importantissimo traguardo per l’Italia, uno sforzo di civiltà giuridica che potrà essere un insegnamento per tutti gli altri Paesi. È una pagina storica per l’Italia. È stato un percorso lungo e difficile per arrivare alla sentenza pronunciata oggi, un cammino reso possibile dall’incredibile collaborazione umana che si è sviluppata tra i familiari, i sopravvissuti e gli avvocati».

È dello stesso parere Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari, che dice: «Questa sentenza è importantissima sia per l’Italia che per l’America latina perché si appura una colpevolezza per imputati che si sono macchiati di reati atroci e gravissimi che hanno condizionato la storia di un intero continente. Ora si deve valorizzare il senso di questa sentenza che ha un significato profondo che riguarda sicuramente la giustizia italiana, ma anche quella sovranazionale».

LA SENTENZA È ARRIVATA ieri a conclusione di due intensi giorni di discussione di fronte ai giudici della Corte di Cassazione nell’Aula Magna a Roma. Per molte ore giovedì si sono susseguite le discussioni degli avvocati dei familiari delle vittime, seguiti dagli avvocati difensori degli imputati.

L’ULTIMO A PARLARE è stato Francesco Guzzo, legale dell’ex fuciliere uruguaiano Jorge Nestor Troccoli, che ha definito l’imputato un «bersaglio». La presidente della Corte, Maria Stefania di Tommasi, ha preso la parola: «Gli unici bersagli sono state le vittime del processo che con le loro dichiarazioni hanno fatto piangere tutti noi, anche lei avvocato Guzzo, ne sono sicura».

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

Carlos Alberto Dosil era un militante, aveva 21 anni e si trovava nella sua casa a Montevideo. Era il 28 novembre del 1977 quando qualcuno ha bussato alla porta, Carlos ha aperto: ha sentito subito il freddo del metallo di un mitra che un uomo gli stava puntando alla gola. Lo stesso uomo lo ha spinto contro il muro e il giovane militante si è trovato faccia a faccia con lui. Era piuttosto giovane e corpulento, circa un metro e 75 di altezza.

Lo ha colpito soprattutto la voce bassa e roca con cui impartiva ordini secchi. I due uomini armati lo hanno malmenato, bendato e portato al Fusna, la base dei fucilieri navali nel porto di Montevideo, trasformata durante la dittatura in un campo clandestino di sterminio. Erano gli anni dei sanguinosi regimi latinoamericani e anche nel piccolo Stato dell’Uruguay erano diventati pratica comune i sequestri e le torture per chiunque si opponesse alla dittatura.

Nelle celle del Fusna Carlos è stato sottoposto per giorni a pratiche disumane senza che mai gli venisse tolta la benda dagli occhi. Gli hanno fatto la roulette russa: sentiva forte il rumore del grilletto del revolver contro le tempie. Lo tiravano con le corde alle estremità del corpo fino quasi a spezzargli i tendini. Se cadeva lo rimettevano in piedi a calci e poi lo appendevano per i piedi con dei ganci mentre gli applicavano la corrente elettrica per tutto il corpo.

Carlos non sapeva se sarebbe sopravvissuto, il dolore era lancinante e spietato. Non sapeva da quanti giorni si trovasse in quella cella umida, ma aveva una sola certezza: la voce di chi lo stava torturando era sempre la stessa dell’uomo che gli aveva puntato il mitra alla gola quando lo avevano sequestrato alcuni giorni prima.

39 anni dopo le torture e il sequestro, il 7 luglio 2016 Carlos Alberto Dosil è entrato nell’Aula bunker di Roma per testimoniare davanti ai giudici per il maxi-processo Condor. Si è seduto e ha ricostruito nei dettagli le torture, il sequestro, la prigionia e l’umiliazione. Ha descritto la fisicità e la voce del suo torturatore. All’inizio della sua testimonianza uno degli avvocati si è avvicinato al banco dove sedeva Carlos porgendogli una foto e domandando: «È questa la persona che l’ha sequestrata e detenuta nel 1977 a Montevideo?».

