La storia di Victor Jara, a voce alta contro i fascismi

Nei giorni scorsi la condanna dei nove assassini del cantautore e regista cileno, ucciso nel 1973 dai militari che gli spezzarono le mani e lo finirono a mitragliate. «Quando canto – diceva – cerco di riflettere gli ideali del popolo»

Che succede se un teenager curioso dei giorni nostri va a cercare le canzoni di Victor Jara su una delle tante piattaforme digitali in circolazione? Intanto trova la sua rotonda faccia sorridente, i tratti addolciti da indio Mapuche (da parte di madre) incorniciata di capelli ricci neri come foto di riferimento e un vasto repertorio di album, brani e poesie- centinaia di sue composizioni. Il formato originale di quelle canzoni era il vinile, gli ellepì pubblicati tra il 1966 e il 1973 con piccole case discografiche locali e anche con Emi-Odeon e Warner ma i suoi assassini cercarono le matrici originali e in gran parte le distrussero. Dall’anno scorso la Fondazione Victor Jara, l’associazione fondata dalla moglie, la ballerina Joan Turner, ha ripubblicato i vinili rimasterizzati, con l’aiuto dei tanti appassionati sostenitori che hanno custodito copertine, dischi e note.

«Siamo in cinquemila/ in questo piccolo angolo di città/Noi siamo cinquemila/Mi chiedo quanti siamo in tutto, nelle città e nel paese intero/Solo qui/ci sono diecimila mani che piantano semi/ e fanno funzionare le fabbriche/Quanta umanità/in preda alla fame, al freddo, alla paura, (…) Che orrore provoca il volto del fascismo/portano a termine i loro piani con precisione chirurgica/ senza curarsi di nulla/Il sangue, per loro, sono medaglie/ Il massacro è atto di eroismo/È questo il mondo che hai creato, Dio mio?».

Sono gli ultimi versi scritti da Victor Jara, nel settembre 1973, imprigionato nello Estadio Chile, insieme a migliaia di persone, dopo il colpo di stato dei generali infedeli. Raccontano i testimoni oculari che cercò di tenere alto il morale dei compagni reclusi, mettendosi a cantare. Poi fu preso in disparte, torturato, le mani spezzate in modo che non potesse più suonare e assassinato con una scarica di mitragliatrice, il suo corpo accatastato con decine di altri all’obitorio. Nei giorni scorsi il giudice cileno Miguel Vasquez ha condannato i nove colpevoli della morte del cantautore e regista teatrale, militari oggi in pensione, otto dei quali condannati a 15 anni di carcere per omicidio, più tre anni per il reato di sequestro, e uno chiamato a scontare cinque anni per complicità.

Victor Jara, in piedi, con gli Inti Illimani

La sentenza è arrivata alla fine di un lungo procedimento che ha permesso di individuare le singole responsabilità dei militari, ma anche quelle dell’allora direttore delle prigioni Littre Quiroga Carvajal. Quarantacinque anni dopo, la voce di Victor Jara continua a farsi sentire coi suoi meravigliosi lavori e coi tantissimi omaggi degli amici musicisti, dai Calexico agli U2, e poi Bruce Springsteen, Daniele Sepe, Robert Wyatt, i Clash. Jara è un grande esempio per tutti i musicisti impegnati, per tutti quelli vogliono combattere per migliorare le condizioni dei più umili, dei poveri, degli ultimi, per quei popoli che cantano la libertà e lottano per raggiungerla. Da bambino Victor, nato da un’umile famiglia contadina che lavorava in un fondo agricolo del centro-sud, accompagnava la madre, Amanda Martinez, cantautrice della zona di Chillàn, un territorio che conservava una grande tradizione di canti e danze, nelle occasioni pubbliche: feste, matrimoni e funerali.

Sono gli anni del payador, il poeta rurale che canta in rima con l’aiuto di una chitarra, e delle ricerche di Violeta Parra. Amico di Pablo Neruda, profondamente coinvolto nell’ascesa politica di Salvador Allende e di Unidad Popular, Victor Jara è stato uno dei maggiori esponenti della Nueva Canción Cilena, quel filone popolare e antimperialista, un’espressione musicale e poetica che sosteneva i movimenti operai e le battaglie degli studenti universitari, facendo una lunga gavetta alla Peña de los Parra, un locale di Santiago dove si esibiva regolarmente e si confrontava col pubblico.

«La molla delle sue canzoni erano un’intensa identificazione con i cileni diseredati – scrive Joan Jara, la moglie – una profonda consapevolezza delle ingiustizie sociali e delle loro cause e una ferrea determinazione a denunciare tali ingiustizie». Una delle sue prime canzoni famose è Preguntas por Puerto Montt, «Benissimo, adesso farò delle domande/per tutti coloro rimasti soli/e per chi è morto senza sapere./È morto senza saper perché/gli crivellavano il petto/ mentre lottava per il diritto/a una terra dove vivere». Puerto Montt fu teatro di un’occupazione di terre, nel marzo del 1969, dove quattrocento contadini senzatetto occuparono un fangoso terreno incolto di proprietà di una delle famiglie latifondiste più potenti della zona. Il gesto eclatante di 91 famiglie poverissime doveva servire a richiamare l’attenzione delle autorità. La risposta, invece, fu il massacro ordinato dal ministro degli interni Pérez Zujovich, che lasciò sul campo sessanta feriti e dieci morti, oltre a un bimbo di 7 mesi che rimase soffocato dalle bombe lacrimogene. Altre sue canzoni molto note, Luchin(dedicata a un bambino di una borgata) Manifiesto (una chitarra lavoratrice con profumo di primavera), Vientos del pueblo (la speranza contro l’infamia fascista), sono state portate in giro in tutto il mondo anche dagli Inti Illimani e dal gruppo Quilapayun.

Anche se probabilmente la più popolare è Te recuerdo Amanda, una storia d’amore tra due operai, rubando i minuti di pausa alla sirena della fabbrica, con un triste finale, Amanda perderà Miguel che andrà in montagna a unirsi ai gruppi di guerriglieri. «Io sono un lavoratore della chitarra, un cantante popolare – dichiarava Jara in un’intervista- Così spero che mi consideri il popolo cileno, perché quando canto, cerco di riflettere i suoi ideali, le sue gioie, le sue lotte. In ogni momento della mia vita sento sempre più profondamente che i dolori e le speranze di questo continente, colpito da secoli di sfruttamento, debbano finalmente arrivare a una meta, la libertà di tutti».

FONTE: Flaviano De Luca, IL MANIFESTO

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