Santiago, Italia. Nel paese innamorato di Salvador Allende

Cinema. «Santiago, Italia», il nuovo film di Nanni Moretti, racconta il golpe nel Cile del ’73 ma si rivolge all’Italia di oggi

C’è ancora chi ti domanda se in Cile ci siano problemi con la dittatura. In quel paese lontano geograficamente, nel tempo e nell’immaginario è tornato Nanni Moretti, ci chiedevamo perché proprio adesso che sembra così inattuale, non fosse per la sua consolidata democrazia, per avere avuto la prima donna presidente del latinoamerica, per essere oggi «la pantera» economica del continente. Nanni Moretti fa del suo viaggio un attualissimo intervento politico, specchio dei nostri tempi, rivolto a raccontare attraverso la storia qualcosa che non deve ripetersi. Ne fa una materia pulsante di vita e, senza quasi dare indicazioni, mostra come sia fragile la democrazia se non la si difende. Ci fa vedere in prospettiva come eravamo rispetto a come siamo diventati, come indica la dicotomia del titolo (Santiago, Italia). Oltre che l’amicizia tra i popoli indica anche un’allerta.

Se del documentario il film utilizza tutti i materiali come le interviste, gli spezzoni delle cineteche, delle televisioni e degli archivi, perfino talvolta la voce fuori campo, del cinema possiede la capacità di creare un’aspettativa crescente, di rendere emblematici i suoi personaggi, espanderne le parole nell’immaginazione, avanzare a colpi di scena, fare intravedere i fantasmi della Storia.

EPPURE quegli eventi si conoscono, tanti sono stati i film, molti li hanno vissuti: evidentemente non abbastanza se l’occidente intero flirta oggi con la destra, che non cambia mai. Non cambia soprattutto neanche in Cile, dove non solo i militari sotto processo si professano innocenti esecutori di ordini, ma strati della popolazione si dichiarano ancora di parte senza alcun dubbio.
Con un perfetto bilanciamento di materiali, anzi di etica cinematografica, la parola è data ai tanti militanti che vissero la stagione della dittatura, ben inquadrati e illuminati come veri protagonisti della storia, testimoni di episodi cruciali a cominciare dall’euforia del periodo di presidenza di Allende («era un paese innamorato») che Patricio Guzmán riprende nel suo film El Primer Año. Chi sono quegli imprenditori, operai, avvocate, giornaliste, educatrici, diplomatici che di fronte alla cinepresa raccontano in italiano i loro ricordi dell’11 settembre del ’73? Ognuno di loro ha una storia interessante, alcuni si riconoscono, altri la sveleranno nel momento chiave del racconto.

Nel film l’ultimo discorso del presidente assume un valore di testamento: «Non ho la vocazione del martire, voglio compiere una funzione sociale e non farò un passo indietro». Che sia stato assassinato non lo ha sostenuto solo Miguel Littin, quello di Allende è stato il più spettacolare assassinio in diretta della storia.

INIZIALMENTE, come prologo di una tragedia ecco le conquiste del primo paese socialista al mondo democraticamente eletto, con le politiche di alfabetizzazione, scuola gratuita e latte per i bambini, nazionalizzazione del rame e la brusca reazione della destra che riesce a bloccare il paese, dal commercio con il mercato nero, al fiancheggiamento della stampa fino alla potente macchina da guerra della Cia.

Mentre si susseguono le testimonianze, si sente per la prima volta l’intervento del regista con una sua domanda che fa ammutolire di commozione l’intervistato, un imprenditore a cui chiede «come guardi i tuoi anni di militanza?», e il silenzio che indica un grande conflitto interiore è rotto dalla considerazione inaspettata: «Non mi sono mai posto questa domanda» e sarà il primo indizio di una chiamata a raccolta.

POI ARRIVANO i racconti della rapidità del golpe, dello stadio dove sono ammucchiati i prigionieri politici (tra cui Guzmán e Paolo Hutter di Lotta Continua, Antonio Arevalo allora giovanissimo poi diventato l’addetto culturale del Cile), di Villa Grimaldi. La voce di Nanni Moretti prima appena accennata nelle interviste, si torna a sentire nell’incontro con un militare convinto di aver salvato il paese («il paese era sull’orlo della guerra civile e del resto Allende era stato eletto solo con il 36% dei voti»). E comparirà sullo schermo inaspettatamente in una dura scena girata in carcere a sovrastare un altro militare condannato che si proclama innocente e minimizza («in Argentina sono morti in 30mila, in Cile solo in 3mila»).

L’AMBASCIATA italiana a Santiago diventa il momento chiave del film, là dove molti dei personaggi intervistati trovarono rifugio scavalcando il muro di cinta (su questo eroico episodio Daniela Preziosi, Tommaso D’Elia, Ugo Adilardi realizzarono nel 2006 il documentario Calle Miguel Claro 1359), con racconti che nel passare del tempo ha assunto anche toni divertiti a dispetto dell’azzardo, del pericolo: l’Italia che non ha mai riconosciuto la giunta, aveva in sede i diplomatici De Masi e Toscano che decisero di accogliere a centinaia giovani, donne, intere famiglie di militanti, (e i bambini giocavano nel giardino a «el esiliado y el policia»), poi forniti di salvacondotto per l’Italia dove sono stati accolti con solidarietà per anni, la valigia sempre pronta per tornare. Immagine di un’Italia sparita.

* Fonte: Silvana Silvestri, IL MANIFESTO

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