Carlos ha guardato l’immagine e non ha avuto esitazioni, ha restituito la foto all’avvocato dicendo: «Sì, è lui». L’avvocato ha preso la foto e l’ha appoggiata al banco. Lì, a colori, era stampato il volto senza sorriso di Jorge Nestor Troccoli.

Ex capo dei servizi di intelligence uruguaiani accusato della sparizione di decine di militanti, Troccoli dal 2007 vive in Italia e oggi 8 luglio la Corte di Cassazione emetterà la sentenza con cui ribalterà o confermerà l’ergastolo a cui è stato condannato in secondo grado nel luglio 2019. Troccoli negli anni ’70 faceva parte del Fusna, gruppo che aveva il compito di reprimere chiunque si opponesse alla dittatura.

Era anche il capo dell’S2, l’intelligence della marina uruguaiana, e nel 1977 divenne il militare di collegamento fra Argentina e Uruguay nell’ambito del Plan Condor, l’operazione nata nel novembre del 1975 a Santiago del Cile con cui otto Stati sudamericani si impegnavano a catturare, torturare e far sparire i militanti esiliati in America latina, negli Stati uniti e in Europa. Troccoli era un militare di spicco: sono decine le persone che testimoniano la sua presenza sia all’interno del Fusna che dell’Esma, uno dei più grandi centri di sterminio argentini, dove sono stati sequestrati più di 5mila cittadini.

Nel 2007 la giustizia uruguaiana ha cominciato a occuparsi del suo caso e, quando si è ufficialmente aperto un processo contro di lui, Troccoli è scappato rifugiandosi in Italia. Pochi anni prima aveva ottenuto la cittadinanza italiana grazie alle origini dei suoi avi e ha vissuto diversi anni di tranquillità insieme alla moglie Betina, prima nel piccolo comune cilentano di Marina di Camerota (da dove venivano i suoi avi) e poi a Battipaglia, in provincia di Salerno.

Fino a quando nel 2015 a Roma è stato istituito il maxi-processo Condor che riguarda 43 vittime di origine italiana sequestrate nell’ambito del Plan Condor. Gli imputati del processo sono 24 militari uruguaiani, cileni, boliviani e peruviani, fra cui Jorge Nestor Troccoli, l’unico attualmente residente in Italia. Il processo Condor è uno dei più grandi procedimenti giudiziari che riguarda i crimini commessi durante le dittature sudamericane degli anni ’70 istituito fuori dal continente.

C’è molta attesa per la sentenza che pronuncerà la Cassazione oggi a Roma, la condanna in secondo grado era stata storica: 24 ergastoli. Dal 2015 sono decine i testimoni volati a Roma per deporre contro Troccoli, il suo caso è molto noto anche in Uruguay, non solo perché è stato uno dei capi della repressione ma anche perché nel 1996 è stato il primo militare uruguaiano a raccontare pubblicamente quali erano state le pratiche del terrorismo di Stato durante la dittatura.

Dopo un’inchiesta apparsa sul giornale uruguaiano PostData in cui due testimoni accusavano Troccoli di aver preso parte al terrorismo di Stato, l’ex fuciliere uruguaiano, con una lunga e dettagliata lettera aperta inviata al quotidiano El Pais e perfino con la pubblicazione di un libro intitolato L’ira del Leviatano, ha ammesso di aver sequestrato e torturato i militanti che si opponevano alla dittatura.

Il fatto che Troccoli sia imputato nel maxi processo Condor è importantissimo e crea un precedente fondamentale per il nostro Paese: apre la strada per nuovi processi contro altre persone accusate di torture e omicidi avvenuti durante le dittature sudamericane degli anni ’70, che oggi risiedono in Italia.

Come Carlos Luis Malatto, ex tenente argentino accusato del sequestro e della tortura di decine di militanti, che vive nel nostro Paese da oltre 10 anni. Il 26 maggio 2020 il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato a istruire un processo contro di lui in Italia. O come don Franco Reverberi, ex cappellano militare accusato di aver assistito alle torture di vari detenuti in un campo di sterminio argentino. Reverberi oggi celebra messa a Sorbolo, piccolo comune in provincia di Parma. Lo scorso aprile dall’Argentina ne è stata richiesta per la seconda volta l’estradizione.

