Cile. Dittatura e impunità. Conosci Victor Jara

Catturato, torturato, finito a rivoltellate cinque giorni dopo il golpe: così spensero il canto del Cile. Dopo mezzo secolo, condannati gli assassini. Uno si è suicidato ieri per evitare il carcere, a 86 anni

Catturato, torturato, finito a rivoltellate cinque giorni dopo il golpe: così spensero il canto del Cile. Dopo mezzo secolo, condannati gli assassini. Uno si è suicidato ieri per evitare il carcere, a 86 anni

 

La giustizia – almeno un po’ di giustizia – è alla fine arrivata, anche se con mezzo secolo di ritardo: lunedì la Corte suprema del Cile ha condannato in via definitiva a pene tra gli 8 e i 25 anni di carcere sette militari in pensione per il sequestro e l’assassinio del musicista, poeta, regista e autore teatrale Víctor Jara e del direttore del servizio penitenziario Littré Quiroga, confermando la sentenza emessa dalla Corte d’Appello nel novembre del 2021.

PER RAÚL JOFRÉ González, Edwin Dimter Bianchi, Nelson Haase Mazzei, Ernesto Bethke Wulf e Juan Jara Quintana, tutti con età compresa tra i 73 e gli 86 anni e tutti con una buona carriera militare alle spalle, si apriranno ora le porte della prigione, dove di certo non vivranno abbastanza a lungo da scontare la pena di 25 anni. Tra loro non ci sarà però Hernán Chacón Soto, oggi generale di brigata ma all’epoca maggiore, che ha preferito togliersi la vita. L’ha trovato morto la polizia cilena, che era andata a prenderlo per portarlo in carcere. Aveva 86 anni. Era sua la pistola Steyr 9 mm da cui sono partiti cinque dei 44 proiettili che sono stati trovati nel corpo di Víctor Jara.

Otto anni dovrà invece scontare l’avvocato e colonnello Rolando Melo Silva, colpevole di aver occultato i due sequestri e i due omicidi. All’appello manca ancora l’ex tenente Pedro Barrientos, in attesa di estradizione dagli Stati Uniti, dove si era stabilito con il ritorno della democrazia e dove è appena stato privato della cittadinanza. In un processo civile la Corte federale della Florida lo aveva già riconosciuto, nel giugno del 2016, responsabile dell’assassinio del cantautore, condannandolo a versare alla sua famiglia un risarcimento di 28 milioni di dollari.

LA SENTENZA della Corte suprema è l’ultimo atto di una lunghissima vicenda giudiziaria – riflessa nelle 15mila pagine delle carte processuali – che aveva mosso i primi passi già nel 1978 ma era iniziata ufficialmente solo vent’anni più tardi, dopo l’arresto di Pinochet a Londra per crimini contro l’umanità. Ed è arrivata in un momento speciale, a pochi giorni dall’11 settembre, cinquantesimo anniversario del golpe contro Salvador Allende, e dal 16 settembre, cinquantesimo anniversario del brutale assassinio di uno degli artisti simbolo del movimento sociale e musicale noto come Nuova canzone cilena (di cui fanno parte anche Isabel e Ángel Parra, Inti-Illimani, Quilapayún).

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MA, BENCHÉ siano passati 50 anni, il ricordo dell’autore di «Te recuerdo Amanda» e di «Plegaria a un labrador», tra molte altre canzoni indimenticabili, non potrebbe essere più vivo. Che la sua opera musicale – centrata su temi come la fraternità, la giustizia sociale, la denuncia degli abusi del potere – sia sopravvissuta al passare del tempo, era emerso del resto nella maniera più chiara durante l’estallido social del 2019, quando le sue canzoni erano state tra le più cantate della ricca colonna sonora della rivolta popolare. Mentre a mantenere vivo il suo ricordo in Italia ci aveva già pensato Daniele Sepe con il suo album «Conosci Victor Jara?», pubblicato nel 2000 proprio da il manifesto allo scopo di far conoscere ai contemporanei la storia, la poesia e la musica dell’artista cileno.

Un artista che non si considerava neppure tale: «Sono un lavoratore della musica, non un artista. Il popolo e il tempo diranno se lo sono. In questo momento sono un lavoratore che si pone con una coscienza ben definita come parte della classe lavoratrice che lotta per costruire una vita migliore». Lo aveva dichiarato a Lima il 29 giugno del 1973. Non aveva quarant’anni. Gli restavano meno di due mesi di vita.

MILITANTE del Partito comunista e grande sostenitore del governo di Unidad Popular del presidente Allende, Jara era stato catturato il 12 settembre, il giorno successivo al golpe, all’Universidad Técnica del Estado, dove insegnava, e da lì condotto nell’Estadio Chile, inaugurato nel 1969 e trasformato dopo il golpe in un centro di detenzione e tortura: «Siamo in cinquemila, qui, in questa piccola parte della città», avrebbe scritto nella sua ultima poesia: «Canto, che cattivo sapore hai / Quando devo cantare la paura. / Paura come quella che vivo, / Come quella che muoio, paura».

IN QUELLO STADIO, che poi sarebbe stato ribattezzato nel 2003 Estadio Víctor Jara, il cantautore era stato selvaggiamente torturato dai militari, che avevano infierito in particolare sul suo viso e sulle sue mani, secondo quanto avrebbe riferito il giudice Miguel Vázquez durante il processo di prima istanza nel luglio del 2018. Che gli siano state tagliate le mani, però, è solo una leggenda, nata da un articolo dello scrittore Miguel Cabezas pubblicato il 2 gennaio del 1974 sul giornale argentino La Opinión e ripetutamente smentita dalla moglie Joan Jara, come ricostruisce lo storico Mario Amorós nella sua celebre biografia dedicata al cantautore, «La vida es eterna».

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Tra una tortura e l’altra, senza cibo e acqua, con alcune costole rotte e il viso sfigurato, Jara era riuscito anche a inviare un messaggio alla moglie e alle figlie attraverso un compagno che era stato liberato: «Di’ loro che sto bene. Non parlare di quello che mi stanno facendo. Non voglio che lo sappiano». Il 15 settembre, mentre i prigionieri stavano per essere trasferiti all’Estadio Nacional – lo stesso in cui il 21 novembre il Cile si sarebbe qualificato per i mondiali di calcio giocando da solo senza avversari (a causa del boicottaggio dell’Unione Sovietica) – lo portarono di nuovo nei sotterranei, sparandogli contro 44 proiettili.

IL SUO CORPO venne ritrovato in un terreno abbandonato vicino al cimitero di Santiago il 16 settembre, insieme ad altri prigionieri politici tra cui Littré Quiroga, e condotto al Servizio medico legale, dove un giovane funzionario, che aveva riconosciuto il cantautore, e temeva potesse essere sepolto in una fossa comune, aveva avvertito la moglie. Grazie a lui, Joan Jara aveva potuto seppellirlo in una nicchia del cimitero generale di Santiago.

Nel dicembre del 2009, dopo 36 anni, i suoi resti sarebbero stati esumati per ordine della giustizia cilena e sepolti in una cerimonia ufficiale alla presenza dell’allora presidente Michelle Bachelet. E di 12mila persone.

* Fonte/autore: Claudia Fanti, il manifesto

 

 

ph by Rec79, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons

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