* Fonte: Elena Basso, il manifesto

Colonia Dignidad

Ci sono voluti 48 anni, ma le famiglie di Juan José Montiglio e Omar Venturelli, desaparecidos in Cile sotto la dittatura di Pinochet, hanno finalmente ottenuto giustizia. La Procura generale di Roma ha inoltrato al governo del Cile il mandato di arresto per Rafael Ahumada Valderrama, 76 anni, Orlando Moreno Vásquez, 80, e Manuel Vásquez Chahuan, 75, condannati in via definitiva dal Tribunale di Roma per l’omicidio e la sparizione dei due cittadini italiani.

I tre ex militari cileni erano già stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’Appello di Roma l’8 luglio 2019 insieme ad altri 21 repressori, tutti riconosciuti colpevoli del sequestro e l’omicidio di 23 cittadini di origine italiana residenti in Bolivia, Cile, Perù e Uruguay, nell’ambito del processo sul Plan Condor, l’accordo di cooperazione tra gli organi di repressione dei regimi militari latinomericani sostenuto dal Dipartimento di Stato Usa.

Un processo iniziato nel 1999 per iniziativa del procuratore Giancarlo Capaldo, a seguito delle denunce dei familiari delle vittime di origine italiana, sequestrate, torturate e fatte sparire dagli squadroni della morte e dai servizi militari e di polizia delle feroci dittature latinoamericane.

Per i tre ex militari cileni la condanna è già diventata definitiva, non avendo i loro difensori presentato ricorso in Cassazione. Per gli altri, scesi nel frattempo a 19 dopo i decessi dell’ex ministro dell’Interno boliviano Luis Arce Gómez e dell’uruguayo José Horacio “Nino” Gavazzo Pereira, bisognerà aspettare il prossimo 8 luglio, quando la Corte di Cassazione si dovrà pronunciare sul loro ricorso.

Ma la vera novità, come ha dichiarato l’avvocato Giancarlo Maniga, legale della parte civile nel caso Venturelli, nella conferenza stampa convocata ieri online dall’Associazione 24marzo, «non è tanto nella condanna definitiva alla pena massima, quanto nella possibilità che queste condanne vengano stavolta eseguite. La speranza è che l’Italia proceda con le richieste di estradizione e che il Cile confermi di volersi realmente affrancare dagli anni della dittatura, come sta ora cercando di fare attraverso una nuova Costituzione».

E un’altra novità, sotto il profilo giudiziario, è il fatto che sia stata riconosciuta la responsabilità «non solo dei vertici militari, ma anche dei quadri intermedi», come ha evidenziato Maria Paz Venturelli, figlia di Omar, auspicando che il governo eserciti ogni tipo di pressione per «ottenere che questa sentenza sia effettiva, questo sì sarebbe di importanza storica».

Ma in occasione della condanna dei loro carnefici non si può non onorare ancora una volta le vittime. Il socialista di origini piemontesi Juan José Montiglio era capo del Gap, la piccola «Guardia degli amici del presidente», una trentina di giovani che dovevano occuparsi della difesa personale di Salvador Allende e che erano riusciti a tener testa per quasi otto ore a soldati, carri armati e aerei.

Arrestato alla morte del presidente dopo il bombardamento de La Moneda dai militari di Pinochet, era stato poi visto insieme ad altri prigionieri al Regimento Tacna e, dopo due giorni di percosse e torture, fucilato, con altri collaboratori di Allende, nel poligono di tiro a Peldehue.

Omar Venturelli, uno dei sacerdoti che aveva accompagnato i mapuche nell’occupazione delle terre regalate ai coloni europei e per questo sospeso a divinis dal vescovo Bernardino Piñera (zio dell’attuale presidente), era entrato nel Movimiento de Izquierda Revolucionaria, si era sposato con Fresia Cea Villalobos ed era diventato professore all’Università Cattolica di Temuco. Pochi giorni dopo il golpe, inserito in una lista di ricercati, era stato convinto dal padre a consegnarsi spontaneamente alle autorità alla Caserma Tucapel, dove si sarebbero perse le sue tracce il 10 ottobre del 1973.

* Fonte: Claudia Fanti, il manifesto

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